domenica 6 gennaio 2013

UN PAESE RICCO ABITATO DA POVERI




Partiamo da due numeri (raccolti, affrontati, analizzati magistralmente da Nunzia Penelope in Ricchi e Poveri), 1972 e 8640. In entrambi i casi parliamo di miliardi. Ma con una piccola differenza: nel primo caso parliamo dei miliardi a cui ammonta lo spaventoso debito pubblico italiano, responsabile in questi mesi della crescita frenetica dello spread; il secondo invece rappresenta la ricchezza privata in Italia. Avete capito bene: se sommiamo i redditi dei cittadini italiani arriviamo all’incredibile cifra di 8640 miliardi di euro. Quattro volte l’ammontare del nostro debito pubblico. Come dice a giusta ragione Nunzia Penelope il nostro è “un Paese ricco abitato da poveri”.

Non c’è che dire: già questi due semplici numeri fanno riflettere e non poco. Aiutano ad avere coscienza di una realtà che il 2012 ha certamente accentuato: da una parte abbiamo la stragrande maggioranza della popolazione ridotta all’osso, dall’altra abbiamo i pochi, pochissimi privilegiati con stipendi da sogno. Ma andiamo avanti. Prendiamo in esame altri numeri: sono soltanto 240 le famiglie (solo l’1% della popolazione italiana) che  godono di un patrimonio che supera i 5 milioni di euro a testa. A un estremo ne corrisponde un altro, questo però ben più vasto: sono oltre tre milioni le famiglie che non hanno nemmeno quella cifra minima ritenuta indispensabile per la sopravvivenza (secondo dati ISTAT, 1011,3 euro al mese).
Non solo. Accanto ai veramente poveri, abbiamo i poverissimi: tre milioni e mezzo di persone che non arrivano nemmeno a mille euro al mese e, spesso, nemmeno a 500. La miseria più nera. E pensare che se gli 8460 miliardi di ricchezza privata fossero divisi equamente tra le 24 milioni di famiglie che compongono il popolo italiano, ciascuno avrebbe un patrimonio di 360 mila euro. Altro che debito pubblico.

Sono pochi, semplici numeri che tuttavia riflettono una realtà socio-economica decisamente critica. Se ne potrebbero aggiungere altri, come il tasso di disoccupazione giovanile (che ormai va di record in record dopo aver sfondato il muro del 35%) o quello di disoccupazione femminile (al Sud, addirittura, è oltre il 50%). Ma ne basta anche solo un altro per capire cosa abbia significato il 2012 per il nostro Paese. Secondo i dati della CGIA di Mestre, solo in questo anno i disoccupati sono stati quasi 700 mila. Una cifra spaventosa.


Ma andiamo avanti con altri interessanti binomi. 1011 e 22 milioni. Il primo, come già detto, è la cifra media di sopravvivenza per una famiglia di due persone. In altre parole: se non arrivate a questa somma potete pure considerarvi parte della sempre più crescente fetta di poveri. La cosa, peraltro, non deve spaventare nessuno. Il dato che colpisce, infatti, è che le somme stabilite dagli indicatori di povertà  sono molto vicine alle media di retribuzioni nazionali: mediamente 1286 euro per un lavoratore a tempo pieno indeterminato, 700 per un lavoro part time, 800 per un precario. Cosa vuol dire questo? Basta una multa, una tassa che arriva nel momento sbagliato, una cura improrogabile per ritrovarsi – un mese o due – sotto la soglia di povertà. Avvilente, non c’è che dire. Ma passiamo alla seconda cifra: 22 milioni. Di cosa stiamo parlando? Della ricapitalizzazione di un’impresa, di una banca, di un finanziamento statale? Niente affatto. Più semplicemente è la paga annua per il 2011 di Marco Tronchetti Provera, numero uno della Pirelli. Una cifra semplicemente assurda che, eloquentemente, Nunzia Penelope analizza paragonandola a quella dei suoi stessi operai: i 22 milioni di Provera, infatti, sono l’equivalente della paga annua di 950 operai; sono ben 61 mila euro al giorno, la stessa cifra che un lavoratore dipendente mette insieme in tre anni; in un solo mese, dunque, il numero uno della Pirelli guadagna quanto un operaio in 80 anni di lavoro. Semplicemente assurdo.

Eppure i dati dimostrano proprio questo: l’assurdità del sistema Italia, un sistema che nei fatti arricchisce pochi alle (e sulle) spalle dei molti, anzi dei quasi-tutti. Demagogia? Assolutamente no. Se infatti gli stipendi di manager e funzionari pubblici italiani sono tra i più alti al mondo (un piccolo esempio: la busta paga del capo della polizia Antonio Manganelli è di 621 mila euro annui, il capo dell’FBI statunitense arriva a 155 mila dollari, poco più di 100 mila dollari), i salari per i dipendenti sono tra i più bassi al mondo. Secondo una classifica di 31 nazioni stilata dall’OCSE, l’Italia è addirittura 23esima davanti soltanto ai pochi Paesi più poveri di noi (Irlanda, Grecia, Portogallo e Est Europa).

Nonostante questo, però, chiediamoci: chi sta pagando la crisi? Su tutti, proprio coloro che ricevono mantenimento dallo Stato: dipendenti e pensionati. Questi, insieme, fanno il 68% di tutti i contribuenti. Eppure si accollano ben il 93% di tutta l’IRPEF che ogni anno affluisce nelle casse dell’erario.

La situazione, dunque, è più che critica. Ecco perché non dev’essere sottovalutato un altro dato, certamente il più tragico, di cui troppo spesso ci si dimentica o si fa finta di dimenticare. Secondo l’ISTAT nel 2010 i suicidi per motivi economici sono stati 187. Semplice casualità? Non sembra dato che, rispetto al 2008, c’è stato un aumento del 25%. Ben peggiori, peraltro, i dati forniti dall’Eures in un rapporto fornito ad aprile 2012: nel corso del 2010 i suicidi economici sarebbero stati addirittura 347. In pratica, uno al giorno.

E nell’anno appena trascorso? Dati ancora non ce ne sono. Ma, d’altronde, basta riprendere notizie di cronaca per farsi un‘idea. Come non ricordare, ad esempio, Vincenzo Di Tinco che il 9 marzo scorso si è impiccato perché, dopo 40 anni di attività, si è visto rifiutare un prestito di soli 1300 euro dalla sua banca (e per la qual cosa la Procura di Taranto ha aperto anche un fascicolo per istigazione al suicidio). Oppure l’imprenditore aretino che si è ucciso collegando il gas di scarico nell’abitacolo della sua macchina dopo aver ricevuto una cartella esattoriale di circa 50 mila euro. O ancora Antonio Maggio, anche lui impiccatosi dopo aver perso il lavoro con cui manteneva anche la madre rimasta vedova. Sono storie drammatiche. Tragiche. Che dovrebbero far riflettere. Soprattutto in piena campagna elettorale, con lo sguardo rivolto al futuro. Che, per ora, si preannuncia più nero che mai.
Carmine Gazzanni

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