martedì 30 luglio 2013

NEL PAESE DELLE BANANE VOLANTI

Chi ricorda Hugo Enyinnaya? Attaccante nigeriano, segnò all'esordio in serie A contro l'Inter prima del gol dell'altro esordiente Antonio Cassano, per poi finire precocemente una carriera tormentata dagli infortuni nell'Anziolavinio e nello Zagarolo. Hugo ha anche un passaggio da professionista in Polonia dove, ha raccontato poi alla stampa italiana, al giocatore nero in campo toccava l'immancabile, spregioso rito del lancio di banane. Gli infortuni  e il razzismo, oltre ad un paio di gol alle nostre latitudini, sono stati i leit motiv della carriera di Enyinnaya prima del definitivo rimpatrio in Nigeria da ex calciatore. Per Enyinnaya gli stadi sono stati il set dello spettacolo delle banane volanti, una sorta di rito di demarcazione della asserita inferiorità razziale della persona. Dove il simbolico del disprezzo del cibo altrui serve a costruire lo spettacolo dell'inferiorità.

Kyenge_FN1

La banana, cibo comunemente consumato da uomo e scimmia, serve classicamente al compimento del rito, rafforzando la codificazione dell'inferiorità del soggetto preso di mira con il lancio. Gesto che definisce il soggetto preso di mira o come incapace di ricevere il cibo o come rinchiuso in un recinto. Per Cécile Kyenge, ministro della repubblica, è invece l'Italia ad essersi configurata come il paese delle banane volanti.
Non prima di essere stata pubblicamente classificata, grazie ad approssimative categorie tratte dal mondo degli omidi, come un orango dal vice-presidente, ad oggi ancora in carica, del ramo senatoriale del parlamento.

L'Italia di Facebook, nell'attimo compulsivo ed inquieto che passa tra la mente e il click, nel frattempo l'aveva già definita qualcuno che dovrebbe provare uno stupro giurando sulla sua insensibilità, come donna di origine africana, su cosa possono provare le donne bianche di fronte alle aggressioni. C'è solo da commentare che se una donna, o un uomo, dai tratti caucasici dovessero provare direttamente il dolore di una donna africana per capirlo non basterebbero loro 500 anni tra Treblinka e il tuffo in un altoforno acceso. Ma, detto questo, il ruolo simbolico e politico di Cecile Kyenge all'interno del governo Letta è qualcosa di molto diverso dall'idea di ministro che fa il proprio dovere mentre è contestato da una minoranza di razzisti e di fascisti. La Kyenge infatti sta all'interno di un dispositivo piuttosto efficace di legittimazione del potere. Efficace e, visto il disastro del governo Letta-Berlusconi-Napolitano, tanto più importante nel momento in cui il consenso è un bene scarso.

Vediamo qualche elemento di lettura: in ogni dinamica di capro espiatorio il potere si legittima nel momento in cui mette all'indice qualcuno veramente abietto ed inviso alla stragrande maggioranza della popolazione. La fama è consolidata quando si censura qualcuno di realmente impopolare non i casi controversi. La disperata che su Facebook scrive "spero che qualcuno stupri la ministro" o il consueto Calderoli si prestano magicamente a questo ruolo: vengono condannati e simbolicamente sacrificati, vengono cioè ragionevolmente esclusi dall'ambito simbolico dei cittadini dotati di dignità, proprio perchè realmente squallidi, abietti e persino pericolosi. Come sempre, non c'è bisogno di aver letto Girard, chi opera questo rito di espulsione simbolica dell'abietto, dal cerchio di chi gode di dignità sociale, ne guadagna in reputazione.
E così ecco che lo stesso liquame mediale responsabile della regressione, cognitiva e politica, della società italiana si trasforma in  soggetto di produzione simbolica di giustizia. Media pettegoli, banali, disinformati, depistanti che improvvisamente ritrovano un ruolo sociale nella purificazione simbolica di chi è (realmente) abietto dall'ordine sociale.

E che dire di Cécile Kyenge? Il suo martirio, fatto di insulti di ogni genere, simbolicamente senza fine, almeno fino al termine del mandato, è rappresentato entro un modello comunicativo sperimentato. Quello derivato, a sua volta, dal modello cristiano-antico del martirio che fa di colui o colei che lo subisce, o che lo cerca volontariamente, il “testimone” della fede. In questo caso la "fede" testimoniata e' quella della maggioranza di governo e, in subordine, del parlamento. Avviene quindi che chiunque testimoni solidarietà con chi è costretto a intraprendere il sentiero del martirio trovi, a sua volta, simbolica rigenerazione. Non manca nessuno in questo processo: l'ex ministro Carfagna, Claudio Cicchitto, l'ex difensore della costituzione Franceschini, qualche parlamentare PD che ha sospeso i lavori del parlamento al momento della protesta contro la calendarizzazione della sentenza su Berlusconi.

Dal punto di vista antropologico gli insulti alla ministro Kyenge finiscono per produrre un processo di legittimazione del potere, l'odiata "casta", proprio perchè scatenano la solidarietà generalizzata di fronte a gesti tanto aberranti. Questo avviene perchè la politica non è l'etica: non distribuisce tanto torti e ragioni ma consolida poteri e rafforza gerarchie nell'ambito di riti consolidati. Questa funzione, di rilegittimazione simbolica grazie ad un complesso dispositivo comunicativo e mediale, del ministro Kyenge sembra poi l'unica a sua disposizione. Il suo ministero, ammesso e non concesso che l'"integrazione" non sia ancora un occhio coloniale sulle sulle migrazioni, non ha fondi, indirizzo politico, non fa intravedere un'idea di futuro del rapporto tra Italia e nazionalità migrate in questo paese. Anzi la Kyenge, sponsorizzata da Livia Turco (della destra hardline del Pd, cofirmataria della famigerata Turco-Napolitano, prima legge che deteneva e deportava i migranti che non avevano commesso reati), al massimo si è mostrata disponibile a limare la legislazione detentiva per i migranti (quelli che non hanno commesso alcun reato, ndr) nel CIE. Senza politica che possa incidere nelle migrazioni in Italia, senza fondi, in liberistica austerità ed in ossequio ai propri sponsor politici, cosa resta alla Kyenge? Quest'unica funzione di rappresentazione simbolica del martirio di fronte alla barbarie culturale di una parte di questo paese.

In un dibattito a BBC World, dopo la nascita del Royal Baby, si è discusso di quale fosse la funzione di una simile rappresentazione simbolica della nascita. In mezzo ad un redattore di Vanity Fair è anche emerso che, dopo la crisi della funzione simbolica del servizio sanitario nazionale (lo NHS), in Gran Bretagna non resta, come elemento di unificazione identitaria, che la rielaborazione di questi riti già esportati, nel loro contenuto spettacolare, ai tempi della prima globalizzazione in epoca vittoriana. E in'Italia cosa resta dal punto di vista identitario e non, dopo la disintegrazione reale di ogni diritto concreto? Niente altro che lo spettacolo della solidarietà simbolica, spettacolo sempre più simile ad un gioco di società, dopo un'offesa reale.


La Kyenge non è quindi la Rosa Parks italiana, la donna che rifiutò di cedere il posto in autobus ai bianchi, e non solo perchè ha la scorta e l'autista. E piuttosto una Condoleeza Rice dall'aspetto mite: non si dimetterà nè contro Berlusconi o gli F-35 nè ha detto una parola sui metodi duri della polizia in Valsusa. E' un ministro dell'integrazione a difesa del quale il Viminale non promette politiche sociali ma "tolleranza zero" Kyenge è quindi una parodia di ministro, senza strumenti concreti ed autonomia reale, quanto i suoi contestatori sono una parodia di esseri umani. Nel paese delle banane volanti tutto questo scorre come una frase di Lewis Carroll: semplice, veloce, fluida e complicatamente paradossale.
di Terry McDermott



sabato 27 luglio 2013

NO ALL'AUTOSTRADA ROMA-LATINA

Autostrada Roma-Latina: il progetto


ROMA - Autostrada Roma-Latina. L'ultimo atto, dal finale ancora aperto, di questa saga lunga vent'anni sta andando in scena proprio in questi giorni. In questi giorni infatti nel XII municipio si sta discutendo con consigli e riunioni sulla bretella Tor De Cenci-A12 che dovrà unire l'autostrada Azzurra, quella che da Civitavecchia arriva a Roma e che da lì poi, passando per la periferia sud-est romana, si ricollegherà alla nuova autostrada.

Uno scorcio della Riserva naturale Decima-Malafede che verrebbe devastata se il progetto venisse realizzato

Un'opera "minore" se paragonata alla totalità del progetto del corridoio, lungo complessivamente ben 99,8 chilometri, che collegherà la Capitale con Latina seguendo per circa il 60% il tracciato dell'attuale strada statale Pontina. Eppure vitale dal momento che senza la sua progettazione nessun cantiere potrà partire. Il Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) infatti, stanziando i primi finanziamenti, ha subordinato l'avvio dei lavori alla progettazione di questa bretella.

La volontà di realizzare l'opera ha sollevato le proteste non solo dei cittadini riuniti in comitato che chiedono di privilegiare il trasporto su ferro rispetto a quello su gomma, ma anche del mondo politico che da destra a sinistra sta lanciando messaggi contrari alla sua realizzazione. Anche il vicesindaco di Roma, Sveva Belviso, che proviene proprio da quel quadrante cittadino, si è fatta paladina della battaglia contro la bretella e ha mandato per posta a tutti i cittadini una lettera con una petizione da firmare per opporvisi (http://eur.romatoday.it/belviso-lancia-petizione-contro-bretella-tor-de-cenci-.html). Eppure dell'eventualità di realizzare un'autostrada che unisca il sud del Lazio con Roma se ne parla da più di vent'anni. E la Grande Opera, nata sotto l'ala socialista, è stata sostenuta in maniera bipartisan da tutte le giunte regionali che si sono succedute nel tempo.


LA STORIA - La storia del corridoio Roma-Latina inizia più di vent'anni fa. Allora a guidare la Regione Lazio c'era l'attuale presidente di Federambiente, il socialista Bruno Landi, che iniziò a pensare a un collegamento tra Fiumicino e Valmontone, ovvero tra il litorale e l'A1. Ma è con Francesco Storace (giunta centrodestra), che ha governato la regione dal 2000 al 2005, che la grande opera assume un valore centrale per ogni futura amministrazione regionale. Tra progetti, ricorsi e contenziosi, sulla Roma-Latina ci si è giocato molto dal punto di vista politico.

A metà mandato, Storace, con il benestare dell'allora ministro alle Infrastrutture, Pietro Lunardi, propone la realizzazione di un corridoio per collegare Fiumicino con Formia. Le opposizioni cittadine si fanno sentire fin da subito con cortei e proteste. Nel 2005 il cambio di giunta. Il centro sinistra vince le elezioni e Piero Marrazzo diventa presidente della regione. Come i suoi predecessori decide di continuare a portare avanti il progetto per la realizzazione dell'autostrada così nel 2006, in accordo con l'allora ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro, viene stilato il progetto che, al netto di alcune variazioni, costituisce ancora oggi il tracciato del Corridoio Roma-Latina. L'impianto generale della grande opera infatti sopravvive anche all'ultimo cambio di giunta che riporta la regione Lazio nelle mani di un centrodestra guidato dalla presidente Polverini. "Ci auguriamo che i cantieri partano entro il 2013" ha dichiarato la governatrice. "È un'opera strategica per il nostro territorio e per il Paese". E stavolta, dopo la pubblicazione lo scorso dicembre in gazzetta ufficiale e il via ai finanziamenti da parte del Cipe, se il progetto definitivo della bretella Tor De Cenci-A12 vedrà la luce, l'autostrada Roma-Latina potrebbe diventare realtà.

I COSTI - Come spesso accade in tema di grandi opere, con l'allungamento dei tempi, aumentano a dismisura anche i costi. 2,8 i miliardi di euro previsti per la "nuova Pontina" e le due bretelle autostradali, la Tor De Cenci-A12 e la Cisterna-Valmontone. Una cifra consistente se paragonata a quella iniziale definita durante la giunta Storace che ammontava a "appena" 850 milioni di euro (al netto delle due bretelle), poi lievitata a oltre 1,4 miliardi durante l'amministrazione Marazzo. 800 milioni il costo della bretella Cisterna-Valmontone mentre ben 500 quelli del collegamento Tor De Cenci-A12. Una grande opera nella grande opera, considerando che i 16 km chilometri di bretella dovranno non solo scavalcare il fiume Tevere con una campata unica di oltre 1,5 km per non far ricadere i piloni del futuro ponte nell'area golenale del fiume, ma attraverseranno la riserva naturale di Decima-Malafede e quella del Litorale romano. In quanto ai costi, pessimista il Comitato No Corridoio Roma Latina per la metropolitana leggera che ne prevede un raddoppio: "Rimanendo da definire con precisione ancora 83 chilometri possiamo dire che i costi si aggirano attorno ai 5 miliardi".



LE PROTESTE - Che la statale Pontina sia una strada da mettere in sicurezza, lo dicono le cifre. Come riporta il libro Capitale Immobile pubblicato dal Centro di documentazione sui conflitti ambientali all'inizio del 2012 "le ultime stime contano oltre 560 incidenti mortali negli ultimi vent'anni, rendendo la tratta una delle più rischiose d'Italia. Preceduta solo dalla Romea, percorrendo la Pontina si rischia di essere coinvolti in un incidente con una probabilità di almeno sei volte maggiore rispetto alle altre strade nazionali (dello stesso tipo, ndr) con una media di 3,09 incidenti ogni chilometro a dispetto di quella nazionale che è di 0,7". I comitati si oppongono all'idea che altro cemento possa portare a una soluzione del problema. "Questo progetto è devastante dal punto di vista ambientale, dal momento che distruggerebbe molti ettari di campi coltivati che si trovano lungo il percorso, ma soprattutto inutile per i pendolari che ogni giorno dal Pontino si mettono in coda per raggiungere Roma, che dovrebbero stare comunque nel traffico, soprattutto in entrata a Roma dove si verrebbe a creare un vero e proprio tappo, e ritrovarsi a pagare anche il pedaggio". La proposta del comitato è scritta nel suo nome: No Corridoio Roma Latina per la metropolitana leggera. "Con molti meno soldi si potrebbe realizzare un'infrastruttura come la metro leggera che diminuirebbe il traffico dei pendolari e sarebbe più sostenibile dal punto di vista economico". Senza dimenticare la necessità di "mettere in sicurezza la Pontina, una strada davvero pericolosa per l'incolumità di chi la percorre tutti i giorni". (da RomaToday)“


Al link qui sotto è possibile scaricare le planimetrie del progetto in Pdf
http://www.autostradedellazio.it/on-line/Home/Documenti/DocumentazioneTecnica/docCatCorridoioIntermodaleRoma-Latina.28.17.8.2.3.html

giovedì 25 luglio 2013

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA E' GARANTE DELLA COSTITUZIONE?


In vista del dies irae del 30 luglio pv, il Presidente della Repubblica si è affrettato a “chiudere la finestra di ottobre”, per eventuali elezioni, e, stando ai resoconti giornalistici, ha aggiunto che le intese di aprile –quando accettò di essere rieletto- erano per un esecutivo che durasse sino al 2015. Implicitamente, il Presidente ci ha fatto sapere di un patto i cui termini sono ben diversi da quelli fatti trapelare nell’immediatezza dell’accordo: allora si parlò di un esecutivo di durata breve, con il compito di cambiare la legge elettorale, fronteggiare l’immediatezza della crisi e poi andare a votare. Poi, man mano, la riforma elettorale è andata scivolando in avanti e si è iniziato a dire che il governo “non ha scadenza” e che si sarebbero dovute fare anche altre riforme istituzionali mettendo mano alla Costituzione; donde la nomina del comitato dei “saggi” di cui abbiamo già detto. E qui spunta che una scadenza c’era, il 2015, dunque non tanto a breve.

Si tratta dei due anni che, prevedibilmente, una revisione costituzionale comporta, considerato che essa richiede, oltre al tempo necessario a trovare una intesa, l’approvazione delle due Camere in doppia lettura, con intervallo di tre mesi fra l’una e l’altra. Ma questo se non ci sono incidenti di percorso, magari l’approvazione di un piccolissimo emendamento che richiederebbe di nuovo la doppia lettura con il trimestre di intervallo. E poi bisogna considerare anche la possibilità di un ostruzionismo da parte del M5s e, magari, di Sel che, con i loro 200 parlamentari e passa, potrebbero bloccare i lavori per mesi e mesi, anche perché nel processo di revisione costituzionale non è possibile stroncare l’ostruzionismo ponendo il voto di fiducia al governo. Niente paura: il governo avanza un disegno di legge di deroga alle procedure previste dall’art. 138 riducendo ad un mese l’intervallo fra le due deliberazioni.

E che nel processo di revisione della Costituzione abbia voce in capitolo l’esecutivo è una novità assoluta. Questa procedura eccezionale consisterebbe in una sorta di deroga una tantum, per sveltire i lavori finalizzati ad una limitatissima riforma costituzionale, come l’abolizione del voto di fiducia da parte del Senato, così da evitare un blocco come quello seguito alle elezioni di febbraio. Ma, come fa notare il costituzionalista Alessandro Pace (Repubblica 8 giugno 2013), la proposta governativa dovrebbe essere approvata con procedura ordinaria, per cui faremmo passare il principio per cui una legge ordinaria può derogare alla Costituzione e questo potrebbe essere ripetuto per qualsiasi altra revisione. Di fatto stiamo aprendo la porta alla disarticolazione dell’art. 138 e, con esso, della stessa attuale Costituzione.

D’altra parte, se tutto quello che c’è da fare è emendare il nostro bicameralismo, basta riscrivere l’art 94 ed al massimo le prime due righe dell’art. 81. E per fare questo nominiamo una commissione di quaranta “saggi”? Il dubbio che sorge è che questa specie di Sinedrio debba preparare una revisione organica della Costituzione e che la “deroga” attuale sia solo la legittimazione di ben più sostanziose prossime deroghe. Anzi, ad essere proprio maliziosi, sorge il sospetto è che il testo della nuova Costituzione sia già pronto e giaccia in qualche cassetto (della Jp Morgan per caso?). Ma noi non siamo così prevenuti e non lo diciamo.

Però non possiamo tacere che, di fatto, siamo alle soglie di una vera e propria rottura costituzionale: l’art. 138 fa parte della Costituzione e non può essere modificato con procedura ordinaria, anzi, per la delicatezza della sua funzione, è l’ultimo per il quale si possa pensare una procedura tanto disinvolta.

E qui veniamo al ruolo del Capo dello Stato. Tutto fa intendere che la partita della revisione costituzionale –ben oltre che la questione dell’art. 94- abbia fatto parte delle trattative che portarono alla rielezione di Napolitano che oggi, infatti, blinda il governo per evitare quelle elezioni che sospenderebbero questo processo così avviato. Dunque, Letta deve durare perché il Presidente vuole che la Costituzione cambi, in tutto o in parte. Ma dove sta scritto che il Presidente della Repubblica possa farsi promotore del cambiamento costituzionale? Qualche studio di diritto costituzionale ci fa pensare che lo Presidente abbia, piuttosto, il compito di garantire la Costituzione vigente. A cambiarla –e secondo le regole previste da essa stessa- devono pensare altri. E, pertanto ci si attende che il Presidente rifiuti di firmare il Ddl governativo, per la palese violazione dell’art. 138 e, con esso, la lettera e lo spirito della Costituzione e che, ne investa la Corte Costituzionale. O magari che indirizzi un messaggio alle Camere per avvertire del carattere anticostituzionale della norma che stanno per varare. Ma questo non accade e non accadrà, per la semplice ragione che Napolitano è interno al progetto.

Occorrerà riflettere molto attentamente su cosa ha rappresentato la Presidenza Napolitano negli equilibri costituzionali, qui ci limitiamo ad osservare che il Presidente ha spostato l’accento della sua azione più sulla garanzia dei patti internazionali dell’Italia (dai patti Ue ad gli accordi di Marrhakesh, per non dire dei patti impliciti rappresentati dai titoli di debito pubblico) che su quella della Costituzione. Di fatto, negli ultimo quattro anni, Napolitano, più che rappresentare la Nazione all’estero (come prescrive la Costituzione), ha piuttosto rappresentato la Ue e la Bce presso il governo ed il Parlamento. Una sorta di “commissario agli atti”. Ed, in questa inedita metamorfosi della figura del Capo dello Stato, si sono determinate una serie di alterazioni nei rapporti fra istituzioni della Repubblica. Per molto meno, l’allora Pds stava per chiedere la messa in stato d’accusa di Cossiga per attentato alla Costituzione. E’ arrivato il momento di dire che siamo ad un passo dalla rottura costituzionale e dal colpo di Stato “bianco”. di Aldo Giannulli




mercoledì 24 luglio 2013

3,1 TRILIONI D' INTERESSI IN 3 DECENNI



Abbiamo ricostruito i dati di PIL, Debito Pubblico, Deficit Pubblico, Saldo Primario (differenza tra  entrate ed uscite della Pubblica Amministrazione al netto degli interessi) e Spesa per interessi dal 1980 al 2012.




Guardando i dati si nota:
IL DEBITO PUBBLICO HA AVUTO UNA FORTE CRESCITA SPECIE DOPO IL 1981, DATA DEL "DIVORZIO" TRA BANCA D'ITALIA E TESORO, E PASSA DAL 60% AL 120% NEL 1993.




LA SPESA PER INTERESSI ESPLODE SUBITO DOPO IL "DIVORZIO" TESORO-BANKITALIA E PASSA DAL 4% ALL'8% DEL PIL IN MENO DI 4 ANNI (1981-84)



IL DEFICIT ESPLODE NEGLI ANNI 80 IN CONSEGUENZA DI DUE PRECISI FATTORI:  1) INCREMENTO INCONTROLLATO SPESA PER INTERESSI (vedi sopra)
2) INCREMENTO SPESA PUBBLICA CORRENTE TRA ANNI 70 E ANNI 80.
Dal 1993 al 2012 il saldo cumulato positivo del saldo primario è di ben il 47% del PIL.




Attualizzando i dati a valuta corrente (equivalente ad Euro del 2012) si ha:




L'ITALIA HA PAGATO TRA IL 1980 ED IL 2012 LA BELLEZZA DI 3.101 MILIARDI DI EURO EQUIVALENTI (al 2012) DI INTERESSI, PARI AL 198% DEL PIL, UNA CIFRA DI PROPORZIONI ENORMI.




Abbiamo fatto una SIMULAZIONE: tenendo fermi i saldi primari ed i valori di PIL dal 1993 in poi, abbiamo visto l'evoluzione del Debito Pubblico dal 1993 ad oggi. Se nel 1993 il Debito Pubblico fosse stato del 60%, oggi sarebbe al 26% 
.



In estrema sintesi, negli ultimi 20 anni IL DEBITO E' PASSATO DA CIRCA 1.500 A 2.000 MILIARDI DI EURO (valori 2012) RESTANDO AL DI SOPRA DEL 120% DEL PIL nonostante il fatto che:
ABBIAMO PAGATO QUASI 2.000 MILIARDI DI INTERESSI (valori attualizzati al 2012);
ABBIAMO REALIZZATO SALDI  PRIMARI ATTIVI PER 740 MILIARDI  (valori attualizzati al 2012), CIFRA CHE NON HA EGUALI IN EUROPA.

In sintesi l'Italia ha comunque fatto enormi sacrifici, con risultati sul fronte del risanamento nulli, e straordinariamente negativi sul fronte della crescita.

martedì 23 luglio 2013

ITALIA, POTENZA SCOMODA. DOVEVA MORIRE!





Il primo colpo storico contro l’Italia lo mette a segno Carlo Azeglio Ciampi, futuro presidente della Repubblica, incalzato dall’allora ministro Beniamino Andreatta, maestro di Enrico Letta e “nonno” della Grande Privatizzazione che ha smantellato l’industria statale italiana, temutissima da Germania e Francia. E’ il 1981: Andreatta propone di sganciare la Banca d’Italia dal Tesoro, e Ciampi esegue. Obiettivo: impedire alla banca centrale di continuare a finanziare lo Stato, come fanno le altre banche centrali sovrane del mondo, a cominciare da quella inglese. Il secondo colpo, quello del ko, arriva otto anni dopo, quando crolla il Muro di Berlino. La Germania si gioca la riunificazione, a spese della sopravvivenza dell’Italia come potenza industriale: ricattati dai francesi, per riconquistare l’Est i tedeschi accettano di rinunciare al marco e aderire all’euro, a patto che il nuovo assetto europeo elimini dalla scena il loro concorrente più pericoloso: noi. A Roma non mancano complici: pur di togliere il potere sovrano dalle mani della “casta” corrotta della Prima Repubblica, c’è chi è pronto a sacrificare l’Italia all’ Europa “tedesca”, naturalmente all’ insaputa degli italiani.

E’ la drammatica ricostruzione che Nino Galloni, già docente universitario, manager pubblico e alto dirigente di Stato, fornisce a Claudio Messora per il Nino Galloniblog “Byoblu”. All’epoca, nel fatidico 1989, Galloni era consulente del governo su invito dell’eterno Giulio Andreotti, il primo statista europeo che ebbe la prontezza di affermare di temere la riunificazione tedesca. Non era “provincialismo storico”: Andreotti era al corrente del piano contro l’Italia e tentò di opporvisi, fin che potè. Poi a Roma arrivò una telefonata del cancelliere Helmut Kohl, che si lamentò col ministro Guido Carli: qualcuno “remava contro” il piano franco-tedesco. Galloni si era appena scontrato con Mario Monti alla Bocconi e il suo gruppo aveva ricevuto pressioni da Bankitalia, dalla Fondazione Agnelli e da Confindustria. La telefonata di Kohl fu decisiva per indurre il governo a metterlo fuori gioco. «Ottenni dal ministro la verità», racconta l’ex super-consulente, ridottosi a comunicare con l’aiuto di pezzi di carta perché il ministro «temeva ci fossero dei microfoni». Sul “pizzino”, scrisse la domanda decisiva: “Ci sono state pressioni anche dalla Germania sul ministro Carli perché io smetta di fare quello che stiamo facendo?”. Andreotti Eccome: «Lui mi fece di sì con la testa».

Questa, riassume Galloni, è l’origine della “inspiegabile” tragedia nazionale nella quale stiamo sprofondando. I super-poteri egemonici, prima atlantici e poi europei, hanno sempre temuto l’Italia. Lo dimostrano due episodi chiave. Il primo è l’omicidio di Enrico Mattei, stratega del boom industriale italiano grazie alla leva energetica propiziata dalla sua politica filo-araba, in competizione con le “Sette Sorelle”. E il secondo è l’eliminazione di Aldo Moro, l’uomo del compromesso storico col Pci di Berlinguer assassinato dalle “seconde Br”: non più l’organizzazione eversiva fondata da Renato Curcio ma le Br di Mario Moretti, «fortemente collegate con i servizi, con deviazioni dei servizi, con i servizi americani e israeliani». Il leader della Dc era nel mirino di killer molto più potenti dei neo-brigatisti: «Kissinger gliel’ aveva giurata, aveva minacciato Moro di morte poco tempo prima». Tragico preambolo, la strana uccisione di Pier Paolo Pasolini, che nel romanzo “Petrolio” aveva denunciato i mandanti dell’omicidio Mattei, a lungo presentato come incidente aereo. Recenti inchieste collegano alla morte del fondatore dell’Eni quella del giornalista siciliano Mauro De Mauro. Probabilmente, De Mauro aveva scoperto una pista “francese”: agenti dell’ex Oas inquadrati dalla Cia nell’organizzazione terroristica “Stay Behind” (in Italia, “Gladio”) avrebbero sabotato l’aereo di Mattei con l’aiuto di manovalanza mafiosa. Poi, su tutto, a congelare la democrazia italiana Ciampiavrebbe provveduto la strategia della tensione, quella delle stragi nelle piazze.

Alla fine degli anni ‘80, la vera partita dietro le quinte è la liquidazione definitiva dell’Italia come competitor strategico: Ciampi, Andreatta e De Mita, secondo Galloni, lavorano per cedere la sovranità nazionale pur di sottrarre potere alla classe politica più corrotta d’Europa. Col divorzio tra Bankitalia e Tesoro, per la prima volta il paese è in crisi finanziaria: prima, infatti, era la Banca d’Italia a fare da “prestatrice di ultima istanza” comprando titoli di Stato e, di fatto, emettendo moneta destinata all’investimento pubblico. Chiuso il rubinetto della lira, la situazione precipita: con l’impennarsi degli interessi (da pagare a quel punto ai nuovi “investitori” privati) il debito pubblico esploderà fino a superare il Pil. Non è un “problema”, ma esattamente l’obiettivo voluto: mettere in crisi lo Stato, disabilitando la sua funzione strategica di spesa pubblica a costo zero per i cittadini, a favore dell’industria e dell’occupazione. Degli investimenti pubblici da colpire, «la componente più importante era sicuramente quella riguardante le partecipazioni statali, l’energia e i trasporti, dove l’Italia stava primeggiando a livello mondiale».

Al piano anti-italiano partecipa anche la grande industria privata, a partire dalla Fiat, che di colpo smette di investire nella produzione e preferisce comprare titoli di Stato: da quando la Banca d’Italia non li acquista più, i tassi sono saliti e la finanza pubblica si trasforma in un ghiottissimo business privato. L’industria passa in secondo piano e – da lì in poi – dovrà costare il meno possibile. «In quegli anni la Confindustria era solo presa dall’idea di introdurre forme di flessibilizzazione sempre più forti, che poi avrebbero prodotto la precarizzazione». Aumentare i profitti: «Una visione poco profonda di quello che è lo sviluppo industriale». Risultato: «Perdita di valore delle imprese, perché le imprese acquistano valore se hanno prospettive di profitto». Dati che parlano da soli. E spiegano tutto: «Negli anni ’80 – racconta Galloni – feci una ricerca che dimostrava che i 50 gruppi più importanti pubblici e i 50 gruppi più importanti privati facevano la stessa politica, cioè investivano la metà dei loro profitti non in attività produttive ma nell’acquisto di titoli di Stato, per la semplice ragione che i titoli di Stato italiani rendevano tantissimo e quindi si guadagnava di più Agnellifacendo investimenti finanziari invece che facendo investimenti produttivi. Questo è stato l’inizio della nostra deindustrializzazione».

Alla caduta del Muro, il potenziale italiano è già duramente compromesso dal sabotaggio della finanza pubblica, ma non tutto è perduto: il nostro paese – “promosso” nel club del G7 – era ancora in una posizione di dominio nel panorama manifatturiero internazionale. Eravamo ancora «qualcosa di grosso dal punto di vista industriale e manifatturiero», ricorda Galloni: «Bastavano alcuni interventi, bisognava riprendere degli investimenti pubblici». E invece, si corre nella direzione opposta: con le grandi privatizzazioni strategiche, negli anni ’90 «quasi scompare la nostra industria a partecipazione statale», il “motore” di sviluppo tanto temuto da tedeschi e francesi. Deindustrializzazione: «Significa che non si fanno più politiche industriali». Galloni cita Pierluigi Bersani: quando era ministro dell’industria «teorizzò che le strategie industriali non servivano». Si avvicinava la fine dell’Iri, gestita da Prodi in collaborazione col solito Andreatta e Giuliano Amato. Lo smembramento di un colosso mondiale: Finsider-Ilva, Finmeccanica, Fincantieri, Italstat, Stet e Telecom, Alfa Romeo, Alitalia, Sme (alimentare), nonché la BancaCommerciale Italiana, il Banco di Roma, il Credito Italiano.

Le banche, altro passaggio decisivo: con la fine del “Glass-Steagall Act” nasce la “banca universale”, cioè si consente alle banche di occuparsi di meno del credito all’economia reale, e le si autorizza a concentrarsi sulle attività finanziarie peculative. Denaro ricavato da denaro, con scommesse a rischio sulla perdita. E’ il preludio al disastro planetario di oggi. In confronto, dice Galloni, i debiti pubblici sono bruscolini: nel caso delle perdite delle banche stiamo parlando di tre-quattromila trilioni. Un trilione sono mille miliardi: «Grandezze stratosferiche», pari a 6 volte il Pil mondiale. «Sono cose spaventose». La frana è cominciata nel 2001, con il crollo della new-economy digitale e la fuga della finanza che l’aveva sostenuta, puntando sul boom dell’e-commerce. Per sostenere gli investitori, le banche allora si tuffano nel mercato-truffa dei derivati: raccolgono denaro per garantire i rendimenti, ma senza copertura per gli ultimi sottoscrittori della “catena di Sant’Antonio”, tenuti buoni con la storiella della “fiducia” nell’imminente “ripresa”, sempre data per certa, ogni tre mesi, da «centri studi, economisti, osservatori, studiosi e ricercatori, tutti sui loro libri paga».

Quindi, aggiunge Galloni, siamo andati avanti per anni con queste operazioni di derivazione e con l’emissione di altri titoli tossici. Finché nel 2007 si è scoperto che il sistema bancario era saltato: nessuna banca prestava liquidità all’altra, sapendo che l’altra faceva le stesse cose, cioè speculazioni in perdita. Per la prima volta, spiega Galloni, la massa dei valori persi dalle banche sui mercati finanziari superava la somma che l’economia reale – famiglie e imprese, più la stessa mafia – riusciva ad immettere nel sistema bancario. «Di qui la crisi di liquidità, che deriva da questo: le perdite superavano i depositi e i conti correnti». Come sappiamo, la falla è stata provvisoriamente tamponata dalla Fed, che dal 2008 al 2011 ha trasferito nelle banche – americane ed europee». qualcosa come 17.000 miliardi didollari, cioè «più del Pil americano e più di tutto il debito pubblico americano».

Va nella stessa direzione – liquidità per le sole banche, non per gli Stati – il “quantitative easing” della Bce di Draghi, che ovviamente non risolve la crisi economica perché «chi è ai vertici delle banche, e lo abbiamo visto anche al Monte dei Paschi, guadagna sulle perdite». Il profitto non deriva dalle performance economiche, come sarebbe logico, ma dal numero delle operazioni finanziarie speculative: «Questa gente si porta a casa i 50, i 60 milioni di dollari e di euro, scompare nei paradisi fiscali e poi le banche possono andare a ramengo». Non falliscono solo perché poi le banche centrali, controllate dalle stesse banche-canaglia, le riforniscono di nuova liquidità. A monte: a soffrire è l’intero sistema-Italia, da quando – nel lontano 1981 – la finanzia pubblica è stata “disabilitata” col divorzio tra Tesoro e Bankitalia. Un percorso suicida, completato in modo disastroso dalla tragedia finale dell’ingresso nell’Eurozona, che toglie allo Stato la moneta ma anche il potere sovrano della spesa pubblica, attraverso dispositivi come il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio.

Per l’Europa “lacrime e sangue”, il risanamento dei conti pubblici viene prima dello sviluppo. «Questa strada si sa che è impossibile, perché tu non puoi fare il pareggio di bilancio o perseguire obiettivi ancora più ambiziosi se non c’è la ripresa». E in piena recessione, ridurre la spesa pubblica significa solo arrivare alla depressione irreversibile. Vie d’uscita? Archiviare subito gli specialisti del disastro – da Angela Merkel a Mario Monti – ribaltando la politica europea: bisogna tornare alla sovranità monetaria, dice Galloni, e cancellare il debito pubblico come problema. Basta puntare sulla ricchezza nazionale, che vale 10 volte il Pil. Non è vero che non riusciremmo a ripagarlo, il debito. Il problema è che il debito, semplicemente, non va ripagato: «L’importante è ridurre i tassi di interesse», che devono essere «più bassi dei tassi di crescita». A quel punto, il debito non è più un problema: «Questo è il modo sano di affron tare il tema del debito pubblico». A meno che, ovviamente, non si proceda come in Grecia dove «per 300 miseri miliardi di euro» se ne sono persi 3.000 nelle Borse europee, gettando sul lastrico il popolo greco.

Domanda: «Questa gente si rende conto che agisce non solo contro la Grecia ma anche contro gli altri popoli e paesi europei? Chi comanda effettivamente in questa Europa se ne rende conto?». Oppure, conclude Galloni, vogliono davvero «raggiungere una sorta di asservimento dei popoli, di perdita ulteriore di sovranità degli Stati» per obiettivi inconfessabili, come avvenuto in Italia: privatizzazioni a prezzi stracciati, depredazione del patrimonio nazionale, conquista di guadagni senza lavoro. Un piano criminale: il grande complotto dell’élite mondiale. «Bilderberg, Britannia, il Gruppo dei 30, dei 10, gli “Illuminati di Baviera”: sono tutte cose vere», ammette l’ex consulente di Andreotti. «Gente che si riunisce, come certi club massonici, e decide delle cose». Ma il problema vero è che «non trovano resistenza da parte degli Stati». L’obiettivo è sempre lo stesso: «Togliere di mezzo gli Stati nazionali allo scopo di poter aumentare il potere di tutto ciò che è sovranazionale, multinazionale e internazionale». Gli Stati sono stati indeboliti e poi addirittura infiltrati, con la penetrazione nei governi da parte dei super-lobbysti, dal Bilderberg agli “Illuminati”. «Negli Usa c’era la “Confraternita dei Teschi”, di cui facevano parte i Bush, padre e figlio, che sono diventati presidenti degli Stati Uniti: è chiaro che, dopo, questa gente risponde a questi gruppi che li hanno agevolati nella loro ascesa».

Non abbiamo amici. L’America avrebbe inutilmente cercato nell’Italia una sponda forte dopo la caduta del Muro, prima di dare via libera (con Clinton) allo strapotere di Wall Street. Dall’omicidio di Kennedy, secondo Galloni, gli Usa «sono sempre più risultati preda dei britannici», che hanno interesse «ad aumentare i conflitti, il disordine», mentre la componente “ambientalista”, più vicina alla Corona, punta «a una riduzione drastica della popolazione del pianeta» e quindi ostacola lo sviluppo, di cui l’Italia è stata una straordinaria protagonista. L’odiata Germania? Non diventerà mai leader, aggiunge Galloni, se non accetterà di importare più di quanto esporta. Unico futuro possibile: la Cina, ora che Pechino ha ribaltato il suo orizzonte, preferendo il mercato interno a quello dell’export. L’Italia potrebbe cedere ai cinesi interi settori della propria manifattura, puntando ad affermare il made in Italy d’eccellenza in quel mercato, 60 volte più grande. Armi strategiche potenziali: il settore della green economy e quello Xi Jinping, nuovo leader cinese della trasformazione dei rifiuti, grazie a brevetti di peso mondiale come quelli detenuti da Ansaldo e Italgas.

Prima, però, bisogna mandare casa i sicari dell’Italia – da Monti alla Merkel – e rivoluzionare l’Europa, tornando alla necessaria sovranità monetaria. Senza dimenticare che le controriforme suicide di stampo neoliberista che hanno azzoppato il paese sono state subite in silenzio anche dalle organizzazioni sindacali. Meno moneta circolante e salari più bassi per contenere l’inflazione? Falso: gli Usa hanno appena creato trilioni di dollari dal nulla, senza generare spinte inflattive. Eppure, anche i sindacati sono stati attratti «in un’area di consenso per quelle riforme sbagliate che si sono fatte a partire dal 1981». Passo fondamentale, da attuare subito: una riforma della finanza, pubblica e privata, che torni a sostenere l’economia. Stop al dominio antidemocratico di Bruxelles, funzionale solo alle multinazionali globalizzate. Attenzione: la scelta della Cina di puntare sul mercato interno può essere l’inizio della fine della globalizzazione, che è «il sistema che premia il produttore peggiore, quello che paga di meno il lavoro, quello che fa lavorare i bambini, quello che non rispetta l’ambiente né la salute». E naturalmente, prima di tutto serve il ritorno in campo, immediato, della vittima numero uno: lo Stato democratico sovrano. Imperativo categorico: sovranità finanziaria per sostenere la spesa pubblica, senza la quale il paese muore. «A me interessa che ci siano spese in disavanzo – insiste Galloni – perché se c’è crisi, se c’è disoccupazione, puntare al pareggio di bilancio è un crimine».