martedì 28 giugno 2011

Grandi opere col trucco




Il ponte sullo Stretto. E poi autostrade, ferrovie, metropolitane...
Le infrastrutture promesse da Berlusconi restano una chimera: i soldi sono pochi.
Ma se alla fine si faranno, sarà con un metodo che occulta i debiti dello Stato. E lascia poi un buco all’Europa


Novembre 2002

La sera del 18 dicembre 2000 un Silvio Berlusconi in gran forma, ospite del salotto televisivo di Bruno Vespa, traccia su alcune cartine d’Italia le mappe delle grandi opere da realizzare. Strade, autostrade, ferrovie, ponti, metropolitane... Porta a porta, quella sera, diventa la più grande televendita della storia. «Guardi qua, il ponte sullo Stretto. Una grande opera, no? Ecco: si può fare. Servono 9 mila miliardi: i privati possono mettercene 4.500, l’Europa ne ha già stanziati altri mille, bastano solo altri 3.500 miliardi». Come rinunciare all’idea? Il passante di Mestre: «Costerebbe solo 1.500 miliardi». E poi via, un lungo elenco di mirabolanti offerte speciali, assolutamente imperdibili. Il paese di Bengodi raccontato con incrollabile entusiasmo.

Risultato: ottimo successo di audience (oltre 2 milioni e mezzo di telespettatori). E gran seguito di polemiche: per il trattamento di favore riservato da Vespa all’allora leader dell’opposizione, per lo spottone elettorale regalato al leader del centrodestra. In più, il radicale Daniele Capezzone invoca l’intervento di Striscia la notizia: «Questa puntata di Porta a porta costituisce una pagina televisiva che merita di essere a lungo conservata e studiata. In particolare la scenetta di un Berlusconi che sembra snocciolare a memoria nomi e numeri, ma in realtà ripassa i testi già scritti a matita sui cartelloni». Il ministro dei Lavori pubblici del governo ulivista in carica, Nerio Nesi, grida invece al plagio: «Per caso ho visto il capo dell’opposizione che disegnava il mio piano, e da un certo punto di vista sono stato anche molto contento. C’è una sola differenza: lui dà per scontato il ponte sullo Stretto, mentre io no».

Da quella puntata di Porta a porta sono passati quasi due anni e i nodi sono venuti finalmente al pettine. Le mirabolanti promesse della televendita elettorale non sono state mantenute. Anzi: «È meglio fermarci un minuto», ha dichiarato Berlusconi il 27 settembre, mentre era in corso il braccio di ferro sotterraneo per varare la nuova legge finanziaria e già la parola fatidica («sacrifici») era stata pronunciata. «È meglio fare magari anche un passo indietro nelle infrastrutture del traffico, strade e ferrovie, per poter poi fare un salto nel futuro e avere un Paese moderno. Ho infatti trovato nel cassetto dei progetti su strade, autostrade, ferrovie e alta velocità assolutamente tutti superati rispetto alle attuali esigenze e alle nuove tecnologie». La volpe dice che l’uva promessa è poco matura.

Che cosa succederà ora? Si faranno le grandi opere, prima fra tutte quel ponte sullo Stretto di Messina che delle promesse di Berlusconi è diventato il simbolo?

ATTO PRIMO. QUANTE?
La commedia delle grandi opere si sviluppa in tre atti. Atto primo: ma quali sono le «grandi» opere? quante sono? e in che cosa si differenziano dalle opere «normali»? Atto secondo: ma ci sono i soldi per farle? Atto terzo, e gran finale: se si facessero, con il sistema finanziario e d’appalti che è stato appositamente messo a punto, che cosa succederebbe del bilancio dello Stato?

Già sul numero delle «grandi opere» comincia il balletto delle cifre. Berlusconi, nella televendita da Vespa, ne indicava una manciata. Dopo la vittoria elettorale, nelle prime intenzioni del suo governo erano una decina, al massimo una dozzina di interventi strategici. Nella delibera Cipe del dicembre 2001 diventavano 220: un lunghissimo elenco di opere e operette messo insieme dopo il confronto tra il ministro incaricato della partita, il titolare delle Infrastrutture Pietro Lunardi, e i rappresentati delle Regioni che spingevano per allargare a dismisura la lista. Il Dpef (il documento di programmazione economica e finanziaria del governo) cercava poi di reintrodurre qualche criterio di priorità, indicando 21 opere «di serie A», che diventavano al massimo 36 considerando qualche intervento complesso. Le 21 (o 36) meraviglie d’Italia comprendevano l’Alta velocità ferroviaria, una serie di strade e autostrade (tra cui la Salerno-Reggio Calabria, l’asse viario Marche-Umbria, i nodi integrati di Roma, Genova, Napoli, Bari, Catania), il passante di Mestre, i valichi ferroviari del Frejus, del Sempione e del Brennero, il sistema Mose contro l’acqua alta a Venezia, interventi idrici al Sud e, naturalmente, il ponte sullo Stretto.

Poche, in verità, le novità: l’elenco sembra ripreso più o meno dal Libro bianco sulle opere pubbliche di Lamberto Dini, stilato nel 1995. E anzi, l’ideazione del sistema finanziario dell’Alta velocità, piatto forte del banchetto delle grandi opere, è perfino precedente, risale ai bei tempi di ’O Ministro, ovvero il democristiano napoletano Paolo Cirino Pomicino. Già i governi dell’Ulivo si erano comunque impegnati (ma senza propaganda televisiva) a realizzare più o meno le stesse opere, con la vistosa eccezione del ponte sullo Stretto, e il «comunista» Nerio Nesi, ultimo ministro dei Lavori pubblici prima dell’era Berlusconi, si era già dato da fare per rassicurare costruttori e impresari che ci sarebbe stato lavoro per tutti.
Ma perché «grandi opere»? Lo spiega, riservatamente, un costruttore piemontese: «Perché disciplinate da leggi speciali. Per aggirare le leggi ordinarie». Ma quanto siano «speciali» le opere e le leggi che le regolano lo capiremo soltanto arrivati al terzo atto della commedia.

ATTO SECONDO. E I SOLDI?
Non ci sono, i soldi per fare le opere, grandi o piccole che siano. Il Dpef prevede investimenti per grandi infrastrutture strategiche per oltre 125 miliardi di euro (poco meno di 244 mila miliardi di vecchie lire), con una spesa nel triennio 2002-2004 di 24 miliardi di euro (47 mila miliardi di lire). Il ministero delle Infrastrutture aveva assicurato che sul tavolo, per il prossimo triennio, c’erano 12 miliardi di euro, già destinati da leggi precedenti a specifiche grandi opere, mentre altri 8 miliardi sarebbero arrivati dal collegato alla legge finanziaria. Totale, circa 20 miliardi di euro: meno dei 24 necessari secondo il Dpef.

Poco male, tanto già la legge collegata alla Finanziaria 2002 aveva preso a colpi di scure le previsioni, ridimensionato le cifre e ridotto a 4,7 miliardi (invece di 8) le risorse destinate alle grandi opere. Mancano all’appello più di 6 miliardi di euro, da trovare chissà dove. Nel 2002 c’era già stato un calo degli stanziamenti pubblici per le opere (un 1 per cento in meno rispetto all’anno precedente). Ora è arrivata la Finanziaria dei «sacrifici» per il 2003: i particolari per le infrastrutture sono rimandati a una legge collegata, prevista per il prossimo novembre; ma già ora appare che, se non ci saranno ulteriori cali, non ci saranno neppure incrementi. E le opere straordinarie ruberanno risorse alle opere ordinarie. 
In più, lamentano i costruttori, il decreto legge 194 del settembre 2002 ha reso più difficile spendere anche i soldi che lo Stato ha già stanziato. Fino a ora, le cifre che non si riuscivano a spendere (i cosiddetti residui passivi) restavano a bilancio per i successivi tre anni, e c’era la speranza di recuperarle. Adesso non più: i residui passivi stanno nel bilancio dello Stato solo un anno, poi via. Poiché i tempi per completare una grande opera (ma anche una piccola) sono molto lunghi, è ipotizzabile la cancellazione di quasi tutte le risorse stanziate di anno in anno per la realizzazione di infrastrutture. I soldi – si lamentano i costruttori associati nell’Ance – spariranno via via che saranno bandite le gare, anzi anche prima.

Fare un’opera, infatti, è un’impresa. Dal momento in cui questa è immaginata, occorrono 511 giorni (cioè 1 anno e 5 mesi) perché venga consegnato il progetto. Altri 74 giorni (2 mesi e mezzo) perché il progetto sia approvato. Poi 161 giorni (oltre 5 mesi) per la pubblicazione del bando. Se le opere sono «grandi» (valore: più di 15 milioni di euro) per la progettazione occorrono 1.206 giorni (3 anni e 5 mesi) e altri 111 (4 mesi circa) per la sua approvazione. Non è finita. Ci vogliono 48 giorni per la presentazione delle offerte da parte dei concorrenti alla procedura d’aggiudicazione, 45 giorni per lo svolgimento della gara, 65 per la stipula del contratto, 42 per la consegna dei lavori. Insomma: per poter cominciare a spendere i soldi dello Stato, occorrono in media 904 giorni (circa 2 anni e mezzo).

Poi si arriva finalmente ai cantieri. Ma per aprire un cantiere ci vogliono in media 2 anni e 7 mesi, che diventano anche 4 anni e 9 mesi per le opere di grandi dimensioni. A questo punto, e solo a questo punto, possono cominciare i lavori veri e propri. Secondo i dati dell’Ance, questi durano in media 223 giorni. In definitiva: per realizzare un’opera pubblica occorrono 3 anni e 2 mesi, che diventano 5 anni e 4 mesi nel caso di grande opera. E questo se tutto va liscio. Cosa che, in Italia, è rara.

ATTO TERZO. L’AZZARDO
Il bello di tutto il castello di carte delle grandi opere pazientemente messo in piedi da Silvio Berlusconi, Pietro Lunardi e Giulio Tremonti (il ministro dell’Economia) è che, come tutti i castelli di carte, finirà per cadere. E rivelarsi, addirittura, una truffa ai danni dell’Unione europea. Potrà trascinare l’Italia nel pozzo senza fondo della bancarotta e perfino mettere in pericolo la stabilità dell’euro. Per verificare questa ipotesi nera, anzi nerissima, occorre farsi guidare da un ricercatore bolognese, Ivan Cicconi, già capo della segreteria tecnica del ministro Nesi e direttore del Quasco, un centro studi specializzato nel campo delle costruzioni.

Qual è il modello finanziario e contrattuale inventato per le grandi opere? È quello codificato da tre leggi. La prima è quella voluta da Berlusconi per le cosiddette opere strategiche, cioè la legge Obiettivo (numero 443 del 2001, con conseguente decreto legislativo numero 190 del 2002), che dà vita al deus ex machina del nuovo sistema, un dinosauro economico chiamato general contractor: cioè una mega-impresa a cui sarà affidato dallo Stato il compito di decidere tutto, progettazione, affidamenti, appalti, direzione lavori, esecuzione, collaudo... La seconda è quella definita da Tremonti, cioè la legge salva-deficit (numero 112 del 2002), che fa nascere dal nulla due società, due centauri un po’ pubblici e un po’ privati (di capitale pubblico ma di diritto privato): la Patrimonio dello Stato spa e la Infrastrutture spa. La terza nasce dalla testa di Lunardi ed è la legge delega sulle infrastrutture (numero 166 del 2002), che stravolge la precedente legge Merloni sui lavori pubblici e introduce la quadratura del cerchio, il miracolo per fare ciò per cui non si hanno i soldi: il project financing.

La trinità Berlusconi-Tremonti-Lunardi ha così inventato un modello nuovo, anzi nuovissimo, per far sorgere le grandi opere. In verità, i tre dovrebbero ringraziare un genio della Prima Repubblica, Cirino Pomicino, inventore nel lontano 1991 dell’architettura contrattuale e finanziaria della Tav, l’Alta velocità ferroviaria. Un po’ lo hanno ringraziato, citando la Tav quando è stato presentato il decreto attuativo della legge Obiettivo: «L’affidamento a general contractor ha consentito alle Ferrovie dello Stato di dimezzare i tempi di realizzazione delle tratte Alta velocità avviate, con una spesa finale non dissimile». L’affermazione, naturalmente, non trova riscontri in natura: per esempio la tratta Tav Bologna-Firenze (che Lunardi conosce bene, perché con la sua società Rocksoil è tuttora consulente dei lavori) è partita nel settembre 1991 con una previsione di spesa di 2.100 miliardi di vecchie lire.

Oggi sono passati 11 anni, i cantieri non sono ancora chiusi e i costi sono lievitati a 8.150 miliardi: raddoppiati i tempi, quadruplicati i costi. Ma queste sono quisquilie. L’importante è che il «nuovo» modello – in realtà il vecchio modello Tav con in più un tocco di cosmetici, un po’ di rossetto qua, un filo di rimmel là – abbia realizzato una sorta di sanatoria nei confronti dei profili di illegittimità del sistema Tav, già descritti e denunciati dall’Antitrust e dalla Procura di Perugia. E abbia introdotto il general contractor come soggetto economico incaricato della progettazione e della realizzazione, senza alcuna responsabilità sulla gestione finale dell’opera. E il project financing come sistema per attingere soldi privati, ma del tutto garantiti dallo Stato.

CENTAURI E DINOSAURI
Un bel sistema. Il general contractor progetta e costruisce l’opera, ma senza rischi: sa che non la gestirà, che non dovrà ricavarci i soldi spesi, perché questi sono interamente pagati e garantiti dallo Stato. Non ci si potrà stupire, dunque, se il general contractor spingerà a far durare il più possibile i lavori e a far lievitare al massimo i costi (esattamente quello che è già successo con le tratte dell’Alta velocità: dovevano costare 18.400 miliardi di lire nel 1991, nell’agosto 2001 costavano già 34.880 miliardi, alla fine lieviteranno, secondo una stima del Quasco, verso i 76.100 miliardi). Inoltre il general contractor, a differenza del concessionario tradizionale, di lavori o di servizi pubblici, potrà agire in regime privatistico, potrà affidare i lavori a chi vorrà, anche a trattativa privata, e qualunque cosa faccia non sarà mai perseguibile per corruzione: è un privato, eventuali tangenti saranno soltanto «provvigioni».

Altra idea geniale, quella del project financing: i soldi arriveranno in parte direttamente dallo Stato, e per il resto dai privati (le banche), ma garantiti totalmente dallo Stato, attraverso Infrastrutture spa o Stretto di Messina spa (società interamente pubbliche, ma di diritto privato). Così per anni lo Stato avrà un debito, ma occulto, che non sarà iscritto nel bilancio dello Stato e non inciderà nel calcolo dei parametri del Patto europeo di stabilità. Alla fine, però, al tavolo di poker delle grandi opere le fiches dovranno essere trasformate in soldi. Al termine dei lavori, dopo – chissà – una decina d’anni, la Tav spa, la Infrastrutture spa, la Stretto di Messina spa (e, in ultima analisi, il ministero dell’Economia) dovranno restituire i prestiti delle banche. E di colpo si aprirà una voragine. Capace di affondare l’Italia e di trascinare nel disastro l’euro.

Perfino l’Ance (l’associazione dei costruttori italiani) è arrivata a fischiare il numero due di Lunardi, il viceministro Ugo Martinat, durante una manifestazione organizzata il 26 settembre alla Luiss di Roma. Ormai solo l’Agi (l’associazione che riunisce le trenta imprese grandi e grandissime) plaude alla linea Lunardi e lo appoggia con trasporto, aiutandolo anche all’interno del ministero. Dicono i sostenitori del modello grandi opere: le opere garantiranno utili sufficienti a pagare i debiti. Veramente improbabile: per la sola Tav la quota annua da restituire sarà prevedibilmente intorno ai 5 mila miliardi di vecchie lire; la quota annua di utili disponibili grazie ai biglietti ferroviari potrà arrivare al massimo attorno ai 500 miliardi di lire.

Per uscire da questa situazione, dunque, dovremmo sostenere per una quindicina d’anni una manovra finanziaria pari a 4.500 miliardi di lire. Povera Italia, povera Europa. Ma intanto, che importa. Il ponte sullo Stretto avrà la posa della prima pietra, si taglieranno nastri e si stapperanno champagne. Politici sorridenti cominceranno a far «girare soldi», a dare appalti e subappalti, ad accontentare amici e amici degli amici, a raccogliere applausi e voti. Domani, si vedrà.

sabato 25 giugno 2011

Clima, la Corte Suprema americana 'benedice' il riscaldamento globale


Gli ambientalisti statunitensi perdono l’ennesima battaglia, sottolineano alcuni media americani all’indomani della sentenza della Corte Suprema che ha letteralmente stroncato, con voto unanime (8 – 0), la causa volta a limitare le emissioni di gas serra di American Electric Power Co Inc, Southern, Xcel Energy Inc, Duke Energy Corp e TVA, ovvero le 5 multinazionali dell’energia, a cui va attribuito il 10 per cento di anidride carbonica ‘Made in USA’.
È la sconfitta degli ambientalisti e di alcuni Stati americani, California, Connecticut, Iowa, New York, Rhode Island, New Jersey, Wisconsin e Vermont (sebbene New Jersey e Wisconsin abbiano ritirato il loro sostegno recentemente dopo la nomina di due governatori repubblicani) che nel 2004, durante l’amministrazione Bush Jr., avevano indetto causa contro le cinque multinazionali per aver inquinato aria e acqua da loro utilizzata. Una sconfitta dell’intero movimento, quindi, e dell’amministrazione Obama, che nel suo programma elettorale aveva promesso grandi passi in avanti nella lotta al cambiamento climatico.
Ma soprattutto è la sconfitta di chi a gran voce continua a promuovere politiche volte a ridurre le emissioni globali di CO2, causa principale del riscaldamento globale. È la sconfitta dell’UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change) che dopo i passi indietro registrati al termine degli incontri tecnici di Bonn, prosegue la strada per la COP (Conference of Parties) di Durban (Sudafrica) con la consapevolezza che il Protocollo di Kyoto, che scadrà nel 2012, possa rimanere l’unico e solo documento vincolante in materia di clima della nostra storia.
Del resto, se nel giugno 2011 “i governi stanno realizzando che ci sono delle questioni che hanno bisogno di essere regolate con soluzioni globali”, come si legge nel comunicato stampa dell’UNFCCC a firma della sua Segretaria esecutiva, Christiana Figueres, significa che qualcosa proprio non va. La soluzione è una ed una soltanto, come indica la stessa Figueres, ovvero che “i governi possano raddoppiare i propri impegni e presentare soluzioni che possano essere accettate da tutte le parti”.
Parole che si rincorrono e si ripetono ormai da decenni, mentre le emissioni di gas serra continuano ad aumentare così come il rischio che l’innalzamento della temperatura globale superi i due gradi centigradi, ovvero il punto di non ritorno come indicato da gran parte della comunità scientifica.
Secondo le ultime stime fornite all’inizio di giugno dall’Agenzia Internazionale per l’Energia (International Energy Agency – IEA), infatti, le emissioni di gas serra derivanti dalla produzione energetica mondiale hanno raggiunto livelli record nel corso del 2010: 30,6 gigatonnellate, il 5 per cento in più rispetto all’anno record precedente, il 2008.
Ma per molti sono solo chiacchiere e alla fine, come sottolinea una battuta della miniserie TV, Burn Up – la cui storia si sviluppa attorno ad un summit sui pericoli legati al cambiamento del clima – durante il dialogo acceso tra i due antagonisti: “Chi si prenderebbe ora la responsabilità di dire al mondo di staccare la spina?” Chi infatti, dall’alto degli scranni del potere, avrebbe il coraggio di dire che è necessario cambiare i nostri stili di vita, rinunciare all’agio di cui oggi ancora godiamo e che rimane un sogno per milioni di persone? Chi sarebbe in grado di, non dico fermare, ma limitare le emissioni di gas serra? Chi, tra di noi, avrebbe realmente il coraggio di fare questo?
La Corte suprema americana non di certo, anche perché nella sentenza si specifica chiaramente che solo il Congresso e l’Environmental Protection Agency (EPA) possono decidere in materia di riduzione delle emissioni, attraverso il Clean Water Act e il Clean Air Act, che al momento regola “l’inquinamento da smog tradizionale”, ma non quello da anidride carbonica. Quel Congresso che dal 1997 si rifiuta di firmare un Protocollo, quello di Kyoto, ormai vecchio e incapace anche di limitare il danno.
Qualcuno spinge l’Europa a dare la scossa necessaria a fare progressi, dopo che a Bonn i canadesi, affiancati da russi e nipponici, ovvero il gruppo dei più accesi nemici del post-Kyoto, hanno confermato che non firmeranno nessun nuovo impegno di taglio delle emissioni fino a quando i Paesi emergenti come Cina, India e Brasile non lo faranno anche loro. Tre Paesi che firmerebbero, secondo il giudizio di commentatori e analisti, se Washington dichiarasse la sua disponibilità.
“Dimenticatevi Kyoto. Kyoto è morto”, è il titolo di qualche giorno fa in prima pagina del Tageszeitung, il quotidiano alternativo di Berlino molto interessato al tema del riscaldamento climatico, sebbene molte agenzie internazionali come la britannica Reuters sottolineino che il Vecchio continente sia ancora il principale sostenitore di Kyoto. Forse, ma le promesse devono diventare realtà per ridurre le emissioni.
Qualcuno, come Dennis Pamlin su China Daily (edizione per l’Europa in lingua inglese), ipotizza un’unione nella lotta ai cambiamenti climatici tra UE e Cina, o meglio, “la squadra perfetta per sviluppare soluzioni a basse emissioni di anidride carbonica”. In attesa che il sogno diventi realtà, è necessario che cambino anche le percezioni di Bruxelles nei confronti di Pechino, sottolinea Pamlin, secondo cui la Repubblica Popolare cinese non è quel “drago aggressivo”, come spesso pensano gli europei. È necessaria, soprattutto, una reciproca comprensione della storia, della politica e di tutti gli aspetti che riguardano la cultura di un Paese, dal cibo alla letteratura, soprattutto tra “gli uomini di impresa”.
Mentre negli USA si confermano certezze e in Europa si dibatte e si discute, da Pechino si aprono le porte per una conferenza internazionale in cui emergano soluzioni per sviluppare un’economia a basse emissioni. Una conferenza che apre le porte ad oltre 30 organizzazioni internazionali e diversi rappresentanti di governi – tra cui USA, Regno Unito, Unione europea, Italia, Svezia, Nazioni Unite, Asian Development Bank, World Bank e l’Intergovernmental Panel on Climate Change – secondo quanto confermato da Huang Wenhang, della Commissione per le riforme e lo sviluppo nazionale. Presenti anche rappresentanti di multinazionali del petrolio, come BP, Sinopec e PetroChina.


“Che sia benedetto il riscaldamento globale!” Con questa frase si conclude il dialogo tra i due contendenti di Burn up. Se avessero ragione gli scienziati, infatti, non ci sarà neanche il tempo di colpevolizzare qualcuno, o andare a cercare le ragioni di un mancato intervento, visto che dovremmo far fronte ad una delle emergenze potenzialmente più gravi che l’uomo moderno e tecnologico abbia mai visto su questo Pianeta.
 Di Roberto Tofani
Articolo tratto da Planetnext

giovedì 23 giugno 2011

I PADRONI (VERI) DEL MONDO

Chi sono i padroni dei destini del mondo?
Chi tira le fila del teatrino della politica?
A quali interessi si immola la vita di miliardi di persone?




Alcune possibili risposte nel video

IL CAMMINO

Tutti i miei passi devo capire
da dove vengo e dove vado a finire.
I rovi e le spine, segnano il destino
Il sole a tratti illumina il cammino
il mistero della vita e dell’universo
tra provette e microscopi s’è perso.
Chiese e prelati che han capito tutto
mi volevan schiavo del morso di un frutto,
il mistero e la libertà dall’apparenza
arrivano a me  dal sentire e conoscenza..

M.M.

Nucleare: dopo l'Italia anche la Francia potrebbe proporre un referendum per dire no alle centrali


Dopo l'Italia, la Francia. La presa di posizione italiana, svizzera e tedesca contro il nucleare inizia ad avere ripercussioni anche su altre popolazioni, decise a dire addio ad una tecnologia pericolosa e obsoleta. L'associazione Agir pour l’environnement ha infatti già raccolto ben 26.000 firme per proporre anche in Francia unreferendum popolare contro il nucleare, reclamando a gran voce nella petizione il potere decisionale del popolo: "Il capo dello Stato si è impegnato solo a prendere in considerazione, a lungo termine, un dibattito tra esperti, a livello europeo... Il popolo è una volta ancora escluso delle grandi decisioni che lo riguardano. Noi non accettiamo più la morsa dell'oligarchia eco-predatrice. Noi non accettiamo più una tecnologia nucleare pericolosa ed antidemocratica. Noi reclamiamo un referendum per uscire dal nucleare".
Il popolo francese segue dunque l'esempio italiano e prova la carta del referendum, lanciando dure critiche ad un paese che "resta fermo nei suoi stivali" e al presidente Sarkozy che, si legge sempre nella petizione"tenta di rispondere maldestramente alla catastrofe nucleare di Fukushima annunciando un’ennesima Grenelle che mal nasconde la sua volontà di salvare il soldato «nucléaire». [...] La caparbietà di cui da prova il Capo dello Stato rispetto al nucleare rilvela la più assoluta irrazionalità".
E anche in Francia, ovviamente, si prende come esempio negativo la tragedia di Fukushima"Il Giappone, dopo l'Ucraina e gli Stati Uniti, subisce nel più profondo della sua carne la follia nucleare. Per non aver creduto, o saputo voler pensare l'impensabile, le nostra umanità è ancora una volta di fronte ad una catastrofe nucleare". Per questo l'associazione Agir pour l’environnement si impegna a porre la rinuncia al nucleare come tema centrale della prossima campagna elettorale, cercando di portarlo alla ribalta dell'agenda di cittadini, istituzioni e media.

Contemporaneamente, alcune organizzazioni nazionali e internazionali come Rete nazionale antinucleare italiana, Réseau zéro nucléaire, Mouvement des citoyens lotois pour la sortie du nucléaire e Les Jeûneurs Vigilants de Taverny, insieme a movimenti antinucleari e belgi, lanciano un appello internazionale per il rispetto della vita, chiedendo lo scioglimento dell'Agenzia Internazionale dell'energia atomica che "continua le sue scandalose pratiche industriali e commerciali con la complicità attiva delle oligarchie delle nazioni dominanti".
Il disastro giapponese ha scosso gli animi, inducendo governi e popolazioni a ripensare le politiche energetiche nell'ottica di una maggiore sicurezza e sostenibilità ambientale. E nonostante Fukushima non faccia più parte delle priorità dei media, le immagini del Giappone sono ancora vive e nitide negli occhi di molti, tanto che in rete circola una "Petizione mondiale per Fukushima" in inglese, italiano e francese, che chiede alle Nazioni Unite, all'OMS e a tutte le organizzazioni internazionali e governi di aiutare il popolo giapponese a superare il terribile disastro. Non rimane ora che attendere i risultati della raccolta firme in Francia, per vedere se ci sarà una nuova mobilitazione per un deciso NO al nucleare. Di Eleonora Cresci

mercoledì 22 giugno 2011

Le 13 idee che possono salvare il capitalismo - Chi salverà il capitalismo - La ricetta per uscire dalla crisi


CON UN ARTICOLO DI BILL CLINTON La ricetta per uscire dalla crisi in 13 punti degli economisti Usa. Un mercato dal lato umano, senza l'assillo del profitto e del Pil Chi salverà il capitalismo Ripensare le priorità del mercato, rendere le imprese più democratiche e liberarci dalla tirannia del profitto e della speculazione. Utopia? Negli Stati Uniti pensano di no Da studiosi e manager la lista delle idee utili alla rivoluzione. C’è chi lo battezza "capitalismo inclusivo" e chi preferisce "capitalismo democratico". Non conta l’etichetta ma il contenuto: un cambio radicale di priorità, regole e valori, un nuovo umanesimo che comanda l'economia. Meno finanza, meno diseguaglianze, una diversa gerarchia nei luoghi di lavoro, un mondo imprenditoriale con finalità alternative al solo profitto. Non è un libro dei sogni, è il risultato di una vasta consultazione avvenuta in America tra imprenditori, innovatori, giuristi, studiosi di ogni disciplina, dalla finanza alla proprietà intellettuale. Il dibattito lo ha lanciato la rivista The Nation, laboratorio di idee della sinistra americana, con il titolo Reimagining Capitalism e questa domanda: "Immaginate di poter reinventare il capitalismo, da dove comincereste?" E inoltre: "Cosa si può cambiare per renderlo meno distruttivo, più centrato sui reali bisogni dell'umanità, per orientarlo a rendere le nostre vite migliori?" Le risposte potevano sbizzarrirsi ai confini dell'Utopia. Invece si sono mobilitati protagonisti dell'economia, esperti di rango, con un elenco di proposte concrete, 13 grandi idee, progetti per cambiare da subito. Il successo dell'iniziativa rivela una voglia di riforme ben più diffusa di quanto appaia dal dibattito politico tradizionale. «Tutti hanno in comune una caratteristica— commenta il caporedattore di The Nation, William Greider— è gente allenata a pensare nel lungo termine, con esperienze concrete dal business alla finanza, attivisti e ottimisti, capaci di sfoggiare un'inventiva sorprendente». È la prova che l'America «è ancora viva e vitale, ricca di pensiero giovane, propensa a lanci arsi verso grandi cambiamenti». Alcune di queste proposte innovative si stanno già facendo strada da sole, dentro la società civile, con un'esplosione di iniziative dal basso. Poche di queste idee circolano nei partiti, ancora prigionieri di schemi arcaici: la destra vuole "lo Stato minimo", i democratici o sono sulla difensiva o si limitano a invocare "più Stato". Mentre dalle 13 idee per cambiare il capitalismo emerge una certezza comune: c'è bisogno "di uno Stato più forte, non più grosso", una distinzione importante visto che l'Occidente intero dovrà affrontare per diverse generazioni un risanamento delle finanze pubbliche. Gli esperti che hanno aderito all'iniziativa di The Nation non chiudono gli occhi di fronte a una delle contraddizioni della sinistra: «Non basta invocare più regole, visto che il fallimento delle regole è stata una delle cause dell'ultimo spaventoso tracollo del capitalismo». E proprio dalla colonna portante del capitalismo, cioè l'impresa, partono alcune delle idee d'avanguardia raccolte su The Nation. "Benefit Corporation", traduzione Impresa Benefica: è una società per azioni il cui statuto sociale e ragion d'essere sia diversa dal profitto. Non è un sogno, è un cambiamento delle normative già in atto in Califomia, New Jersey, Maryland, Virginia e Vermont, tutti Stati che hanno modificato il codice civile per consentire la diffusione di aziende che costruiscono «un'economia di mercato ma non una società di mercato». Jamie Raskin, giurista costituzionale e senatore del Maryland, elenca diverse Benefit Corporations che hanno come finalità obbligatoria «un impatto positivo sulla società e l'ambiente: alcune si occupano del risanamento di fiumi, altre operano nell'edilizia popolare, altre ancora combattono l'analfabetismo di ritorno». È un movimento reale, il B Lab di Philadelphia ha già censito oltre 400 Benefit Corporations. E a differenza dello statuto generico di cooperative, il marchio delle Benefit Corporations si può perdere: «Se I'azienda non trattai propri dipendenti, la comunità locale e l'ambiente con lo stesso rispetto che ha per gli azionisti». William Lerach, noto avvocato che ha vinto battaglie storiche in difesa dei consumatori e dei piccoli azionisti (ottenne 7,2 miliardi di rimborsi per i soci di minoranza Enron) spiega come introdurre «un poliziotto in ogni consiglio d'amministrazione, imponendo alle S.p.a. un amministratore indipendente che per legge protegga gli interessi dei dipendenti e del pubblico», aggirando le costruzioni barocche e inutili della corporate governance. Kent Greenfield, giurista del Boston College, spiega perché va abolita la "responsabilità limitata": nata per favorire gli investimenti imprenditoriali (isolando il capitale d'impresa dalle proprietà dei singoli azionisti) è diventata la causa di una dilagante irresponsabilità capitalistica. "L'imprenditore che rischia in proprio, che perde se sbaglia": questa figura d'altri tempi, così lontana dall'impunità recente invalsa ai vertici del capitalismo, torna in auge grazie agli Employee Stock Ownership Plan (Esop): 11.000 aziende sono state comprate dai loro stessi dipendenti, in tutto 12 milioni di lavoratori. II giurista Vincent Pan-vini estende la lezione a tutte le imprese: «Contro la figura del chief executive deresponsabilizzato, che si arricchisce coi paracadute d'oro anche quando rovina l'impresa, tutte le regole retributive del top management devono essere tassativamente allineate alla salute dell'azienda». Joe Costello prevede gli enormi vantaggi perla collettività dall'estensione sistematica dei principi "dell'open information", riducendo l'appropriazione privata delle scoperte e della proprietà intellettuale da parte delle multinazionali. Sarah Anderson dell'Institute for Policy Studies rilancia la tassa sulle transazioni finanziarie con un progetto concreto per risolvere i dissensi tra Europa e Stati Uniti. Robert Weissman che dirige il movimento Public Citizen prende ispirazione dal salvataggio statale di General Motors e Chrysler, e spiega tutte le leve d'influenza che il governo può mobilitare per orientare gli investimenti privati: a vantaggio delle energie rinnovabili, per la tutela della salute, la ricerca scientifica. Barbara Dudley racconta come sta prendendo piede nell'Oregon una nuova forma di micro credito, che aggira il potere delle grandi banche e garantisce finanziamenti a chi ne ha più bisogno: studenti universitari, piccole imprese, cooperative. Joseph Blasi, Richard Freeman e Douglas Kruse sono tra i più autorevoli esperti di relazioni industriali a Harvard e Rutgers: insieme firmano la proposta che rivoluzionerebbe gli incentivi fiscali per le imprese, limitandoli a quelle che riservano all'80% della manodopera (la parte bassa della piramide gerarchica) le stesse risorse che servono a pagare il 5% del top management. Una ricetta semplice per invertire la tendenza all'ipertorfia dei superstipendi e al patologico aumento delle diseguaglianze. Tra gli imprenditori spicca Leslie Christian, chief executive di Portfolio 21 Investment: «L'attivismo dei risparmiatori può scavalcare i ritardi dei governi nel promuovere uno sviluppo sostenibile per l'ambiente. Aumentano i fondi che escludono sistematicamente dai loro portafogli d'investimento le energie fossili e vanno in cerca di opportunità di lungo termine solo in aziende che hanno una strategia di riduzione nei consumi di risorse naturali». Ray Carey, che è stato chief executive di Adt, affronta il problema che assilla l'esercito delle "pantere grigie", la generazione del baby-boom che comincia adesso ad andare in pensione senza garanzie sui propri redditi futuri: «Un sistema di retribuzione degli amministratori dei fondi pensione, che vincoli i loro stipendi ai risultati di lungo termine». Le 13 idee sono riforme a costo zero, non richiedono nuove risorse pubbliche, spesso anzi le fanno risparmiare (come lo sfoltimento dei privilegi fiscali per la rendita finanziaria). Ignorarle significa rassegnarsi a «un'economia patologica, una finta ripresa, con salari declinanti, debito pubblico e debito estero in aumento, il ceto medio che s'impoverisce». In comune, gli autori che hanno raccolto la sfida da The Nation hanno la caratteristica di pensare "out of the box", fuori dalle consuetudini, ribellandosi alla pigrizia mentale. Sono a tutti gli effetti degli imprenditori sociali, pionieri dell'innovazione nella migliore tradizione americana Il più grosso sforzo che si richiede per reinventare il capitalismo, è "immaginazione morale e spirituale". Questo serbatoio mostra di essere ancora abbondante in America, non aspetta che arrivi il nulla osta dall'alto per mobilitarsi e sperimentare.
13 idee per rifondare il capitalismo: Più società cooperative no profit o con finalità sociali in alternativa alle attuali società per azioni - Controllori indipendenti direttamente nei consigli di amministrazione - Tassa sulle transazioni finanziarie per ridurre il peso di Wall Street e della speculazione -  Smettere di considerare il Pil come unico indicatore del benessere economico di una nazione - Maggior potere d'intervento al governo nel settore privato - Incoraggiare la pratica dei dipendenti-proprietari - Creare delle banche di proprietà statale per aiutare l'economia locale - Togliere la responsabilità limitata delle aziende rispetto ai danni provocati dalle loro attività - Detrazioni fiscali alle retribuzioni e ai bonus solo se coinvolgono la maggioranza dei lavoratori - Investire nelle aziende che lavorano per la sostenibilità a lungo termine - I compensi dei manager delle grandi aziende devono seguire le stesse regole di quelli delle piccole - Favorire lo scambio di idee e combattere l'abuso delle leggi sulle proprietà intellettuale - Proteggere i fondi pensione dalla speculazione finanziaria.
Di Rampini Federico (La Repubblica)

martedì 21 giugno 2011

RELIGIONE E SENTIMENTO RELIGIOSO, STESSA COSA?



“Sei credente?”-“ Certo che si!” –“Ma come si fa al giorno d’oggi  a credere in questa religione a questa Chiesa, a chi fa guerre in nome di Dio, e poi le parole del Papa su omosessuali, coppie di fatto …….”
Alt, per favore alt!
Quante volte molti si sono dovuti confrontare con queste argomentazioni. essendo per la maggior parte degli uomini, sia credenti che atei, difficile separare l’idea di Dio da quella delle religioni organizzate.
Cosa piuttosto comprensibile visto che fino a l’altro ieri e per molti ancora oggi, l’idea stessa di un creatore presuppone la presenza di intermediari che autoreferenziandosi, ne trasmettano il verbo e lo traducano per il popolino in concetti semplici attraverso riti, comandamenti, richieste di fede aprioristica e soprattutto non disdegnando il potere temporale che esercitano in modi non difformi da quello di altri regimi totalitari, con la differenza che il tutto è santificato dal farlo non per sé, ma per la maggior gloria di Dio.
Ora non si fa fatica a riconoscere che le religioni ,nel corso dei secoli, abbiano svolto una funzione, per così dire pedagogica, nei confronti di una massa per lo più ignorante e abbrutita che, senza quei precetti morali provenienti da comandamenti imposti, si sarebbe potuta facilmente abbandonare a atteggiamenti di violenze e lassismo morale molto più di quello che, effettivamente, non sia già  stato. E non potendo fare a meno di riconoscere che numerose e luminose figure nel corso dei secoli,  hanno espletato la loro opera e il loro lavoro all’interno delle organizzazioni religiose non diminuendo di una virgola la grandezza delle loro vite e delle loro opere. Detto questo e dato a Cesare quel che è di Cesare, oggi è ancora ipotizzabile un rapporto con l’idea del creatore e tutto ciò che ne consegue, in termini di lettura, comprensione e accettazione, che passi e venga mediato attraverso i canali istituzionalizzati delle religioni?
Il livello di cultura raggiunto (almeno nel mondo occidentale), l’evoluzione della società in senso di maggiori libertà individuali, la maggiore possibilità di essere svincolato dal soddisfacimento dei bisogni primari, e il maggior tempo disponibile per se stessi hanno permesso all’essere umano di porsi e soprattutto di cercare risposte più soddisfacenti agli eterni interrogativi che si agitano nell’animo di ognuno. Alcuni rifiutando le religioni rifiutano di affrontare l’idea stessa di Dio, e si abbandonano a una vita spesa alla ricerca dell’appagamento dei sensi e nel riconoscimento di un ruolo di prestigio e potere nella società, e, per quanto riguarda problemi di natura morale o per domande scomode affidandosi al “così fan tutti” o all’infallibiltà vera o presunta della scienza, partecipando ai riti religiosi per mero “dovere sociale” e d’immagine. 
Altri partecipano, comunque, con convinzione,all’idea e alla vita delle religioni di appartenenza essendo sufficiente, per loro la scelta di fede acritica e che riescono a vivere in maniera serena e anche coerente la loro vita, riuscendo a esercitare, anche attività, degne di ammirazione nel campo sociale e della carità.
Poi ci sono quelli che fanno del dubbio e della riflessione critica, in primis su se stessi, il proprio modus vivendi. Ed è proprio in questi e dal loro peregrinare da un impegno all’altro nella vita sia esso politico, sociale, ambientalista, che negli ultimi decenni si è affacciata a livello di massa una nuova visione e del sentire religioso, che possiamo definire spirituale. Che si manifesta, inizialmente con un non riconoscersi, nelle favolette trasmesse dalle religioni  e immediatamente accantonate, dalla non capacità di uniformarsi a un pensiero unico presente nella società, sentendo forte dentro di sé che, il senso della vita non può essere semplicemente, un attraversarla da alfa ad omega senza riempirla di significati che siano essi ideali di giustizia, libertà, fratellanza ecc. ecc.
Ecco, allora manifestarsi l’esigenza di impegnarsi nel politico e nel sociale, salvo dopo un po’ ritirarsi  delusi e scoraggiati, abbracciare allora le campagne di sensibilizzazione per la salvaguardia dell’ambiente, tuffarsi nel volontariato, ma arrivando poi, a sentire sempre una certa insoddisfazione e incompletezza. Cosa manca, allora? Manca la parte più profonda e vera del nostro Io che attende il suo momento per manifestarsi e che scalpita sempre più e che cominciamo, senza per questo sentirci sminuiti a chiamare Spirito, non essendo certo un nome che può dare un senso più o meno valido alle cose. Ci si accorge, allora, che tutto ciò che sentivamo e facevamo, non era certo sbagliato, ma forse incompleto, e che la ricerca che si inizia in piena libertà e svincolati da dogmi e precetti nulla toglie ma aggiunge valore alle nostre scelte rendendo il cammino su questa palletta persa nell’universo molto più interessante e significativo.


Tornando alla domanda iniziale appare chiaro che si può essere credenti senza per questo appartenere ad alcuna religione, essendo la scoperta del divino cosa assolutamente personale ed il rapporto con esso estremamente diretto e intimo, essendo tutto in noi e fuori di noi.

Mizio

lunedì 20 giugno 2011

Solitudine, Stato dell'Anima


Siamo soli tutti, benché ci si circondi di tante persone, tante cose. Nel momento più intimo siamo soli: possiamo pensare di far partecipare altri alla nostra vita, ma nell'atto stesso di questo pensiero si è soli.
Abituati a considerare la solitudine come una condizione spiacevole, a volte spaventevole, spesso diventa per noi un nemico da fuggire a qualsiasi costoPreferiamo perderci dietro distrazioni di ogni sorta, vivere con frenesia, tenendoci occupati con impegni continui piuttosto che fermarci ed osservarci. La solitudine è la condizione di ogni individuo, nonostante tutti la temono, la rifuggono come cosa di cui aver paura.Questa valenza negativa che le associamo deriva anche da un impulso ancestrale, da sempre l'uomo come tutte le specie animali si riunito in gruppi e tribù, per trovare nella propria comunità protezione e garanzia di continuità. Vi sono ancora solitudini imposte dalla società. Si tende ad isolare chi non appartiene ad un gruppo prestabilito (tifo, politica, religione) emulando un senso di appartenenza in cui ci si unisce e ci si sente più sicuri, senza correre il rischio di rimanere fuori. I mezzi di comunicazione, i mass-media, gli slogan pubblicitari ci invitano a distinguerci esprimendo modi di vita che da una parte accentuano l’individualismo, ma in realtà raggiungibili solo con comportamenti ed oggetti uguali per tutti. Questi messaggi, per loro natura contraddittori, alimentano in noi la fuga e la ricerca di un rifugio che limita la crescita e lo sviluppo dell’autonomia individuale. Ci si adegua al pensiero di gruppo a discapito del pensiero del singolo, che via via si trova isolato e non più stimolato, non trovando sostegno ne approvazione. Smarriti, non resta che adeguarsi a quello che la società e il mercato dettano costantemente, protesi nel ricercare all’esterno i significati delle cose, non ci rendiamo conto diallontanarci sempre più dalla fonte originaria interiore.


Perché aver paura di quella che è una condizione naturale? Questa continua ricerca della sicurezza, che ci si aspetta arrivi dagli altri, quanto può realmente rendere sicura la nostra vita? L'uomo si sa, è un animale sociale, vive bene in compagnia. Ma realmente si può star bene con gli altri, se si hanno difficoltà a restar soli con se stessi? Proviamo a rivalutare il fatto di poter avere uno spazio tutto nostro, dove abbandonare le ansie "da prestazione" ed imparare a conoscersi. La solitudine, il saper star soli, può rappresentare una preziosa risorsa. Permette agli uomini di entrare in contatto con i propri sentimenti più intimi, di riorganizzare le idee, di mutare atteggiamento. Può dunque diventare la strada della ricerca interiore, riscoprendola come un'opportunità per maturare, con i suoi spazi e la sua creatività. Di Anna Mulattierihttp://eccocosavedo.blogspot.com

sabato 18 giugno 2011


SPECCHIO

Specchio che riflette luci e avvisi da altri mondi
visioni parziali di cambiamenti profondi

Uomo che tutto vuole e sa, che però non legge,
e sgomitando si fa largo tra le fila del gregge,

se nel suo riflesso guardasse non solo il vestito
ma segnali da leggere come musica su spartito.

Dai silenzi siderali vedrebbe melodie che scendono a spirale,
nei disegni dei bambini vedrebbe la logica astrale.

Negli illusi e nei folli che il mondo voglion cambiare
il respiro dell’universo con il suo apparente stare.

Ignorando chi parla di progresso a pagamento
a chi col telecomando in mano, si spegne lento.

Lo specchio mostra a chi vuol vedere e non solo guardare
tutto ci urla intorno e dentro che è ormai tempo di cambiare!

M.M.

DEBITO PUBBLICO ITALIANO E REFERENDUM NUCLEARE CHE C'ENTRA?

Il debito pubblico italiano,tra i più alti del mondo, ha però, avuto una peculiarità rispetto ad altri: è sempre stato un debito tra soggetti interni allo stesso paese, siano essi banche, grandi investitori o piccoli risparmiatori.
Negli ultimi anni si è assistito ad una mutazione lenta ma graduale dovuta, in parte, a scelte scellerate operate dai governi che si sono succeduti che, per combattere il debito stesso, hanno contratto al massimo la spesa pubblica con privatizzazioni, blocchi dei salari, precarietà, riforme pensionistiche, e in parte alla crisi finanziaria che ha travolto l'economia mondiale dal 2009 ad oggi. Tutto questo ha portato a un impoverimento generalizzato dei lavoratori dipendenti e a un conseguente vistoso calo della capacità di risparmio, che era proprio delle famiglie italiane.Quindi gran parte di quel debito si è spostato a soggetti esterni in particolare banche europee soprattutto francesi, tanto che, sembra , gli investimenti in titoli italiani, rappresentino una cifra che sfiora il 20% dell'intero PIL francese. Vista la congiuntura economica sfavorevole per un eventuale rientro immediato dei capitali investiti,e non avendo alcun interesse in questa situazione a portare l'Italia al fallimento, si è accentuata la pressione della politica e del grande managent economico per trovare soluzioni alternative.Una delle condizioni,ovviamente era quella di fare spazio a grandi opere che dessero ossigeno a qualche settore dell'economia francese in crisi. Quindi quale occasione migliore per rispolverare la questione del nucleare in Italia, affidandosi, ovviamente, alle centrali nucleari  francesi (in difficoltà, sia in patria che all'estero, a causa delle diverse scelte in termini di produzione energetica da parte di molti paesi), e assumendo, quindi, un atteggiamento più soft nei confronti del debito italiano. Ma il classico sassolino, sotto forma del referendum antinucleare che, nonostante i goffi tentativi del governo per farlo fallire, con il suo schiacciante risultato ha , di fatto, bloccato la questione per i prossimi decenni.
Aspettiamo con, curiosità mista ad ansia, quale nuova forma di indennizzo, venga escogitata per compensare le mancate entrate miliardarie delle imprese d'oltralpe.Intanto cominciano, già le, non tanto velate, minacce da parte del Fondo Monetario Internazionale nei confronti dell'Italia con stime per il PIL al ribasso e conseguente riduzione del Rating finanziario. Sarà un caso che il presidente del FMI era fino a poco tempo fa tal Dominique Strauss-Kahn (stupratore di cameriere) e che il suo sostituto sarà ancora presumibilmente francese?
Si attendono sviluppi ....
Mizio

venerdì 17 giugno 2011

SE ATENE PIANGE, BERLINO NON RIDE


Uno spettro si aggira per l'Europa : il default della Grecia.
Tutti ansiosamente ipocriti intorno al capezzale della moribonda. A lei che di sovrano è rimasto solo il debito, giacchè è disposta anche a vendere le sue isole e non solo, per rinviare il trapasso inevitabile.
Nonostante ciò vorrebbero salvarla, poverina, dopo averle imposto una cura da cavallo.La parola d'ordine è la ristrutturazione del debito. Non è riuscita a pagare il primo, quindi le si vorrebbe dare la possibilità di rinnovarlo aggiungendogliene un altro, con il ragionevole dubbio che si rischia di perdere capra e cavoli. Le acute menti dei vari Tremonti europei ci sono finalmente arrivate, senza però trovare un'efficace soluzione alternativa. Certo sarebbe assurdo che Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda, fortemente indebitate e prossime alla sala rianimazione, fossero costrette ad offrire una stampella alla Grecia. A rigor di logica, dovrebbero intervenire le sorelle sane d'Europa, Francia e Germania che, peraltro, hanno le loro banche sovraesposte con prestiti agli elleni. Chi segue la Borsa, avrà avuto modo di vedere le quotazioni a passo di gambero di Commerze Bank e Deutsche Bank, per restare a quelle tedesche. Ma , conoscendo l'altruismo francoteutonico, c'è da dubitare sui soccorsi.
L'Inghilterra, che diligentemente non fa parte dell'area euro, non è chiamata in causa. Il suo debito non ha niente a che fare con il pasticcio dei debiti dell'Ue. Di sovrano, ha i suoi regnanti e per i debiti le bastano William e Kate.
Di nuovo allora la domanda : chi paga ? Certamente tutti gli eurovessati.
I padri fondatori di fede liberale e liberista dell'Europa, alcuni ancora viventi, quando reclutavano debuttanti per la festa, badavano al numero non alla sostanza, ascrivendosi il merito del costante ampliamento dell'Ue. Risultato : l'attuale marasma e un ballo trasformatosi in quello della scopa che nessuno vuole che gli resti in mano.
Intanto altri premono per entrare nel salone delle feste dove si danza ma non si mangia : Croazia e Serbia. Ma questi l'hanno vista la faccia di Trichet con i suoi grembiulini da primo della classe ? Forse non prendono il segnale....

Paradossalmente è prorio la Grecia,malata terminale, ad essere l'unico vero stato membro dell'Ue, pronta ad accettare tutte le sue regole giacchè non ha più nulla da perdere.
Anche se la piazza non la pensa allo stesso modo. Rabbia e scioperi sono diventati la principale occupazione dei Greci.
Gli altri stati, quelli che dovrebbero soccorrere, scalpitano come cavalli inquieti, sordi ai richiami dei fantini.Il concetto, tradotto in parole povere, significa che non intendono pagare la consumazione.

Lo spettro del default della Grecia continua ad aleggiare per tutta l'Ue con funeste previsioni da parte degli esperti che paventano rischi sistemici. In questo caso ci sarebbero gravi ripercussioni sulla moneta unica. L'Inghilterra sarebbe relativamente al sicuro nel suo splendido isolamento. Il contagio si abbatterebbe invece pesantemente su tutta l'area euro. Per questo se Atene piange, Berlino non ride.
Enzina Siriannihttp://www.informarecontroinformando.info

Difesa del territorio- Economia solidale

Alcune linee di azione che coniugano insieme difesa del territorio e la costruzione delle basi per lo sviluppo di un'economia solidale,
In primo luogo dobbiamo cancellare ogni possibilità di consumare altro suolo agricolo. Le nostre città si sono molto più estese di quanto sia la popolazione che le occupa. Occorre dunque chiudere questa fase storica della vita delle nostre città e praticare solo il recupero e la riqualificazione. E se ci dicono ogni giorno che non ci sono i soldi per nulla, neppure per i trasporti, come è pensabile continuare a dilatare le città?
II capitale finanziario che si è impadronito del nostro territorio propone oggi di urbanizzare altre migliaia di ettari di campagna per creare inutili cattedrali del deserto. Hanno fin qui avuto consenso perché hanno saputo far credere (grazie all'immenso potere mediatico) che dietro quelle speculazioni c'erano posti di lavoro. Non era vero ed è in atto un diffuso ripensamento critico di larghe masse di cittadini, di giovani in particolare. 


Il grande patrimonio di terre di uso civico, possono ad esempio essere affidate a cooperative di giovani a canoni garantiti dalle Regioni: e se qualcuno dirà che è statalismo basta ricordare il fiume di soldi pubblici che vanno alle imprese "amiche" ad iniziare dalla Fiat. Eppoi, sempre a livello locale laddove è possibile (e nell'Appennino sempre meno abitato si potrebbe fare agevolmente) gli enti locali potrebbero fare una intelligente politica di acquisizione di territori abbandonati. Con pochi soldi, quelli ad esempio risparmiati nel non dover più correre appresso alle continue espansioni urbane, si possono acquistare centinaia di ettari e restituirli all'agricoltura.
Lavoro anche questo, mica solo il loro. E se poi i comuni iniziassero a privilegiare la filiera alimentare "corta" attrezzando luoghi di mercato per i prodotti del circondario, ne guadagneremmo anche in salute non dovendo acquistare più le "monocolture" del cartello della grande distribuzione. 


E anche le esperienze importanti fin qui concretizzate, penso alla Città dell'altra economia di Roma, devono essere alimentate da una visione urbana alternativa, non marginalizzate, ma poste al centro delle politiche urbane. Le città sono nate dal mercato. Possiamo provare a riconvertirle verso forme sostenibili. Loro sono fermi all'ottocento di Marchionne.
Amici Riserva di Decima

mercoledì 15 giugno 2011

LA RIVOLUZIONE DI CUI NESSUNO PARLA

Nazionalizzazione delle banche
Abolizione del debito
Creazione di una nuova costituzione

Questi sono solo alcune delle cose fatte dalla rivoluzione islandese di cui nessuno sa niente, grazie a questa "informazione" blasfema completamente asservita ai poteri economico finanziari globalisti del nuovo ordine mondiale.

Recentemente ci hanno sorpreso i fatti della Tunisia che sono sfociati nella fuga del tiranno Ben Alí, tanto democratico per l’Occidente fino all’altroieri e allievo esemplare del FMI. Tuttavia, un’altra· “rivoluzione” in atto da due anni è stata opportunamente censurata dai mezzi di comunicazione al servizio delle plutocrazie europee.

È successo proprio nel cuore dell’Europa (nel senso geopolitico), in un Paese con la democrazia probabilmente più antica del mondo, le cui origini risalgono all’anno 930, e che si è piazzato al primo posto nel rapporto dell’ONU sull’Indice di Sviluppo Umano 2007/2008. Indovinate di chi si tratta? Sono sicuro che la maggioranza non ne ha idea, come non ce l’avevo io prima di scoprirlo per caso (nonostante sia stato là nel 2009 e nel 2010). Se tratta dell’Islanda, dove un governo intero si è dovuto dimettere, sono state nazionalizzate le principali banche, è stato deciso di non pagare il debito che queste avevano creato con la Gran Bretagna e l’Olanda a causa della loro esecrabile politica finanziaria ed è stata appena creata un’assemblea popolare per riscrivere la sua costituzione. E tutto questo in forma pacifica: a colpi di casseruole, urla e un appropriato lancio di uova. Questa è stata una rivoluzione contro il potere politico-finanziario neoliberista che ci ha condotto alla crisi attuale. Ne parlo qui perché per due anni non c’è stata quasi nessuna informazione su questi fatti o si è informato in modo superficiale o di rimbalzo: cosa succederebbe se il resto dei cittadini europei prendessero esempio? E per inciso si conferma ancora una volta, come se ancora non fosse chiaro, al servizio di chi sono i mezzi di comunicazione e come ci restringono il diritto all’informazione nella plutocrazia globalizzata del Pianeta S.p.A. Questa è, brevemente, la storia dei fatti:

Alla fine del 2008, gli effetti della crisi nell’economia islandese sono devastanti. In ottobre si nazionalizza Landsbanki, principale banca del Paese. Il governo britannico congela tutti gli attivi della sua sussidiaria IceSave, con 300.000 clienti britannici e 910 milioni di euro investiti da amministrazioni locali ed enti pubblici del Regno Unito. A Landsbanki seguiranno le altri due principali banche, la Kaupthing e la Glitnir. I loro principali clienti sono in questo Paese e in Olanda, clienti a cui gli Stati devono rimborsare i loro risparmi con 3 miliardi e 700 milioni di euro di denaro pubblico. Di conseguenza il totale dei debiti bancari dell’Islanda equivale a diverse volte il suo PIL. Inoltre la moneta crolla e la Borsa sospende le sue attività dopo un crollo del 76%. Il Paese è alla bancarotta.
Il governo chiede ufficialmente aiuto al Fondo Monetario Internazionale (FMI), che approva un prestito di 2 miliardi e 100 milioni di dollari, integrato da altri 2 miliardi e mezzo di alcuni Paesi nordici.
Le proteste dei cittadini di fronte al parlamento a Reykjavik aumentano. Il 23 gennaio 2009 vengono convocate le elezioni anticipate e tre giorni dopo le manifestazioni con le pentole sono già di massa e provocano le dimissioni del Primo Ministro, il conservatore Geir H. Haarden, e di tutto il suo governo in blocco. È il primo governo (e l’unico che io sappia) que cade vittima della crisi mondiale.
Il 25 aprile si tengono le elezioni generali dalle quali esce un governo di coalizione formato dall’Alleanza Social-democratica e dal Movimento della Sinistra Verde, guidato dal nuovo Primo Ministro Jóhanna Sigurðardóttir.
Nel corso del 2009 continua la pessima situazione economica del Paese e l’anno chiude con una caduta del PIL del 7%.
Tramite una legge ampiamente discussa nel parlamento si propone la restituzione del debito a Gran Bretagna e Olanda mediante il pagamento di 3 miliardi e mezzo di euro, somma che pagheranno tutte le famiglie islandesi mensilmente per i prossimi 15 anni al 5,5% di interesse. La gente torna a riempire le piazze e chiede di sottoporre la legge a referendum. Nel gennaio 2010 il Presidente, Ólafur Ragnar Grímsson, si rifiuta di ratificarla e annuncia che ci sarà a consultazione popolare.
A marzo si tiene il referendum e il NO al pagamento del debito stravince con il 93% dei voti. La rivoluzione islandese ottiene una nuova vittoria in modo pacifico.
Il FMI congela gli aiuti economici all’Islandia in attesa che venga effettuato il pagamento del suo debito.
A questo punto, il governo ha iniziato una ricerca per individuare giuridicamente le responsabilità della crisi. Cominciano gli arresti di diversi banchieri e di alti dirigenti. L’Interpol emana un ordine internazionale di arresto contro l’ex-Presidente della Kaupthing, Sigurdur Einarsson.http://it.answers.yahoo.com/question/index?qid=20110302095844AAQpLoP