sabato 30 marzo 2013

MESSAGGIO DI BERTRAND RUSSEL AI POSTERI


CONQUISTATA LA NATURA.... ABBIAMO PERSO


La casalinga londinese Barbara Carter aveva vinto la gara di beneficienza “Regala un desiderio” e aveva chiesto di poter baciare e coccolare un leone. Il mercoledì sera successivo era in ospedale in stato di choc e con evidenti ferite alla gola. La signora Carter, 46 anni, era stata portata al recinto dei leoni nel Safari Park a Bewdley. Mentre si sporgeva per accarezzare una leonessa, Suki, questa le si è avventata contro e l’ha atterrata. Più tardi i guardiani del parco hanno detto “Abbiamo commesso una grave errore di valutazione”. (British news bulletin – 1976).


Avendo già commesso un simile errore con un koala australiano, so bene che si tratta di quello che i libri di testo definiscono la mancata comprensione della distinzione tra un animale in quanto agente naturale e un animale in quanto simbolo di cultura. Si presupponeva che il koala fosse tenero, mite e rassicurante. Di questo mi sentivo certo, perché si trattava della stessa creatura che per due settimane avevo presentato, nella primavera del 1959, ai lettori del San Francisco Examiner, prima che il Governo Australiano concedesse il suo trasferimento allo Zoo Fleishacker.

L’Examiner era una pubblicazione Hearst, l’editore non era il tipo da farsi sfuggire un pezzo sentimentale così accattivante; io avevo il compito del reporter che anticipava l’argomento per assicurarne il successo. Non sapendo molto di animali o quasi niente, tranne ciò che avevo letto nei libri da bambini e appreso attraverso i cartoni di Walt Disney, consultai l’Encyclopedia Britannica (Phascolarctos cinereus, pelliccia color cenere, animale notturno, ghiotto di foglie di eucalipto), ma per lo più mi basai su Winnie-the-Pooh di A.A.Milne, I Racconti del Coniglio Brer e su immagini di repertorio del Presidente Teddy Roosevelt, al cui nome s’ispirò nel 1903 un creatore di giocattoli di Brooklyn per creare ed imbottire il famoso orsacchiotto.

Fedele, benevolo e saggio, il koala che veniva dagli antipodi era il piccolo amico di tutto il mondo. Il giorno del suo arrivo all’aeroporto, io portai un mazzo di rose avvolte in fogli di giornale. L’editore aveva imparato il mestiere a Hollywood negli anni ’40 e aveva in mente una foto di me che abbracciavo teneramente l’orsetto per dargli un caldo benvenuto. “Un cucciolo smarrito trovato nella foresta”, quello era il titolo che aveva in mente. “Torna a casa Lassie”. Ma il koala non seguì il copione. Infastidito dai flash dei fotografi, si aggrappò violentemente alla mia testa e alle mie spalle, distrusse le rose e urinò sui miei pantaloni e sulle mie scarpe.

Tuttavia, l’inconveniente non apparve sulla stampa. La fotografia era stata scattata prima dell’imprevisto. E così, il giorno dopo, sui giornali, eccoci là, io e il koala, l’uomo e la bestia, felici di essere insieme…il Christopher Robin del San Francisco Examiner incorniciato in un quadretto accanto al Coniglio Brer, a Teddy Roosevelt e a Winnie-the-Pooh, tutti per uno uno per tutti, nel nostro piccolo angolo di Paradiso.

LA PANTOMIMA DI BESTIA

Voci e notizie sui rapporti tra uomo e animali le troviamo nelle storie più antiche del mondo, nelle stelle dello zodiaco, raffigurate nelle caverne preistoriche, tra i geroglifici delle antiche scritture egizie, nella filosofia greca, nella religione induista, nell’arte cristiana, nel nostro stesso DNA. Parti integranti della vita quotidiana dell’uomo fino verso la fine del 20° secolo, gli animali sono stati allo stesso tempo agenti naturali e simboli di cultura. Compagni fedeli e silenziosi, hanno donato tutta la loro energia sia come strumenti di lavoro sia come cibo arrostito, pur possedendo qualità e virtù molto simili a quelle dell’uomo.

Nell’impossibilità di dare lezioni pubbliche, il leone e l’elefante hanno insegnato con l’esempio; lo stesso hanno fatto la tartaruga, il lupo e la formica (le favole di Esopo, composte nel sesto secolo prima di Cristo); e in seguito nelle ricerche di Aristotele, 200 anni dopo, con la sua Storia degli Animali, fu chiaramente delineato il quadro epistemologico che, per i successivi due millenni, avrebbe inglobato la presenza degli animali al centro del cerchio di quella che definiamo la civiltà occidentale:

"Così come evidenziamo somiglianze negli organi fisici, allo stesso modo in alcuni animali osserviamo gentilezza o fierezza, mitezza o cambiamenti umorali, coraggio o timidezza, paura o sicurezza, acume o poca astuzia. Altre qualità dell’uomo le troviamo negli animali in forma analoga, non proprio identica; ad esempio, così come in un uomo possiamo rilevare conoscenza, saggezza e intelligenza, allo stesso mondo in alcuni animali troviamo altre naturali potenzialità simili a quelle".

Gente di altre parti del mondo hanno sviluppato diversi tipi di relazioni con animali, venerandoli come fossero dei; ma sulla scena europea gli animali sono stati un grande insegnamento di scienza naturale e politica. Più si comprendevano le loro “qualità analoghe e non identiche” a quelle dell’uomo, più fantastiche esse divenivano.

L’apicoltura praticata da Virgilio sui suoi terreni nel 30 a.C. lo portò ad ammirare, nel libro quarto delle Georgiche, la loro ottima etica di lavoro – “All’alba si riversano fuori dalle arnie, senza indugiare” ammirando così il loro senso del bene comune – “condividono un’unica casa nella loro “città”/vivendo in modo altamente rigoroso scandito da leggi ferree”- lodandone la loro castità - "Non si attardano nella copulazioni e non indulgono sul proprio corpo in maniera erotica”.

Gli studi di Plinio il Vecchio del primo secolo dimostrarono, con sua grande soddisfazione, che le meraviglie del mondo animale erano tali che l’uomo, al loro confronto, “niente sa e niente riesce a imparare a meno che non gli venga insegnato: non potrebbe camminare, o parlare, o mangiare, o qualsiasi altra cosa a meno che non lo impari dalla natura; potrebbe solo piangere”.

All’approccio scientifico nell’osservazione degli animali adottato dai poeti e filosofi Greco-Romani, la Cristianità medievale aggiunse la dimensione fantastica – non ci si poteva fidare di nessun elemento naturale a meno che non fosse stato battezzato con un simbolo o imbrigliato in un’allegoria. Nelle pagine illuminate delle bibbie del decimo secolo e nei rosoni delle cattedrali gotiche, l’ape divenne il simbolo della speranza, il gallo e la capra un simbolo di Satana, la mosca indicava la lussuria, l’agnello e la colomba impersonavano alternatamente la figura di Cristo. Invece di sottolineare gli straordinari talenti di alcuni animali, i religiosi davano forma ad esseri mitologici, tra cui il drago (enorme, con ali di pipistrello, che sputava fuoco, dalla coda irsuta) e l’unicorno (corpo bianco, occhi azzurri, un unico corno con la punta rossa).

La rinascita dell’antichità classica nell’Italia del quindicesimo secolo, riportò l’osservazione delle correlazioni esistenti tra uomo e animale. I dipinti anatomici nel quaderno degli schizzi di Leonardo da Vinci (cavalli, cigni, cadaveri umani) sono opere d’arte di uguale valore che l’Ultima Cena o la Monna Lisa. Egli vedeva gli esseri umani come organismi tra altri organismi nel grande cerchio dell’esistenza, con le varie forme di vita che si fondevano una dentro l’altra nelle varie composizioni di aria, terra, fuoco e acqua. Il ritratto di Arcimboldo del 1566 di una testa d’uomo, anticipava la conclusione, poi raggiunta nel 1605 dal Vescovo inglese Joseph Hall, che: "l’umanità, quindi, ha dentro di sé capre, camaleonti, salamandre, cammelli, lupi, cani, suini, talpe e qualsiasi altra bestia: sono pochi gli uomini tra gli uomini”.

I naturalisti del diciottesimo secolo condividevano di Virgilio l’osservazione nel regno animale di quei segni delle loro ottime capacità di governarsi. Il Conte di Buffon, responsabile del Giardino Botanico Reale per Luigi XV, riconobbe nel castoro notevoli doti di architetto, capace com’era di costruire grandi dighe; ma era ancora più ammirato dalla capacità del castoro di costruire un proprio sistema sociale, “con quel particolare modo di comprendersi gli uni gli altri ed agire di conseguenza. Per quanto numerose possano essere le comunità di castori, in esse regnano sempre la pace e l’ordine”.

Buffon era abituato, come Virgilio e Leonardo, non solo alla compagnia dei cavalli e delle api, ma anche alla vista e ai suoni di anatre, vacche, galline, maiali, tartarughe, capre, conigli e falchi. Questi gli fornivano sì il bacon, la zuppa e le uova, ma anche la domanda: “Chi può mai dire…quanta operosità, generosità e affetto abbiamo imparato noi umani dalla pantomima delle bestie?”

COME IL MONDO ANIMALE HA SMARRITO LA SUA LICENZA DI INSEGNANTE

Non molto, se le bestie non ci sono più. Nel corso degli ultimi due secoli, gli animali sono divenuti invisibili nel sistema di vita Americano, non più considerati compagni “storici” della società umana, scomparsi dal paesaggio rurale e urbano. Nel 1813, John James Audubon, sulle sponde del fiume Ohio River, restava di stucco di fronte ad un massacro di migliaia di piccioni selvaggi da parte di centinaia di uomini, armati di pistole, torce e bastoni di ferro. Nel 1880, in una riserva di Indiani Sioux nel territorio Dakota, Luther Orso-in-Piedi, non riusciva a mangiare la carne di “bue puzzolente” in sostituzione del loro “bufalo selvaggio”, che l’uomo bianco aveva decimato in poco tempo.

E non erano i soli ad osservare questo cambiamento. Molti altri avevano notato la scomparsa degli animali dalla vita e dalla cultura umana. Ad esempio, nel 1900, per le strade di New York City, si potevano trovare tra i 150.000 e i 200,000 cavalli, il che significava la raccolta di cinque milioni di libre (2.3 milioni di chili) di letame. Nel 1912, la loro funzione di mezzi di trasporto si era notevolmente ridotta con l’avvento dell’automobile.

E come accadeva ai cavalli da tiro, lo stesso avveniva per la maggioranza dei “compagni dei lavori agricoli” dell’uomo. Lontani dagli occhi, lontani dal cuore, la gallina, il maiale e la mucca hanno perso la loro licenza di insegnamento.

La moderna società industriale che nasceva nel ventesimo secolo li ha trasformati in beni e prodotti, persi nel vortice del progresso economico e scientifico, altrimenti detto “conquista della natura”.

Gli animali acquisirono le identità che gli conferiva l’uomo, divennero etichette sui cibi surgelati, conservando solo una piccola parte del loro valore intrinseco nella misura in cui fossero strumenti di ricerca o simboli culturali – il circo, lo zoo, un logo aziendale o un personaggio dei cartoni animati di Hollywood, un ingrediente attivo del salmone fresco d’allevamento o carne bovina geneticamente modificata.

Fu dieci anni dopo il mio incontro con il Koala Australiano che ho fatto la conoscenza di un animale allo stato naturale – un entello grigio (una scimmia asiatica, Semnopithecus entellus, pelliccia dorata, golosa di frutta e fiori). Era alta più o meno 60 centimetri, rapida nei movimenti, una delle 60 o 70 specie di scimmie che abitano l’eremo del Maharishi Mahesh Yogi sulle rive del Gange, 128 miglia (206 chilometri) a nord di Nuova Delhi.

A quel tempo (Febbraio 1968) il Maharishi era all’apice della sua fama di guru; la celebrità della sua scienza della Meditazione Trascendentale aveva raggiunto Los Angeles, New York e Londra, e proprio in quell’inverno teneva lezioni sulla calendula gialla (pianta officinale per l’ipertensione arteriosa n.d.t.) ad un gruppo scelto di discepoli, tra i quali i quattro Beatles, durante un loro viaggio nella spiritualità orientale, alla ricerca di un nuovo benessere illuminato, lontani dal loro decadente e materialista mondo occidentale.

L’eremo era immerso in una foresta di alberi di teak e sheesham (un tipo di legno indiano) ai piedi del gruppo dell’Himalaya. Incaricato dalla stampa americana, mi era stato proposto dal direttore del Saturday Evening Post di ascoltare la voce del cosmo sotto il tetto del mondo. Durante le mie tre settimane nell’eremo non ho saputo sui Beatles niente di più di quanto già sapessero i loro fan, e dal Maharishi niente di più che il fatto che al quinto stadio di consapevolezza “Tutto diventa ridicolo”. Ma dalla scimmia imparai che essa era qualcosa di diverso: non soltanto un animale, un piccolo amico dell’uomo, una semplice allegoria, un personaggio del cinema o un esperimento di laboratorio.

Due giorni dopo il mio arrivo la notai, in piedi, su un albero di fronte al piccolo rifugio dove mi era stato detto di alloggiare (una stanza di pietra bianca, senza finestre), vicino all’entrata secondaria dell’eremo. Dopo due giorni, la scimmia era sempre là ogni volta che entravo o uscivo dal rifugio e sentivo che ero io ad essere osservato dalla scimmia, non la scimmia ad essere osservata da me.

La mattina del quinto giorno le offrii una fetta di pane; più tardi, nel pomeriggio, mezza arancia. Ovviamente, accettò entrambe le offerte; ma nessun segno di riconoscenza o gratitudine o affetto. Interpretai questo suo atteggiamento come se io fossi stato lento nell’adeguarmi agli usi del luogo. Quella stessa sera, uno dei collaboratori del guru, un monaco con la veste giallo zafferano di nome Raghvendra, confermò questa mia idea. In India, mi disse, l’entello grigio era un animale sacro, più conosciuto col nome di Langur – Hanuman, il nome della divinità induista dalle sembianze di scimmia, dio della guarigione e del culto – adorato per la sua propensione ad accompagnare i pellegrini. Per questo godeva più o meno degli stessi privilegi delle vacche, libertà, quindi, di mangiare dai banchi dei mercati e dai magazzini di grano.

Per qualche strano motivo, o forse per più di un motivo, la scimmia, nei dieci giorni successivi, è rimasta sempre vicina a me, all’altezza del mio ginocchio destro, accompagnandomi nel …cammino verso la pura conoscenza, un cammino durante il quale mi sono giustamente adoperato nel dispensare briciole di cioccolato indurito e scaglie di formaggio secco. Se andavo nella sala riunioni ad ascoltare il Maharishi che parlava di Vishnu, la scimmia rimaneva lì ferma sul tetto di lamiera corrugato; quando veniva servito il pasto sulla terrazzo, lì dove i discepoli ricevevano la loro razione quotidiana di riso, tè e verdure bollite insipide, la scimmia faceva capolino tra il pergolato, dietro il tavolo dei cibi, pronta a correre in direzione di qualche pezzo di di carota o rapa stracotta che avrei potuto tirarle.

Quando uscii dal rifugio, il mio ultimo giorno, per incamminarmi verso il traghetto che attraversava il Gange, vidi che la scimmia non era più in piedi sul solito albero. Forse aveva compreso che il mio tempo era finito, che aveva fatto tutto il possibile per un pellegrino lento di comprendonio e che non conosceva la lingua. O forse, no. Quello che è certo è che non gliene importava granchè. Era andata avanti nella sua vita, da qualche altra parte, forse annoiata di sentire una voce che non era esattamente la voce del cosmo.

 Alca impenne

LA SCOMPARSA DEGLI ANIMALI

Lo studioso e saggista rinascimentale Michel de Montaigne si domandava già nel 1576: “Quando gioco con il mio gatto, chissà se è lui il mio passatempo o se sono io il suo.” Il dubbio di Montaigne sorgeva alla luce dell’insegnamento biblico secondo il quale l’Uomo era stato creato ad immagine di Dio e, quindi, gli era stato dato “il dominio sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni altro essere che si muove sulla terra”.

La pretesa del trono dell’universo da parte di quella che Montaigne definiva “la più fragile e vulnerabile tra le creature”, egli la considerava un’impudenza vanagloriosa; “l’Uomo che si abbiglia come un Dio e si tiene a debita distanza dalle orde delle altre creature, conferendo a questa o a quella quello facoltà e capacità a suo piacimento”. Divertito da questo ragionamento, Montaigne continuò domandandosi anche: "Come può (l’uomo) conoscere, con la sua intelligenza, l’intimo sentire degli animali? Da quale confronto tra loro e noi egli ne deduce la stupidità che gli attribuisce? E’ solo una deduzione, che porta in sé l’errore di una mancata reale comprensione reciproca; poiché noi non comprendiamo loro tanto quanto loro non comprendono noi. Per questo stesso ragionamento anche loro possono considerare noi bestie, come noi consideriamo loro.”

Lo scrittore Americano Henry Beston riprese questi interrogativi mentre camminava sulla spiaggia di Cape Cod negli anni ’20, mentre osservava le costellazioni di uccelli acquatici formarsi e riformarsi “in silenziosa e costante obbedienza, come se rispondessero ad un misterioso comando. Affascinato dai voli a spirale, che paragonava a “stelle viventi”, Beston comprese che le creature “non umane" eludevano la definizione che l’uomo gli aveva attribuito, e cioè che gli animali non potevano considerarsi meccanismi programmati dal Grande Meccanismo Creatore nel cielo per saltare, emettere versi, nuotare, librarsi in volo, ruggire, fare nidi, strisciare, osservare e accoppiarsi.

"Abbiamo bisogno” disse Beston “ di un nuovo concetto più sacro degli animali…Noi li sovrastiamo per la loro incompletezza, a causa del destino che li ha creati in forme inferiori a noi. Ma sbagliamo, e molto. Non sono sottospecie, non sono esseri inferiori; loro sono altre nazioni, che esistono insieme a noi nella stessa nostra rete di tempo e di esistenza, anch’essi prigionieri dello splendore e del travaglio della terra”.

Con l’avvento del 21° secolo, ciò che resta dell’antica fratellanza tra uomo e animale è per lo più legata alla convivenza e alla cura di un animale domestico. Probabilmente, per compensare la rapida ed inesorabile scomparsa delle specie del mondo animale, il numero degli animali domestici negli Stati Uniti ha superato quello dell’intera popolazione umana a sud del Potomac e ad ovest del Mississippi – 70 milioni di cani, 75 milioni di gatti, 5 milioni di cavalli. E Dio solo sa chissà quanti rettili e uccelli in gabbia…

Che gli animali siano ancora fonte di insegnamento, o che abbiamo quelle “qualità analoghe” che Aristotele definiva “forme di intelligenza”, è una teoria fortemente sostenuta dai numerosi documentari che esplorano le giungle dell’Africa e dal fatto che i video di gatti postati sulla rete sono molto più visti di quelli dei costosi pupazzi meccanici che fanno da sfondo rituale ai Super Bowl.

Per 2,500 anni gli studiosi della natura hanno realizzato che più essi imparavano degli animali e più meravigliosi questi gli apparivano. L’osservazione spesso è affidata a strumenti scientifici e artistici, ma è ancora più istruttivo guardare, come faceva Beston a Cape Cod, il modo in cui altre nazioni si completano in se stesse “con quel dono dell’estensione dei sensi che noi abbiamo perso o mai raggiunto, e dell’ascolto di voci che noi non sentiremo mai.”

I rapporti sui danni ambientali dai quattro angoli del mondo degli ultimi duecento anni non lasciano più spazio alla domanda di Montaigne su chi sia la bestia e chi l’uomo.

Che sia condotta da uomini armati di provetta o bulldozer, la conquista della natura è un impresa di folli. Nonostante tutto, gli animali riescono a vivere non solo a loro agio nella grande catena dell’esistenza, ma anche in armonia con le maree, con le stagioni e con la presenza della morte: è questo il loro grande insegnamento all’umanità. Sia che ci decidiamo ad impararla, sia che prendiamo la strada dell’ Alca Impenne (una specie di pinguino, estinta nel 19° secolo.

giovedì 28 marzo 2013

SOSTENIBILITA', NUOVO PARADIGMA



L'esito delle elezioni ha creato una irreversibile instabilità del sistema politico italiano, ma sta anche facendo prendere coscienza a molti che siamo ormai alla vigilia di un "cambio di paradigma". Il sistema politico che ha retto le sorti del Paese negli ultimi vent'anni, ma soprattutto l'assetto economico che lo ha forgiato e foraggiato, non reggono più. Il successo di Grillo non ne è che un segnale.
Questo assetto, espressione e referente del cosiddetto "pensiero unico", è il combinato disposto di vari fattori.
Globalizzazione, delocalizzazione delle produzioni, precarizzazione del lavoro, diseguaglianze crescenti, finanziarizzazione del comando capitalistico, debito pubblico e privato come strumento di imbrigliamento della società, della politica e del lavoro, guerre, crisi e insicurezza come condizione umana permanente. È il paradigma che si è andato affermando nell'ultimo quarto del secolo scorso a spese di quello che era stato in vigore prima, nei cosiddetti "trent'anni gloriosi" (1945-75) senza che per molto tempo quel passaggio venisse avvertito in tutta la sua portata. Perché fino a quarant'anni fa i meccanismi portanti dell'accumulazione del capitale erano stati il mito dello sviluppo economico (sia nei paesi già "sviluppati" che in quelli "in via di sviluppo") e la crescita di salari, consumi e welfare: una sintesi di fordismo e politiche keynesiane governata con la continua espansione della spesa pubblica e l'intervento dello Stato nell'economia. Anche quel paradigma aveva comunque concluso il suo corso perché non reggeva più: a metterlo alle strette erano state le aspettative di uguaglianza, di autonomia, di democrazia, di libertà delle nuove generazioni (non a caso si era parlato allora addirittura dei "giovani come classe"): i movimenti studenteschi del '68, la rivolta antimilitarista contro la guerra in Vietnam, la discesa in campo, in molti paesi, di una classe operaia giovane, spesso immigrata, ancora in gran parte concentrata in grandi stabilimenti industriali; e poi, al loro seguito, una pletora di "categorie" sociali - dai ricercatori ai giornalisti e agli insegnanti, dai poliziotti ai magistrati, dai disoccupati "organizzati" ai baraccati - che aveva messo in moto, senza portarla a termine, quella «lunga marcia attraverso le istituzioni» preconizzata da Rudi Dutschke.
Adesso un nuovo cambio di paradigma, e ben più radicale e traumatico, è di nuovo all'ordine del giorno; non è ancora il contenuto esplicito di un conflitto aperto, ma cova sotto traccia da parecchi anni. C'è chi sostiene che la soluzione alla crisi in corso sia il ritorno al paradigma di un tempo: più Stato e meno mercato, più spesa pubblica per rilanciare redditi e consumi, più Grandi Opere e incentivi alle imprese per creare occupazione. Ma bastano ricette del genere per far fronte alla crisi?
No. Le condizioni che presiedevano al modello dei "trenta gloriosi" non ci sono più. Il mondo si è "globalizzato": lo hanno reso tale non solo la "libera circolazione" dei capitali (che certamente va bloccata) e l'enorme viavai di merci generato da una divisione del lavoro estesa su scala planetaria (che va drasticamente ridotto). Ma anche internet - una grande risorsa per tutti - la diffusione dell'istruzione, e l'accesso all'informazione, in tutti i paesi e i giganteschi flussi migratori che attraversano il mondo intero, che sono invece fenomeni irreversibili. Tuttavia l'orizzonte esistenziale della nostra epoca è ormai occupato - la si voglia vedere o no - dalla crisi ambientale che incombe tanto su tutto il pianeta quanto, in forme specifiche e differenti, su ogni sua singola porzione. Crescita e sviluppo - pur con tutte le qualificazioni del caso - sono ormai ritornelli ricorrenti ma privi di senso perché la crisi ambientale sbarra la strada a ogni espansione economica che non sia anche e soprattutto devastazione.
Bisogna allora rivedere alle radici gli assetti che ci hanno portato sull'orlo della catastrofe. La finanziarizzazione, da tutti individuata come causa principale della crisi (anche se i più affidano ad essa anche la ricerca delle soluzioni per uscirne) non è che il compimento parossistico di un processo iniziato oltre due secoli fa con quella che Karl Polanyi aveva chiamato «la grande trasformazione»: la riduzione a merci di tre cose che merci non possono essere, pena la distruzione della vita associata (e, oggi possiamo dirlo, anche del nostro rapporto con Madre Terra). Quelle tre "cose" che continuano a rivoltarsi contro la loro riduzione a merci (Polanyi le chiamava «merci fittizie») sono il lavoro, la terra e il denaro. La lotta dei lavoratori contro la propria mercificazione non ha bisogno di illustrazioni, perché è la storia stessa del movimento operaio nelle sue più diverse espressioni. L'appropriazione delle terre (enclosure, ai tempi di Elisabetta I e landgrabbing oggi) è stata ed è la base di quell'«accumulazione primitiva» che per il capitale non è un processo iniziale, ma permanente. Però oggi è tutta la Terra, intesa come ambiente (aria, acqua, suolo ed energia), a essere oggetto di compravendita sotto forma di green-economy: un valido motivo per contrastarla nei suoi presupposti, perché è l'esatto opposto di una vera conversione ecologica. Quanto al denaro, delle sue tre funzioni fondamentali - misura del valore, mezzo di scambio e oggetto di accumulazione - la finanziarizzazione non è che il definitivo sopravvento della terza funzione sulle altre due: il prezzo delle merci è ormai determinato dalle speculazioni su di esse più che dal valore o dal contributo degli input produttivi e gli scambi - il nostro accesso ai beni e ai servizi in commercio - sono sempre più mediati da qualche forma di debito, che è lo strumento fondamentale della finanziarizzazione. La crisi in corso non è altro che questo. Perciò, anche se non abbiamo un modello preciso a cui ispirarci, sappiamo che l'uscita dalla crisi dovrà necessariamente incorporare forme nuove di controllo sociale sul lavoro, sui beni comuni e sul credito (l'attività delle banche; perché denaro e credito sono in gran parte la stessa cosa). Non sarà una passeggiata, ma un conflitto lungo e aspro, che solo una profonda consapevolezza che «ritirarsi è peggio» potrà alimentare. Sapendo però che il nuovo paradigma dovrà convivere ancora a lungo con forme, ancorché depotenziate, di economia del debito; così come la democrazia partecipativa non potrà - né dovrà - fare a meno di quella rappresentativa, e di quel sistema politico degradato che la sorregge ormai in tutto il mondo.
Il nuovo paradigma che può e deve prendere il posto di quello fallimentare imposto dal pensiero unico liberista è la sostenibilità ambientale. La si chiami decrescita, conversione ecologica, giustizia sociale e ambientale o economia dei beni comuni (senza pretendere di annullare le differenze tra questi approcci) è l'unica soluzione che può garantire equità nella distribuzione delle risorse, salvaguardia degli equilibri ecologici e recupero del know-how, del patrimonio impiantistico e dell'occupazione che il sistema economico attuale sta mandando in malora: una fabbrica dopo l'altra, un paese dopo l'altro.
La transizione a questo nuovo paradigma non può essere governata dall'alto o da un "centro" - come è il caso, invece, nella maggior parte delle politiche neokeynesiane - perché si fonda su diffusione, ridimensionamento, differenziazione e interconnessione orizzontale sia degli impianti produttivi che degli interventi: si pensi alla vera vocazione delle fonti rinnovabili (per essere efficienti devono essere piccole, differenziate e distribuite e non concentrate come si fa ancora troppo spesso), all'efficienza energetica, all'agricoltura multifunzionale e a km0, alla gestione dei rifiuti, alla mobilità flessibile, alla salvaguardia degli assetti idrogeologici, ecc. Quel nuovo paradigma è intrinsecamente democratico e indissolubilmente legato a uno sviluppo della partecipazione, perché non può affermarsi senza il concorso dei saperi diffusi presenti sul territorio e l'iniziativa dei lavoratori e delle comunità interessate; il che impone agli asset sottoposti alla transizione il connotato di "beni comuni" .
L'altro requisito irrinunciabile del nuovo paradigma è la ri-territorializzazione (o ri-localizzazione) di molte attività produttive. Gli effetti nefasti della globalizzazione non si combattono con il protezionismo (fermare le merci ai confini preclude la possibilità di esportarne altre: quelle necessarie a pagare ciò che un singolo Paese o anche un singolo continente non potrà mai produrre); e meno che mai con il ritorno alle valute nazionali. Non è l'euro - che è "solo" una moneta - la causa degli squilibri crescenti che investono l'Europa; bensì il modo in cui l'euro è governato: cioè i limiti, che le altre valute mondiali non conoscono, imposti alla sua gestione per trasferire meglio all'alta finanza il comando sulle politiche economiche nazionali e per portare avanti l'attacco a occupazione, salari e welfare. La ri-territorializzazione si realizza invece promuovendo controllo sociale sui processi produttivi; e innanzitutto sui servizi pubblici locali (energia, ristorazione pubblica, gestione dei rifiuti, mobilità, servizi idrici, ecc.) e combattendone la privatizzazione. Convertiti in "beni comuni" gestiti in forma partecipata, i servizi pubblici locali possono diventare il punto di raccordo tra la promozione di una domanda finale ecologicamente sostenibile e l'offerta di impianti, materiali, attrezzature e know-how necessari per soddisfarla. Per esempio, raccordo tra diffusione delle fonti rinnovabili e dell'efficienza energetica e imprese riconvertite alla produzione degli impianti e dei materiali corrispondenti. O tra approvvigionamento di cibi sani e a km0 per le mense pubbliche e per tutti coloro che lo desiderino e un'agricoltura ecologica di prossimità; e così per la mobilità, l'edilizia, la gestione dei rifiuti, ecc. Certo garantire l'incontro tra domanda e offerta richiede accordi di programma di cui possono farsi carico solo i governi locali che assumono su di sé la responsabilità della transizione. Accordi che certo limitano la concorrenza - ma non il funzionamento dei mercati - nelle forme propugnate dal pensiero unico e dall'establishment. Ma sono accordi fattibili, persino compatibili, in nome della salvaguardia dell'ambiente, con la normativa dell'Ue; e che in alcuni casi vengono già praticati. E' la strada che occorre percorrere.

mercoledì 27 marzo 2013

MARO! CHE FIGURA!



Il mondo cambia, sta cambiando, è già cambiato e forse non tutti ce ne siamo accorti.
Finora avevo accuratamente evitato di intervenire sulla questione dei Marò italiani accusati dell’omicidio di due pescatori indiani, ma gli ultimi avvenimenti, con il ritorno degli stessi in India dopo il goffo tentativo di sottrarsi ad un impegno preso e le posizioni sempre più fascistoidi e impregnate di ignoranza sciovinista mi inducono a fare alcune riflessioni.
I due hanno sparato e ucciso due pescatori (25 e 42 anni) in acque (forse) internazionali, scambiandoli per pirati. Due padri di famiglia che non sono potuti tornare a casa, non per votare o per le vacanze di Natale, ma semplicemente dai propri familiari e che non ci torneranno mai più. Fin dall’inizio la questione principale apparve chiaro , fosse quella delle competenze, con un incrocio di leggi e norme che vanno dal diritto internazionale a quello degli stati interessati, oltre che a quello marittimo e militare.
Da parte italiana la questione è stata affrontata, da subito, con leggerezza e sottovalutazione, certi che, grazie ai buoni rapporti con l’India, la questione si sarebbe risolta con qualche pacca sulle spalle e un impegno a non farlo più: “ Dai, in fondo, sono ragazzi!”
Convinzione nata dalla stessa ignoranza e presunzione di superiorità manifestata per ogni dove negli ultimi tempi, per cui l’India è vista ancora come il paese sottosviluppato e abitato solo da tigri e da selvaggi come nei romanzi salgariani.
Se si fosse seguita un pochino di più l’evoluzione del mondo e di alcuni paesi in particolare degli ultimi venti anni, ci si sarebbe accorti che da molto tempo le cose non sono più così.

Cit……”L'Italia perde due posizioni nella classifica dei 20 paesi più industrializzati, superata anche da India e Corea del Sud……..
…L’India laurea un numero enorme di bravissimi ingegneri e computer scientist, e in tutto il mondo nei dipartimenti di Fisica e di Matematica trovi più indiani che europei. La produttività del settore industriale è notevole, per non ripetere che il reddito nazionale in India cresce a ritmi che noi non conosciamo dagli anni Sessanta. Il centro di New Delhi è oramai più pulito di quello di Roma, la metropolitana più lunga e efficiente, lo show business è formidabile a cominciare dal cinema, l’aeroporto Indira Gandhi nella capitale è modernissimo, gallerie d’arte e librerie sono numerose.”…..

Accanto a questi enormi progressi dell’India e di altri paesi dell’ex terzo mondo, contemporaneamente c’è stata una regressione a livello di credibilità internazionale dell’Italia che, ormai, la pone ai margini, dello scenario politico mondiale grazie alla scelleratezza delle scelte economiche e politiche degli ultimi venti anni.
Tanto per essere chiari, è l’India che può esercitare maggiori pressioni sia politiche che economiche verso l’Italia, non il contrario.
Da parte di alcuni si sente vaneggiare di azioni di forza che si dovrebbero mettere in atto con blitz militari per liberare  i due marò o addirittura di minaccie di vendette xenofobe nei confronti dei numerosi indiani presenti in Italia (sperando che, poi, siano in grado di distinguerli dai pakistani o da quelli del Bangladesh onde evitare ulteriori guai internazionali).
“Uè ragassi, ma siamo impassiti?” Come direbbe il buon Bersani.
Avremmo lo stesso atteggiamento se il fatto si fosse svolto esattamente al contrario con due pescatori italiani uccisi perché scambiati per pirati?
Io non so come si siano svolti i fatti, se i due sono colpevoli per errore o per scelta, se erano in acque internazionali o indiane, ma so per certo che la questione è stata trattata da parte italiana con una imperizia impressionante (questa sì colpevole), e le ultima mosse con il rifiuto, prima, di far ripartire i due, dopo aver sottoscritto un impegno, e poi la decisione di rimandarli in India, non ha certo migliorato la situazione.
L’India lasciando liberi i due di tornare per votare si era assolutamente fidata dell’impegno preso dall’Italia che, invece, con il goffo tentativo di non onorarlo, ha mostrato una grave mancanza di rispetto che, a livello internazionale (non solo nei confronti dell’India) ha il suo peso. Tra l’altro ora, ad essere in una condizione ancor più grave, sono proprio i due soldati che si sarebbe voluti tutelare, rischiando di far fare loro la fine dei vasi di  coccio tra la rabbia indiana e la scelleratezza italiana.
Ci vorrà, tempo, molta pazienza e capacità diplomatiche per rimettere insieme i cocci della situazione, e senza un governo credibile, attualmente, la cosa è ancor più complicata.
Ecco se proprio vogliamo dare una mano ai marò e non solo a loro, interessiamoci di più di avere rappresentanti efficienti ,capaci e responsabili nei confronti dell’intera nazione e capire che non siamo più ai tempi di Roma caput Mundi, ora Roma e L’Italia, purtroppo, sono molto più periferia che centro e di questo dobbiamo essere tutti un po’ più coscienti.
“Ogni paese ha il governo che si merita.”

MIZIO

martedì 26 marzo 2013

FORESTE, FONTE DI VITA


amazzonia Amazzonia

"Senza le foreste non ci sarebbe vita sulla Terra", ricorda Greenpeace in occasione della Giornata Internazionale delle Foreste ( 21 marzo 2013), proclamata lo scorso novembre dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. In tempi di cambiamenti climatici, ricorda l'associazione, le foreste trattengono circa 300 miliardi di tonnellate di carbonio, ovvero 40 volte le emissioni di gas serra che emettiamo ogni anno a livello globale. Sono la casa di milioni di persone che vivono delle foreste, ma anche mammiferi, uccelli, rettili, insetti, alberi, fiori e pesci. “La distruzione di una foresta in una parte del globo può avere un impatto disastroso dall’altra parte del Pianeta. Alcuni scienziati hanno recentemente dimostrato come la perdita di foreste in Amazzonia e in Africa centrale riduca notevolmente le precipitazioni nel Midwest negli Stati Uniti” spiega Chiara Campione, responsabile campagna Foreste Greenpeace Italia. Dall’Amazzonia all’Africa Centrale, dal Canada alla Siberia, dalla Papua Nuova Guinea all’Indonesia, da Sumatra alla nostra Europa Greenpeace ha diffuso immagini delle foreste più belle del mondo, con l’auspicio di raggiungere presto l’obiettivo Deforestazione Zero e conservare questi preziosi ecosistemi.
"Tutelare le foreste significa tutelare e garantire un futuro più verde. È questo il messaggio che in Italia Federparchi, Kyoto Club e Legambiente hanno lanciato in occasione della Giornata. Un’occasione per ribadire l’importanza di una maggiore tutela e valorizzazione di questo prezioso patrimonio, minacciato dai cambiamenti climatici e dalla conversione, sempre più diffusa, del suolo ad altri usi. Ogni anno vengono, infatti, perduti circa 13 milioni di ettari di foreste. Per fronteggiare questa perdita, le tre associazioni nel 2007 hanno dato vita al Comitato Parchi per Kyoto, che si occupa di attivare in Italia progetti di forestazione nelle aree protette e promuovere campagne d’informazione per una gestione sostenibile del territorio. Fino ad ora il Comitato ha avviato quasi 30 progetti, coinvolgendo 44 aree protette per un totale di 76.051 alberi piantumati.

Sumatra  Sumatra

“Salvaguardare le foreste – dichiara Giampiero Sammuri, presidente di Federparchi – significa avere impatti positivi sul clima, sulla biodiversità, sulla salute ed il benessere dei cittadini. In questi anni Parchi per Kyoto, oltre a dare un contributo concreto in termini di contenimento della CO2, ha cercato di creare una sinergia tra le imprese e le aree protette italiane per avviare progetti di forestazione. I parchi naturali, che in Italia coprono circa il 10% del territorio, sono infatti soggetti del tutto funzionali e strategici ad ospitare progetti di rimboschimento finalizzati a sottrarre anidride carbonica dall’atmosfera”.
Le foreste rappresentano il più importante serbatoio di biodiversità per l’80% delle specie animali e vegetali della Terra, garantiscono la protezione del suolo, la qualità dell’aria e delle acque e forniscono importanti beni e servizi pubblici per ben oltre 7 miliardi di persone. Inoltre mitigano gli effetti dei cambiamenti climatici, poiché funzionano come serbatoi di assorbimento del carbonio, e forniscono una protezione naturale contro gli effetti del dissesto idrogeologico.
“Ogni albero nel corso del suo intero ciclo di vita – spiega Catia Bastioli, Presidente Kyoto Club – permette l’abbattimento di una quantità stimata in circa 700 Kg di CO2. Per questo riteniamo importanti i progetti di forestazione e i risultati ottenuti fino ad ora lo stanno dimostrando. Inoltre non dimentichiamo che l’importanza degli interventi di forestazione è stata riconosciuta sia dal Protocollo di Kyoto sia dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici”.

Indonesia Indonesia

Fonti: Greenpeace, Parchi per Kyoto

sabato 23 marzo 2013

INVASIONI BARBARICHE





Inizialmente passano inosservati e, solo alcuni attenti osservatori, si accorgono della loro presenza. Arrivano per le vie più disparate. Per i cambiamenti climatici, per lo sfruttamento da parte dell’uomo, per la mancanza di competitori naturali, per la maggiore adattabilità ad usare gli spazi inutilizzati, per la colpevole incoscienza degli umani. Non stiamo parlando delle migrazioni dei milioni di disperati attirati dal miraggio di una vita migliore qui da noi, ma di esseri altrettanto numerosi, meno disperati, ma altrettanto decisi a conquistare nuovi spazi e nuovi territori, spesso a scapito degli abitanti originari. 
Stiamo parlando delle centinaia di nuove specie animali che arrivano in Italia e in Europa da altri continenti e ambienti e che trovano numerose nicchie ecologiche da sfruttare. 
Sono specie più robuste adattabili delle nostre e tendono, quindi, a sostituirsi ad esse entrando in competizione alimentare ed ecologica, rompendo un millenario equilibrio, alterando i biotopi con conseguenze, spesso irreversibili, a tutto scapito della biodiversità originale.
Mentre alcune di queste specie sono portate naturalmente ad espandersi, la maggior parte è stata favorita dalle attività umane, con il riscaldamento globale e i cambiamenti climatici, l’alterazione degli habitat naturali, il collezionismo, l’allevamento di specie esotiche, con conseguenti fughe e/o rilasci volontari per la caccia, la pesca o per incuria e ignoranza.
In molti casi il processo appare irreversibile e l’unica cosa che si può fare è cercare di preservare con severe norme di protezione i  pochi ambienti rimasti con caratteristiche di verginità ecologica sperando che da queste isole parta la riconquista dell’ambiente da parte dei legittimi originari abitanti.

Solo tra i vertebrati ci sono, tra gli altri: (i dati sono presi dal sito del DAISIE)

 Trota iridea

 Siluro

Pesci: Trota Iridea, Salmerino di fonte, Blicca, Abramide, Pseudorasbora, Gardon,Rodeo, Siluro, Pesce gatto, Pesce gatto americano, Pesce gatto africano, Pesce Re, Persico trota, Persico sole, Acerina, Luccioperca, Carpa erbivora, Carpa argentata, Carassio, Tilapia, Rutilo, Gambusia, Barbo danubiano, Barbo spagnolo, Aspio, Temolo Russo;

L’immissione di pesci estranei all’habitat originale ha causato la completa alterazione dello stesso. Ad esempio dove è stata seminata in maniera scellerata la trota iridea (la mitica trota salmonata) ha spazzato via le originarie popolazioni di trota marmorata e fario sia alpine che appenniniche. 
L’introduzione del siluro (un pesce di più di due mt di lunghezza e del peso anche di pltre 200 Kg) nel bacino del Po e i suoi affluenti ha provocato la scomparsa quasi totale di diverse specie di pesci nostrani, come il cavedano, il barbo, il luccio diventando la specie dominante in un ambiente, in cui la piramide ecologica era frutto di equilibri millenari. Purtroppo la sua diffusione pare inarrestabile, essendo arrivato, ormai, a colonizzare anche altri ambienti ancora più piccoli e più indifesi dal punto di vista dell’equilibrio ecologico come L’Arno e i suoi affluenti.

Anfibi: Rana toro, Rana balcanica

 Rana toro

In questo caso i danni risultano minori per la limitata espansione, soprattutto della rana  toro americana che, nutrendosi di altri anfibi avrebbe potuto costituire una seria minaccia per gli stessi. Sopravvive con poche popolazioni solo nella pianura Padana.

Rettili: Tartaruga orecchie rosse ,Agama agama, Geco dei balcani.

 Tartaruga orecchie rosse

Tra i rettili l’impatto ecologico peggiore lo sta provocando quella simpatica tartarughina acquatica proveniente dalla Florida, che, pur essendone vietata per legge la vendita,
continua ad essere presente nelle mille fiere paesane e nei negozi di animali. Così piccola e innocua fa tenerezza e si porta a casa per far contento il pupo. Salvo poi scoprire che la tenera piccola tartarughina si trasforma in un vorace mostro che arriva a pesare anche 5 kg. 
Allora che si fa? Si rilascia nel primo stagno, laghetto o pozza d’acqua, decretando così la scomparsa della più rara, timida e meno aggressiva, tartaruga d’acqua dolce nostrana.

Uccelli: Ibis sacro, Airone Guardabuoi,Coturnice orientale, Colino della Virginia, Parrocchetto dal collare, Parrocchetto monaco, Usignolo del Giappone, Bengalino comune, Becco a cono golacinerina, tortora dal collare orientale

 Parrocchetto monaco

Gli uccelli dal punto di vista ecologico, avendo la possibilità di volare sono sempre stati presenti in maniera occasionale o prolungata, anche in ambienti estranei al proprio. 
Sono quindi, in genere, le specie che meno alterano l’habitat. Esclusi alcuni casi in cui si sovrappongono e si sostituiscono alle specie originarie sfruttando lo stesso ambiente. E’ quello che sta succedendo con l’espandersi di alcune colonie di pappagalli (Parrocchetti monaci e dal collare), ormai stanziali in parchi e giardini di città come Roma che stanno provocando la lenta ma continua diminuzione di specie nostrane come i picchi e le civette, in quanto occupano per la nidificazione gli stessi buchi negli alberi, ed, essendo più grandi e aggressivi, ne causano l’allontanamento.

Mammiferi: Scoiattolo grigio, scoiattolo variabile, tamia siberiano, visone, nutria, cane procione, topo muschiato, minilepre, sciacallo dorato.

 Scoiattolo grigio


  Nutria

 Visone americano
Tra i mammiferi d’importazione quelli che hanno avuto il maggior impatto (negativo) ambientale sono senza dubbio lo scoiattolo grigio che dove è arrivato ha decretato la scomparsa del più timido e gracile scoiattolo rosso tipico delle nostre foreste; tra l’altro, essendo anche molto più confidente con l’uomo rispetto al nostro, riscuote anche molta simpatia. L’altro, involontario flagello.  è la nutria, ormai diffusissima dappertutto ove ci sia un po’ d’acqua che, per la sua abitudine di scavare gallerie nelle rive, spesso franose, dei corsi d’acqua ne compromette la stabilità e, in quei pochi luoghi ove sopravvive ancora la lontra. ne occupa lo stesso habitat contribuendo a metterne in pericolo la sopravvivenza.
Altro ospite di cui si potrebbe fare a meno è il visone americano che fuggiti  dagli allevamenti o liberati da animalisti poco sensibili all’equilibrio ecologico, laddove riescano a sopravvivere falcidiano le covate e i pulcini degli uccelli acquatici e le popolazioni di anfibi. Inoltre più grossi e aggressivi competono con la nostrana puzzola decretandone la sparizione.

Tra gli invertebrati ricordo solo il gambero rosso americano, la zanzara tigre e il famigerato punteruolo rosso ma qui l’elenco è veramente troppo lungo.

 Gambero rosso della Louisiana

 Zanzara tigre


  Punteruolo rosso

Ne citiamo solo tre tra i più comuni e dannosi, la zanzara tigre penso ormai la conoscano purtroppo tutti, è andata a coprire un vuoto ecologico essendo attiva di giorno e, quindi, non entrando in competizione con la comune zanzara. Il punteruolo rosso forse è meno conosciuto, ma sicuramente altrettanto dannoso. A lui si deve la morte ormai quasi certa di quasi tutte le palme presenti nei giardini pubblici e privati. Lasciando l’atroce dubbio di come potrebbe riciclarsi nel momento in cui non avessi più a disposizione le palme preferite. In alcune zone pare abbia cominciato ad attaccare già altre specie di palma.
Ma quello che appare come un vero e proprio flagello biblico è il gambero rosso della Louisiana che, introdotto per l’alimentazione sia umana che dei pesci d’allevamento (per dare il tipico colore rosa alle carni della famosa trota salmonata di cui sopra) è ormai il padrone indiscusso dei laghi e corsi d’acqua del centro-nord Italiano e, grazie al suo eclettismo alimentare e alla sua robustezza sta facendo stragi di anfibi, avannotti e qualsiasi altro animale di piccole dimensione presente nel suo habitat.

Per carità di patria e per l’enormità del lavoro, tacciamo sull’ invasione delle migliaia di specie vegetali esotiche e non, che popolano ormai tutti nostri ambienti, altrettanto infestanti e pericolose. 

Insomma, anche in natura sembra  valere sempre il vecchio proverbio: “Mogli e buoi dei paesi tuoi”

MIZIO

DOMANDE CHE NON HANNO RISPOSTA


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Ci sono misteri che gli scienziati non saranno mai in grado di svelare. Perchè? Il nostro cervello potrebbe non esserne capace. Forse le forze fondamentali della natura sono originate da vibrazioni di energia: è la teoria delle stringhe. Indimostrabile! 

Dove si trova la coscienza? C'è un punto del cervello che possiamo considerare la sede della coscienza? Quando un essere umano allo stato embrionale comincia ad avere stati mentali e quindi qualcosa di simile a una coscienza? La scienza non sa rispondere. Come è nata la vita sulla Terra? Probabilmente non lo sapremo mai (a meno di non avere la macchina del tempo).


All’inizio del secolo scorso, gli astronomi erano divisi in due fazioni: quelli che pensavano che la Via Lattea fosse la sola galassia dell’universo e quelli (pochi) che ritenevano invece che ce ne fossero anche altre. Poi, all’inizio degli anni Venti, lo statunitense Edwin Hubble usò un telescopio più potente degli altri, che gli permise di vedere le galassie attorno alla nostra. Quella scoperta mise fine alla disputa.

La storia della scienza procede così, rispondendo a grandi domande che non di rado, all’inizio, sembrano irrisolvibili. Esistono però alcuni misteri che sono destinati a rimanere tali, perché limiti fisici invalicabili si frappongono fra noi e la soluzione, oppure perché, come fa notare Piergiorgio Strata, presidente dell’istituto nazionale di Neuroscienze, «può darsi che il nostro cervello non sia fatto per capire tutto».



L’universo sconosciuto

Resterà per esempio sempre avvolto dal mistero ciò che c’è al di là dell'universo osservabile. Con questa espressione i cosmologi indicano il confine oltre il quale nessun telescopio potrà mai spingersi, perché la luce che emettono gli oggetti che si trovano più in là di quel limite impiegherebbe, per giungere da noi, un tempo superiore all’età dell’universo, che è di 13,7 miliardi di anni.

Gli strumenti di cui dispone la scienza sono già quasi arrivati a vedere fin lì: recentemente, infatti, in uno studio che ha coinvolto anche l’istituto nazionale di Astrofisica, è stato osservato un lampo di raggi gamma (esplosione che rappresenta lo stadio finale dell’evoluzione di alcune stelle) che dista 13 miliardi e 140 milioni di anni luce dalla Terra. «È l’oggetto più lontano che sia mai stato osservato» ha detto Antonio Cucchiara, l’italiano che ha coordinato lo studio, dall’Università della California di Berkeley. E arrivare proprio a 13,7 miliardi di anni luce sarà molto difficile.

Per molto tempo, gli scienziati hanno pensato che, in fin dei conti, non c’è nessun motivo per pensare che ciò che c’è al di là dell’universo osservabile sia molto diverso da ciò che sta al di qua. In anni recenti, però, la scoperta di flussi di galassie che si muovono rapidissime verso il limite di osservabilità, come se viaggiassero su un’autostrada superveloce, ha fatto pensare che la parte imperscrutabile del cosmo possa nascondere strutture gigantesche, che attraggono le galassie con la loro forza di gravità, e sulla cui natura si possono fare soltanto ipotesi. .

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L’enigma delle stringhe
L’astrofisica, così come molte altre discipline scientifiche, è fatta di un mix di teorie difficilmente verificabili (o non verificabili affatto) e di fatti certi, comprovati dall’osservazione o dagli esperimenti. Esiste però un settore che è totalmente dominato dalle prime: la teoria delle stringhe, in base alla quale le forze fondamentali della natura nascerebbero dalle vibrazioni di minuscoli fasci di energia, non può infatti essere dimostrata.

Gli “stringhisti” producono pagine e pagine di calcoli, tutti coerenti e anche plausibili, ma non c’è esperimento che possa provare ciò che dicono, perché indagare la materia al livello di dettaglio previsto dalla loro teoria richiederebbe la costruzione di acceleratori di particelle più grandi del pianeta Terra.

«Dovrebbero avere le dimensioni di una galassia» fa notare Russel Stannard, professore emerito di fisica alla Open University del Regno Unito, che ha fatto il conto. L’unica soluzione sarebbe il colpo di genio di qualche scienziato, che riuscisse a trovare un’altra strada per dimostrare la teoria delle stringhe, diversa da quelle che oggi possono essere ipotizzate. [Leggi articolo: La più piccola parte dell'universo].



Come nasce la coscienza?

Strade nuove e strumenti non ancora inventati potrebbero essere la chiave giusta anche per la soluzione di un altro enigma che fa arrovellare scienziati e filosofi fin dal tempo dell’antica Grecia: quello della coscienza. «La coscienza è una proprietà della mente, che deriva dalla complessità del cervello» spiega Piergiorgio Strata, «ma non esiste nessun modello che sia davvero in grado di descriverla o di capire come nasca».

C’è chi sostiene, infatti, che il cervello umano non sarà mai capace di comprendere fino in fondo se stesso (e quindi la coscienza) perché per farlo ci vorrebbe una mente con un livello ancora maggiore di complessità. Ma questa argomentazione fa arrabbiare molti scienziati, che invece sostengono che il mistero, prima o poi, sarà risolto. Gli esperti di intelligenza artificiale, per esempio, ritengono che simulando i processi mentali su macchine sia possibile capire anche come nasce la coscienza dell’uomo.

«Io però non credo che questa sia la strada giusta» commenta Strata. «Imitare non vuol dire riprodurre. In realtà, non abbiamo ancora scoperto il trucco. Manca qualcosa di importante nella nostra conoscenza della mente, che ci permetta di fare quel passo in più e di trovare un metodo scientifico per studiare la coscienza».

Una delle ultime frontiere in questo campo, riguarda la teoria che descrive la coscienza come una realtà inerente la quantistica. Secondo questa teoria, la coscienza umana (o anima) sarebbe una struttura fondamentale dell'universo che non dipende dal cervello, ma che esiste di per sè. Con la morte celebrale, la "coscienza quantica" si slega dal cervello per tornare alla fonte.

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Embrione, ci sei?
Strettamente legato al tema della coscienza è quello dell’inizio della vita cosciente nel corso dello sviluppo dell’embrione e del feto. La questione non è di poco conto, perché questo enigma, di fatto irrisolvibile, alimenta i dibattiti sull’aborto, sulla procreazione assistita e sulla possibilità di usare le cellule staminali embrionali, promessa della medicina di domani, il cui ottenimento comporta però la distruzione dell'embrione.

Secondo la Chiesa cattolica, una persona è tale fin dal concepimento. Molti neuroscienziati la pensano però diversamente, perché se la caratteristica fondamentale di una persona è quella di avere una coscienza, è chiaro che una sola cellula, o anche un mucchietto di cellule appena un pò più avanti nello sviluppo, non hanno la complessità necessaria a dar vita a processi mentali.

«Un embrione a uno stadio di sviluppo molto precoce presumibilmente non possiede stati mentali» dice Piergiorgio Strata «e non c’è una linea di demarcazione netta di quando questi appaiano nel corso dello sviluppo». La gradualità del processo, insomma, fa sì che, almeno dal punto di vista scientifico, sia impossibile dire esattamente quando un grumo di cellule diventa persona.



Vorrei la macchina del tempo

E il mistero dell'origine è destinato a restare tale anche per il processo che ha generato la vita, circa quattro miliardi di anni fa. Per sapere davvero che cosa è successo, infatti, ci vorrebbe una macchina del tempo che ci portasse fino ai primordi della Terra, perché le molecole protagoniste della catena di reazioni chimiche da cui è scaturita la vita non si sono fossilizzate.

In laboratorio sono state riprodotte le condizioni che, con un elevato grado di probabilità, erano presenti allora, ma come fa notare il biologo Jerry Coyne, dell’Università di Chicago (Usa), «non sapremo mai come sono andate le cose esattamente. Le possibilità sono moltissime e tutte implicano la presenza di molecole che non si fossilizzano. Questo, quindi, è un altro limite invalicabile».

venerdì 22 marzo 2013

SEI MAI STATO FREGATO? IO SI....

Un nuovo contributo da parte di Soter che, questa volta con la complicità di tal Gian Gavino, ci mette a disposizione, con la leggerezza di un sorriso seppur velato di malinconia, un' ironica ma profonda riflessione sulle fregature della vita e quelle del nostro prossimo. Le prime non possiamo far altro che accettarle e cercare di comprenderle, nel loro significato più profondo, le altre possiamo prevenirle con la  conoscenza.
Mizio  


Cliccando sul link sotto l'opera completa dei due compli..... pardon autori!

http://www.webfilehost.com/?mode=viewupload&id=5349602


Se qualcuno ritenesse di voler condividere qualche sua esperienza di fregature prese, saremo ben lieti di aggiungerle a quelle già presenti nella seconda  parte in corso di elaborazione e, visibile nel link sotto:

http://www.webfilehost.com/?mode=viewupload&id=5581458

mercoledì 20 marzo 2013

POTERE E MINESTRINA



... Le chiacchiere valgono meno di zero.
Se abbiamo la presunzione di voler far capire ai "Pazzi" che sono pazzi … Allora i pazzi siamo noi.
La disobbedienza sociale, ai nostri giorni, fortunatamente, non è più quella che permetteva ai "padroni del potere"
di etichettarci come rei, socialmente pericolosi, e talvolta perseguitarci spudoratamente.
L'arma della disobbedienza sociale consiste oggi nel non acquistare prodotti ritenuti nocivi. Aggregandoci e condividendo quelle informazioni utili allo scopo. Associazione, Organizzazione, diffusione e condivisione di notizie e strategie di non acquisto e disobbedienza sociale dunque ... MIA MADRE MI RICORDA ANCORA UN EPISODIO DELLA MIA INFANZIA, QUANDO A 3 ANNI MI PREPARAVA LA MINESTRINA:- “GRAZIE MAMMA DI AVERMI PREPARATO LA PAPPA CHE NON MI PIACE, VEDRAI ORA QUANTA NE MANGIO.........”
Ed e li che deve finire il potere …. A far compagnia alla minestrina.

Condividere è Gioia e Vita.
Soter

23/3 NOTTE DELLA CIVETTA A CASTEL DI DECIMA


X Notte Europea della Civetta nelle aree protette di RomaNatura
I rapaci notturni, e la civetta in particolare, hanno sempre esercitato una grande influenza sulla cultura e l'immaginario delle persone tanto da essere al centro di innumerevoli leggende e storie popolari. Appartenenti all'ordine degli Strigiformi, i rapaci notturni sono predatori che esercitano un importante funzione ecologica nell'ecosistema. Alcune specie come l'allocco e il barbagianni sono grandi cacciatori di roditori e contribuiscono al controllo delle popolazioni di topi.
Fra tutte le specie la civetta è la più comune anche se in Europa il numero di coppie è in diminuzione (ma per fortuna non Italia). Rapace di piccole dimensioni, non supera i due etti di peso diffusa dalla costa fino ai 900 metri sul livello del mare, frequenta zone agricole e boschive e anche le aree verdi urbane.
E' presente dentro la città di Roma nelle ville storiche e nelle aree verdi più estese, soprattutto in periferia. Diffusa anche nelle aree protette gestite dall'Ente RomaNatura al cui interno nidificano anche altre quattro specie di rapaci notturni: il barbagianni, l'assiolo, il gufo comune e l'allocco.
RomaNatura partecipa alla X Notte Europea della Civetta con due serate a cui siete tutti invitati a partecipare:
- Venerdi 22 Marzo 2013 Parco Regionale Urbano del Pineto ore 19.00 Via Vittorio Montiglio (accanto alla Parrocchia Gesù Divino Maestro)
Escursione serale per ascoltare i richiami dei rapaci notturni. Rientro previsto h. 21 Info: posta@romanatura.roma.it - tel. 06 35405326
da www.fotocommunity.it
Sabato 23 Marzo 2013 Riserva Naturale di Decima Malafede ore 18.30 alla Torre di Perna in via Valle di Perna 315
Programma ed informazioni per Sabato 23 marzo Storie, miti e leggende legate alla civetta e a seguire escursione serale per ascoltare i richiami dei rapaci notturni (rientro alla Torre previsto ore 21-21.30) Prenotazione obbligatoria scrivendo all'indirizzo e.mail
guardiaparco.decima@romanatura.roma.it o telefonando al numero 06 50829723. Si consiglia un abbigliamento adeguato.