mercoledì 30 gennaio 2013

ALTRI GIORNI DELLA MEMORIA





“Quella sera di dicembre del 1981 le truppe d’elite salvadoregne del battaglione Atlacatl si trovano impegnate in manovre di contro insurrezione nella provincia di Morazàn, di cui il villaggio di El Mozote fa parte; ufficialmente la mira era di stanare alcuni membri del FMNL dai loro covi montani. Rufina Amaya era nella sua casa, con i suoi figli, molti altri stavano tornando dalla chiesetta edificata su un lato del piazzale al centro di quello sperduto borgo contadino, faceva freddo. L’irruzione dei soldati fu improvvisa: “Dapprima i militari ci tennero tutti distesi a pancia in giù, poi le donne furono portate in due case diverse, quella di Marques e quella di Benita Dias; gli uomini furono portati in chiesa, e così ci fecero passare la notte”, inizia questa donna che proprio non ha nulla nell’apparenza che possa tornarmi utile per descriverla. E’ ordinaria, lunghi capelli ancora neri raccolti in una coda di cavallo, volto tondeggiante, bassa, sovrappeso, occhi che esprimono nulla. Ed è questo che colpisce: gli occhi di chi ha vissuto l’inimmaginabile forse sono sempre così, uccisi da ciò che hanno visto.

Rufina continua, la voce in una sorta di cantilena: “La mattina seguente arrivò un elicottero e cominciarono a torturare gli uomini. Poi a mezzogiorno cominciarono con le donne e lì iniziò la strage.”  Dapprima i soldati fecero fuoco all’impazzata su qualsiasi cosa si muovesse, e infatti ancora oggi quella parte di El Mozote è rimasta così, congelata nel tempo, con i muri crivellati di proiettili, le rovine delle abitazione bruciate, persino gli oggetti di casa ancora sparsi, derelitti e arrugginiti, nelle aie abbandonate; un luogo plumbeo, morto anch’esso e che nessuno da allora ha mai più voluto riabitare. Poi tacquero le mitraglie e fu la volta dell’orgia di violenza all’arma bianca. Rufina: “Io avevo i miei tre figli intorno, tra cui una bimba che ancora allattavo, me li strapparono, così come fecero con le altre madri, e li portarono tutti nella chiesa. Io li sentivo urlare… ‘mamma, mammina aiutaci, ci stanno uccidendo con i coltelli…’”.

Furono sgozzati tutti, quattrocento bambini sgozzati dentro una chiesa. I filmati del ritrovamento dei corpi mesi dopo, che ho ottenuto, mostrano i volontari in guanti di lattice e mascherine sollevare dal terreno minuscole vesti, magliette e calzini come fossero rigidi cartoni incrostati di nero, il sangue rappreso, e lascio ai lettori immaginare cosa mostravano le fotografie del pavimento della chiesa scattate dai primi testimoni giunti sul luogo. Fra loro Santiago Consalvi, un giornalista oppositore del regime, che commentando quelle scene una sera a cena con me e con sua moglie ha solo sussurrato “Dantesche…”, senza aggiungere altro.

Rufina Amaya a quel punto si trova ultima nella fila delle donne inginocchiate che vengono uccise una a una con colpi alla nuca o semplicemente accoltellate. Intorno a lei cadaveri, grida, esplosioni, il fuoco della case cosparse di kerosene, animali domestici che galoppano col pelo in fiamme, il terrore che non si può immaginare.

“Ancora potevo udire le grida di qualche bambino, forse i miei bambini, ma che potevo fare? Pregavo Dio che mi perdonasse, o che mi salvasse, pregavo e piangevo. Poi vidi dietro di me del bestiame misto ai cani, raggruppati fra le piante lungo quel sentiero lì” e me lo indica, una stradina che costeggia un rudere delimitata da una vegetazione cespugliosa, caotica e assai alta, “e approfittai del buio per nascondermici arrancando a gattoni. Rimasi laggiù non so per quanto, ma i singhiozzi che mi uscivano erano troppo acuti, mi avrebbero sentita prima o poi, e allora scavai con le mani un buco nella terra, vi ficcai la testa, e iniziai a urlare.”

Quando molte ore dopo Rufina Amaya tentò di uscire dai cespugli fu immediatamente vista. Le spararono addosso, ma lei si gettò di nuovo nel verde e iniziò a correre nel fitto della boscaglia. Per sei giorni rimase a vagare come un animale, poi fu raccolta da una contadina che viveva con i figli in una grotta in condizioni poco migliori delle sue, ma le salvò la vita.
Al termine di quarantotto ore di orgia di violenza, i terroristi del battaglione Atlacatl sterminarono ottocento abitanti di El Mozote, e cioè tutti meno Rufina, e altri quattrocento nei dintorni. Mille e duecento vittime civili, contadini, donne e bambini, neppure un guerrigliero fra loro.



La donna che mi ha raccontato tutto questo ora si alza e mi fa cenno di seguirla. Poco distante si ferma e punta il dito contro un portone che ancora è retto da un muro bruciato e in cima al quale qualcuno inchiodò un asse di legno con una scritta, anzi, una firma. Armando (il mio interprete e autista) traduce quelle parole che furono evidentemente scarabocchiate con un pezzo di carbone: “Qui è stato il battaglione Atlacatl, il padre dei sovversivi, seconda compagnia. Avete fatto una cagata, figli di puttana. Se avete bisogno di palle chiedetele per corrispondenza al battaglione Atlacatl. Gli angioletti dell’inferno.”

Ebbene, i terroristi delle truppe d’elite Atlacatl, gli psicopatici capaci di fare questo a 400 bambini e a 800 civili inermi, ebbero un sostegno diretto, ripetuto e consapevole proprio dalla nazione che oggi si è posta alla guida della Guerra al Terrorismo, gli Stati Uniti d’America. Le prove di ciò sono schiacciati, nero su bianco ed è un misto di perseveranza e fortuna che pochi giorni dopo il mio incontro con Rufina Amaya io me le ritrovi fra le mani.

In compagnia di Armando mi ero ficcato negli archivi sotterranei dell’Università Cattolica di San Salvador, dove una giovane e distratta responsabile aveva ascoltato la mia richiesta di saperne di più su El Mozote e senza spostarsi di un passo dal ventilatore che la rinfrescava mi aveva solo indicato una stanza a destra in fondo al corridoio, bofonchiando “là ci sono pile di carte lasciate da un ex professore che non so dove sia finito. Nessuno le ha mai più toccate”. Ci troviamo in uno stanzino di due metri per quattro, con una scrivania di metallo spoglia, due sedie e sei pile di scatoloni grigi che in realtà erano neri ma la pasta di polvere che li ricopre gli ha cambiato colore. Mani che diventano subito carboni, caldo soffocante, decine di pacchetti di fazzolettini di carta usati per poter toccare i fogli senza lordarli, acqua, tanta. Ma all’apertura del quarto scatolone arriva la sorpresa. Dopo aver scartabellato articoli e altra roba di nessun interesse, mi ritrovo fra le mani qualcosa di familiare: i fogli fotocopiati con le classiche rigone nere che cancellano nomi riservati, con il timbro “Classified” e la firma del funzionario responsabile, con “fm Embassy to Secstate in Washington D.C.”, oppure ancora “Confidential, Action Copy Telegram, Top Secret”, insomma documenti di Stato americani presi direttamente dagli archivi dei Servizi presso l’Ambasciata USA in Salvador e di cui quel professore era venuto in possesso chissà come.

Il problema, che stempera subito il mio entusiasmo, è che sono migliaia, senza un ordine di date e soprattutto trattano di argomenti di una noia mortale, pedissequamente riportati dagli agenti americani per riferire, per esempio, di quell’articoletto apparso sul tal periodico salvadoregno e che parlava del tal funzionario, di quell’incontro fra il tal businessman e quell’oscuro burocrate di ministero, dell’opinione dall’addetto alla propaganda dell’ambasciata sulla maggiore o minore simpatia espressa dal New York Times per le politiche americane in Salvador o in Honduras.

Io e Armando ci passiamo due pomeriggi e una mattinata senza cavarci alcunché di interessante, e l’unica cosa che mi sorregge è vedere l’entusiasmo di questo meccanico che sta ritrovando un acceso e commovente patriottismo nello sdegno che lo va man mano assalendo mentre, nel seguirmi lungo la mia ricerca in Salvador, è ritornato in contatto con il passato di orrori politici che ha terrorizzato la sua gente per decenni. Lui era solo un ragazzino all’epoca, ma ora mi racconta di come ogni mattina quando si recava al lavoro usava tenere la testa bassa e gli occhi puntati sulla punta delle sue scarpe per non vedere i cinque o dieci cadaveri abbandonati che sempre punteggiavano il percorso da casa all’officina, e che corrispondevano ad altrettante raffiche di mitra udite nella notte. Corpi magari nudi e mutilati dalla tortura, con i testicoli carbonizzati, con fori da trapano nelle braccia o con i solchi dell’acido versato fra le natiche. Armando dice il vero, le foto di quelle atrocità riempiono gli archivi del Rehabilitation Center For Torture Victims di Copenaghen , della Medical Foundation di Londra o di Amnesty International. E non di rado erano giovani donne, cui veniva mozzata la lingua perché le loro grida non demotivassero gli uomini e i cani che le violentavano prima di torturale. Così finivano gli oppositori dei regimi latinoamericani, dal Salvador al Cile, dall’Argentina al Paraguay, ridotti in quel modo da chi “dedicò il suo lavoro alla causa del progresso e della pace..”, e cioè dai Dan Mitrione dell’America nemica giurata dei terroristi, e dai loro allievi aguzzini.

Alla sera del terzo giorno la fortuna ci bacia in fronte. Il nome Morazàn compare per primo in un memorandum Top Secret, poi El Mozote e tutta la storia. E con essi la prova che gli Stati Uniti non solo finanziarono e addestrarono il battaglione Atlacatl, ma seppero del terrore di cui erano capaci, tentarono di negarlo e continuarono imperterriti ad armarli e a proteggerli.
Nel memorandum segreto che il sottosegretario alla Difesa Carl W. Ford spediva nell’aprile del 1990 in risposta alle interrogazioni all’Onorevole John Joseph Moakley in Campidoglio si legge: “..Il battaglione Atlacatl fu in effetti addestrato dai militari degli Stati Uniti nel 1981. Furono addestrati un totale di 1383 soldati. L'addestramento fu condotto nel Salvador.”
Ricordo che l’eccidio di cui fu testimone Rufina Amaya era avvenuto nel dicembre di quell’anno.
La strage di El Mozote fu resa nota al Dipartimento di Stato a Washington nel giro di pochi mesi, ma nonostante ciò l’appoggio americano ai terroristi dell’Atlacatl non cesserà e durerà per altri 8 anni, fino al 1989 quando lo stesso battaglione firmerà un’altra strage, quella dei 6 intellettuali gesuiti e delle due perpetue, massacrati nei locali dell’Università Cattolica nel centro della capitale. Su quel periodo il memorandum di Ford infatti dichiara: “All’interno della valutazione del distaccamento, abbiamo addestrato 150 soldati del battaglione Atlacatl. L’addestramento fu interrotto il 13 novembre del 1989.”

Il cinismo e la menzogna che seguirono, e in cui il governo americano e la giunta salvadoregna fecero a gara per distinguersi, sono testimoniati da un altro documento riservato che un diplomatico americano in Salvador spediva al Dipartimento di Stato nel febbraio 1982. Vi si legge dei tentativi dell’ambasciata statunitense di verificare le voci insistenti che parlavano di una immane strage a El Mozote, e il diplomatico mostra tutta la sua abilità nell’esser riuscito a fare domande scomode ai vertici militari di quel Paese pur rassicurandoli appieno sul continuo appoggio americano. Infatti, egli informa i suoi superiori a Washington di aver notificato al Generale Garcia (l’allora ministro della difesa salvadoregno, nda) che “Tom Enders ha difeso di fronte al Congresso lo stanziamento di altri 55 milioni di dollari in armamenti al Salvador” e poi sempre riferendosi a Garcia aggiunge: “Mi ha detto che la storia di Morazàn e di El Mozote è una favoletta, è pura proaganda marxista senza fondamento. Gli ho risposto che è chiaramente propaganda, sapientemente costruita... E come zuccherino finale, gli ho ricordato che il Washington Post sostiene le nostre politiche comuni.”

Questi documenti provano per la prima volta l’appoggio americano ai terroristi di El Mozote. Tuttavia l’idea, incessantemente ribadita da fonti statunitensi, che il terrorismo neo-nazista delle dittature latinoamericane fosse inventato da una “propaganda marxista sapientemente costruita“ fu l’ostacolo principale che Rufina Amaya incontrò, anni dopo, quando trovò abbastanza forza per raccontare ciò che aveva vissuto. Prima di lasciarla davanti alla porta della sua casa di mattoni grezzi, le avevo chiesto che ragione si era fatta di quel massacro e cosa pensasse del coinvolgimento americano, alla luce del fatto che proprio quel Paese si era poi posto alla guida di un Guerra al Terrorismo. “L’esercito venne qui per un solo motivo”  mi rispose sicura, “ed era di creare terrore. Il terrore non serviva per colpire la guerriglia, serviva a evitare che noi contadini ci organizzassimo. Ma il massacro degli innocenti, qui, ottenne il risultato opposto”. Rufina sembrò non voler rispondre alla seconda parte della mia domanda, e  gliela ripetei. Si girò verso di me e guardando in basso aggiunse: “Sì, potrei chiamarli terroristi, perché vengono nei nostri Paesi con il loro potere grande e fanno queste cose e le fanno in tutto il mondo. Ma per me sono semplicemente degli assassini.”

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In memoria di Rufina, in memoria della smemoratezza di tutti noi, che mai abbiamo eretto alle vittime del nostro benessere alcun monumento. Che Dio, se c’è, ci perdoni.
Paolo Barnard


martedì 29 gennaio 2013

TIGRI DI CARTA




In occasione della fiera dell'industria cartaria Paper World a Francoforte, la rete ambientalista European Environmental Paper Network (EEPN) European Environmental Paper Network (EEPN) chiede all'industria di non utilizzare carta legata alla deforestazione in Indonesia. Tra gli espositori alla fiera, figura infatti la  Asia Pulp & Paper (APP), uno dei più discussi produttori mondiali di carta. La APP è accusata di aver causato la distruzione di oltre due milioni di ettari di foreste pluviali a Sumatra, in Indonesia. L'impresa ora minaccia di espandere la propria produzione con una nuova cartiera con una capacità di 2 milioni di tonnellate annue di pasta di cellulosa, la linea produttiva più grande del mondo, che rischia di accrescere ancora il fabbisogno di fibre della cartiera. E la prima vittima della "tigre asiatica" sono le tigri di Sumatra.
Un recente rapporto pubblicato dalla rete ambientalista indonesiana Eyes on the Forest ha messo in luce un altro inquietante impatto delle operazioni di taglio della APP nelle foreste del Senepis - habitat della tigre - una zona che la APP ha promesso di proteggere. La tigre di Sumatra viene destinata così all'estinzione, in una scia di lutti per le famiglie contadine: scacciate dalle loro foreste, le tigri finiscono con l'avvicinarsi agli insediamenti umani, con conseguenze drammatiche sia per umani che gli animali.  Eyes on the Forest rivela che questi incidenti hanno causato la morte di 9 persone e di 3 tigri. La APP sostiene di adottare avanzate tecniche di protezione della tigre, ma in realtà ne sta eliminando gli ultimi habitat.
 "La rapida espansione delle monocolture pasta di legno sta spazzando via foresta pluviale di Sumatra , che in gran parte cresce su torbiere ricche di carbonio - spiega Sergio Baffoni, dell'EEPN - In questo modo enormi quantità di gas-serra vengono rilasciate in atmosfera, contribuendo in modo significativo a fare dell'Indonesia il terzo paese per emissioni di carbonio dopo Stati Uniti e Cina."

"Le ultime foreste pluviali vengono abbattute per produrre carta che finisce nel cestino della carta straccia entro il primo giorno di impiego. Questa non è un'industria sostenibile sostenibile - ha aggiunto Monika Nolle della rete tedesca Papierwende - Il Paper World dovrebbe dar prova di leadership, e promuovere le tecnologie volte ad aumentare l'efficienza e a ridurre consumo eccessivo di carta."

Più di 40 associazioni europee hanno firmato una lettera alle imprese chiedendo loro di non acquistare prodotti della APP,  e di non fornire a questa impresa assistenza tecnica, consulenza o finanziamenti. "L'acquisto di prodotti di carta legati alla distruzione delle foreste pluviali in Indonesia pone seri rischi di reputazione, collegando i marchi aziendali a pratiche distruttive, a conflitti sociali e al cambiamento climatico", ha concluso Sergio Baffoni.

Molte imprese hanno già interrotto i propri rapporti commerciali con la APP, tra queste Disney, Office Depot, Hasbro, Mattel, Unilever, Nestlé, Gucci, Versace, Danone, Xerox, Mondi, Staples e Carrefour.

DON'T CRY FOR ME ARGENTINA!


Quando torno periodicamente in Italia per le vacanze estive di gennaio, amici e conoscenti puntualmente mi chiedono: “ma lì come va?” La mia risposta di solito è circostanziale: “tutto sommato, potrebbe andare peggio, visto quello che questo paese ha passato negli ultimi 45 anni e poi, bisogna analizzare anche la tendenza presente e futura, non solo la storia recente. Ne riparliamo tra 10 anni…”. Una risposta più articolata, invece, potrebbe seguire il filo delle riflessioni che qui tento di svolgere.



Poiché gli Italiani non sembrano rendersi ancora sufficientemente conto della trappola per topi nella quale stanno per cacciarsi [con l'indebitamento con l'FMI, il Fiscal Compact firmato con l'UE e le politiche di austerità "espansiva" (sic?)], l’esempio argentino può davvero essere prezioso.
Ancora oggi, questo paese paga le conseguenze disastrose di una politica di indebitamento selvaggio con gli organismi finanziari internazionali (iniziata all’epoca della Dittatura Militare del ’76-’83), della quale politica si sono beneficiate soprattutto le corporations nazionali e internazionali, la rendita finanziaria e gli strati alti della classe media. Il proletariato industriale, i vecchi e nuovi poveri delle villas-miseria e la stessa classe media urbana (per non parlare delle popolazioni mestizas e native del nord) hanno subito unicamente le conseguenze negative di questa politica di tagli alla spesa sociale, demolizione dello Stato sociale dell’epoca menemista e privatizzazioni indiscriminate.

Vivendo e lavorando in Argentina, ci si può rendere conto nella quotidianità del grado di deprivazione e impoverimento della cultura materiale (dal know-how tecnologico, cardine del sistema produttivo nazionale al sistema delle infrastrutture), della perdita di qualità del sistema d’istruzione e formazione tecnica (praticamente azzerata, quest’ultima, nell’epoca menemista) e della disperazione sociale inculcata in un’intera generazione riguardo alle possibilità di auto-determinarsi in economia come in politica, con il tipico senso di inferiorità indotta: noi non siamo capaci al pari degli altri popoli “civili”, un tipico riflesso del meccanismo pedagogico e psicologico di massa favorito dal dominio neo-coloniale).  Come illustrato mirabilmente da un grande intellettuale argentino, di orientamento radical-nacionalista e poi filo-peronista, A. Jauretche, nel suo Manual de las zonceras argentinas.

Tutto ciò è difficile spiegarlo e farlo comprendere al popolo italiano, che non ha mai provato sulla propria pelle le conseguenze di una seria politica di austerità e tagli alla spesa sociale, imposta dal FMI, dalla Banca Mondiale e dai vari “avvoltoi” della finanza internazionale. Con l’aggravante di una politica monetaria basata sul cambio fisso (qualcuno ricorda in Europa il cambio dell’1 a 1 argentino?), per giunta sprovvista di sovranità e totalmente delegata alla BCE, ossia a una federazione di organismi bancari privati. Parlo qui, ovviamente, degli Italiani in generale, sorvolando sui Meridionali, che invece politiche simili le hanno già provate negli anni seguenti l’unificazione e che sembrano però aver rimosso, volenti o nolenti, questo trauma storico.

La maggioranza degli Italiani appare allo stato frastornata, confusa, sicuramente divisa per effetto della manipolazione mediatica, che appiattisce l’opinione pubblica sulla dogmatica del pensiero unico neo-liberista (dettata dai centri decisionali della trojka, dal potere bancario internazionale e dalle agenzie di rating, guarda caso tutte targate USA), favorendo al contempo la frammentazione sociale e l’individualismo (l’egoismo cinico del “si salvi chi può”). Unici tentativi di reazione, allo stato, il Movimento 5 Stelle, con la sua forza dirompente basata sull’esperimento di democrazia diretta (pur con tutte le ambiguità del caso) e, come espressione di una società che aspira a farsi società politica, i numerosi Comitati di lotta, dal No-Tav, al No-Debito, dai pastori sardi ai Forconi Siciliani, passando per i gruppi dell’ALBA e del “Cambiare si può” (confluiti recentemente nella lista “Rivoluzione Civile”), etc. Un inizio di reazione, che già pur rappresenta qualcosa, anche se troppo poco al momento, secondo me, data la gravità della situazione.

Per questo, ritengo, che dovremmo studiare con maggior attenzione e fare tesoro dell’esperienza argentina di questi ultimi 10 anni (2003-2013), come anche, ovviamente del suo importante alleato politico e partner economico, il Venezuela bolivariano. Forse il caso argentino, ancora più del Venezuela, può essere utile agli Italiani, non solo per i noti legami identitari e culturali dovuti al consistente flusso migratorio dall’Italia (circa 16 milioni di discendenti su una popolazione complessiva di 40), ma anche perché la società e l’economia argentina presentavano, agli inizi degli anni ’70, notevoli analogie con quella italiana (un’organizzazione sociale diffusa, con settori di classe media consistenti; un’economia industriale sviluppata, di cui una parte importante gestita dallo Stato; un sistema di welfare e di diritti sociali, ispirato ai principi del Keynesismo; marcati squilibri tra il centro (Roma, Milano e alcune regioni del nord in Italia; Buenos Aires in Argentina) e la periferia (il sud e le isole in Italia; le province del nord, soprattutto Tucuman, il Chaco e del sud, la Patagonia, in Argentina).

Se nel giro di circa 35 anni, con la terapia d’urto prima della Dittatura e poi delle politiche neo-liberiste di Menem, la sovranità economica argentina è stata completamente spazzata via, fino alla catastrofe del Corralito (2001) e alla rivolta popolare del Que se vayan todos (che ha segnato, indubbiamente, un punto di svolta e di reazione della società argentina al massacro sociale che stava subendo), perché dovrebbe risultare ozioso credere che le stesse conseguenze catastrofiche potrebbe sperimentarle a breve anche l’Italia? Non si tratta di fare i profeti di sventura o i disfattisti, come spesso viene rimproverato alle voci discordi dal coro dai “nuovi mandarini” di regime, ma semplicemente di applicare un minimo di buon senso all’analisi dei dati di fatto dell’andamento dei due paesi.

Quello che sto cercando di dire è che, se abbiamo molto da imparare dalle esperienze traumatiche vissute dal popolo argentino, preda storicamente delle ricette neo-liberiste e della speculazione finanziaria, moltissimo dovremmo anche imparare dalla sua capacità attuale di resistenza agli avvoltoi di oggi e di sempre, sia sul piano delle politiche governative adottate dai Kirchner, sia su quello, ancora più prezioso, delle nuove forme di lotta sociale messe in campo dalla società civile (movimento delle fabbriche auto-gestite, associazioni alla Barrios de Pié, organizzazioni studentesche, sindacati indipendenti alla CTA, comitati popolari ecologisti e anti-mineria, movimenti dei nativi, fino ad arrivare al movimento pro-ALBA, Marea Popular e alla lotta dei tercerizados dei trasporti e del petrolio). Con l’importante differenza che il radicamento sui territori di queste lotte hanno portato l’Argentina a costruire, negli ultimi due anni, almeno due grandi progetti di alternativa al kirchnerismo (già di per sé più avanzato di qualsiasi governo Prodi o Bersani che potremmo mai pensare di avere in Italia): il F.A.P. (Frente Amplio Progresista), progetto di liberazione nazionale di sinistra (Izquierda nacionalista) a guida H. Binner e il Frente de Izquierda, più classista e internazionalista, guidato dal Partido Obrero di J. Altamira.

Da molti indizi convergenti, è dato intendere che, nei prossimi quattro anni, l’indirizzo delle politiche per il recupero della sovranità politico-economica dell’Argentina sarà conteso tra questi tre modelli, di cui uno, social-democratico e progressista, confermato con il 54% dei consensi alle Presidenziali dell’ottobre 2011 (il Frente para la Victoria di C. Fernandez de Kirchner) e un altro, il F.A.P., impostosi con il 17% dei voti come seconda forza del paese (scavalcando le ormai fatiscenti opposizioni di destra). Uno scenario politico infinitamente più spostato a sinistra, come si vede, di quello nostrano, se non altro per lo svuotamento e il disorientamento delle proposte di destra, Union Civica Radical, in primo luogo. Sarà lecito pensare che a un tale scenario odierno, impensabile fino a venti anni fa, abbia massicciamente contribuito il totale discredito e perdita di credibilità dell’F.M.I., della Banca Mondiale e dei vari governi fantoccio etero-diretti, succedutisi nell’attuazione delle ricette da loro imposte all’Argentina (fino alla rocambolesca fuga in elicottero di de la Rua nel 2001)?

Sul braccio di ferro tra le due Cristine (Cristina Fernandez de Kirchner, Presidente degli argentini e Christine Lagarde, Presidentessa dell’F.M.I.) abbiamo già informato in passato. I punti di vantaggio della politica economica odierna del governo progressista sono, a nostro avviso, una politica monetaria sovrana (con la Banca Centrale stabilmente controllata dal Governo), un programma di investimenti pubblici che favorisce la crescita economica e dell’occupazione (tipica in quest’ottica, la nazionalizzazione con indennizzo delle quote della YPF detenute dalla spagnola Repsol operata nel corso di quest’ultimo anno) e la diversificazione degli accordi commerciali con i nuovi partners della scena mondiale allargata (Cina, Giappone, Brasile, Venezuela, Iran, Russia, etc.). Il tutto unito a un’importante opera di rivendicazione della sovranità geo-politica (si pensi al caso Malvinas) dell’Argentina presso tutte le sedi internazionali (ONU in primis, ma anche e soprattutto con l’appoggio dell’ALBA e del Mercosur).
L’insieme di tutti questi fattori di recupero della sovranità ha fatto sì che la minaccia di espulsione dal F.M.I. per la data dello scorso 17 dicembre, cadesse nel vuoto, nella totale dimenticanza e trascuratezza dei media di regime in Occidente.

La notizia che invece è passata attraverso i nostri media, anche se su di un piano defilato, è la parziale vittoria di Cristina nella contesa giudiziaria con i fundos buitre (fondi avvoltoio), che aveva portato al sequestro della goletta argentina Libertad nel porto di Accra (Ghana) nel passato mese di dicembre. Lo scorso 9 gennaio, la goletta è ritornata a Mar del Plata, dove è stata accolta trionfalmente da un popolo argentino festante, strettosi intorno alla sua Presidenta, dopo le proteste di piazza dell’8-N.
Senonché, questa battaglia vinta rischia di trasformarsi in una guerra di trincea e non sappiamo quanto potrà durare.
Marco Nieli

venerdì 25 gennaio 2013

BERLUSCONI E IL VOTO IN-UTILE




Ultimamente, specialmente dopo la discesa in campo prima di Grillo e del suo movimento e poi di Ingroia con la sua “Rivoluzione Civile” è riuscito prepotentemente fuori il concetto del “voto utile”, frutto del paradigma: se non voti per me , è come se votassi per Berlusconi. A questo proposito vengono in mente alcune considerazioni. Lo stesso concetto è stato già usato nelle elezioni precedenti e non ,mi pare che abbia sortito effetti mirabolanti, anche nel caso in cui a vincere era la coalizione di centro sinistra. Sia nel primo che nel secondo governo Prodi tra le tante cose non fatte risalta in entrambe le occasioni la mancata legge per il conflitto d’interessi, il che, mi porta a pensare, che il cavaliere serva più per esorcizzarlo e usarlo come spauracchio nelle campagna elettorali, che come avversario vero e proprio.
Tanto è vero che nell’ultimo governo Monti, appoggiato in maniera acritica dagli stessi che ora demonizzano il non voto per loro, le scelte fatte in materia di politica sociale ed economica, non mi pare che si discostino molto da quelle della destra rappresentata dal cavaliere. Anzi, si sono distinte per cinismo e spietatezza nei confronti dei lavoratori e delle classi più deboli e, facendole, si rimproverava al governo Berlusconi di non avere avuto il coraggio di farle prima, peggiorando, così, la situazione economica dell’Italia.
Quindi se io votassi in maniera utile il PD e mi ritroverei di nuovo, come appare probabile se non certo,(al di là delle scaramucce ad uso e consumo dei gonzi degli ultimi giorni) un accordo con il Tecnico, nel frattempo diventato politico, Monti, e,sostanzialmente, cosa cambierebbe per me cittadino lavoratore di questa Italia?
Praticamente nulla, continuerei ad essere crocefisso all’altare della grande finanza internazionale, continuando a pagare per colpe non mie e continuando a restare in messianica attesa della crescita che di anno in anno viene rimandata ad altra e più lontana data. Senza considerare il fatto che, se pure ci fosse prima o poi, una certa ripresa, continuando con questo stesso modello politico- economico, si andrebbe fatalmente incontro a nuove e sempre più frequenti crisi, visto che, i fatti degli ultimi anni, stanno lì a dimostrarlo , siamo  una fase di corto circuito sistemico, da cui non è possibile uscire, se non con un cambiamento radicale. Cambiamento che né Berlusconi, né tantomeno Monti e il PD rappresentano, abbeverandosi tutti alla stessa fonte maleodorante del liberismo economico e finanziario, se pur da lati diversi dell’abbeveratoio.
Quindi per il cittadino, per il lavoratore qual’è il voto utile: quello pro o contro Berlusconi o quello alternativo che superi e vada oltre questo stantio  teatrino  del gioco delle parti o, addirittura, il rifiuto a partecipare alle elezioni astenendosi.( cosa che io per mia formazione politica, posso capire, ma che non condivido).
Il berlusconismo e l’antiberlusconismo si alimentano e si sostengono a vicenda e sono facce diverse della stessa medaglia taroccata. Sono la foglia di fico che serve a coprire le vergogne che tutti gli attori di questa commedia usano per nascondere la nullità delle proprie idee e l’incapacità di produrre qualcosa di veramente nuovo e alternativo.
Oggi sentiamo promesse (tra l’altro di modesto profilo) che già sanno che non potranno o vorranno mantenere, perché se fossero possibili, ci si chiede perché non siano state fatte prima , quando si era al governo.
La politica asservita all’economia ormai parla linguaggi astrusi, complicati, dimenticandosi che il suo compito principale, se non unico, è quello di rappresentanza e difesa della propria gente e che, per far questo non c’è bisogno di soloni e tromboni prezzolati dal potere, serve molta più semplicità e chiarezza.
Serve stare nelle fabbriche, nei posti di lavoro, nelle scuole, al mercato e non nelle dorate stanze o nei salotti televisivi.
Perché se no il risultato è quello, come successo quest’anno di un Marchionne che guadagna 16 milioni di euro sulla pelle di migliaia di lavoratori a 1.200 euro al mese ricattati e schiavizzati con la benedizione di berlusconiani e antiberlusconiani.
Io non do indicazioni di voto, non faccio campagna elettorale per qualcuno, ma contro questa politica che da decenni ingrassa e sguazza in una falsa e artificiosa contrapposizione che tale alla fine non è.
A proposito, per coloro che, mi definiranno senz’altro come populista, rispondo subito che si, lo sono. Se essere populista vuol dire essere schierati dalla parte della giustizia e dei più deboli senza se e senza ma, si, lo confesso, lo sono. Con buona pace di chi complica la sua vita e quella degli altri.  

MIZIO