venerdì 27 settembre 2013

RACCONTI BREVI di Maurizio Santopietro


Pubblichiamo con piacere nuovi contributi del Dott. Maurizio Santopietro.
Questa volta sono tre brevi racconti, tre istantanee sulla sua e nostra adolescenza e gioventù 


Aspettando ”l’ottantasette



   Maria Pia cambiò idea, salì di scatto le scale del metrò di “ P.za Re di Roma” prima ancora di scenderle tutte e puntò la fermata dell’”ottantasette”, dopo aver percorso un breve tragitto di strada, tagliando per via Cerveteri. Qui, nei pressi di “P.za Tuscolo”, si trovò in compagnia di un nutrito gruppo di persone, che speravano di divenire, di lì a poco, semplici passeggeri.
“Non si dovrebbe far desiderare troppo” pensò la ragazza alludendo al mezzo pubblico, vedendo tanta gente. Distribuì un’occhiata distratta attorno a sé, quando vide piombare in lontananza, con un incedere frettoloso e goffo, un arzillo vecchietto dalle gambe arcuate, che portava un’enorme gabbia ricoperta da un panno. Maria Pia aveva di fronte, in pieno centro cittadino, nell’ora di punta, un autentico contadino, che emanava un lezzo subdolo per le sue narici. Ma sapeva che non era l’esordio della primavera a diffondere quell’odore campestre. Maria Pia conosceva l’aroma della terra calabrese, non di quella laziale.
L’autobus arrivò nei minuti successivi; era affollato, ma non tanto da lasciarselo sfuggire. La discesa, regolarmente ottenuta con spintoni dai passeggeri, che uscivano dalla porta sbagliata, congiuntamente alle proteste di quelli che volevano salire nel medesimo momento, fomentò l’immancabile ressa, da cui il contadino se ne guardò bene di farvene parte. L’ambiente rurale è molto più spazioso e comodo, “di queste scene non ne ho il ricordo” rifletté il contadino.  Osservò quindi a debita distanza. Gettò la gabbia sulla pedana e, contraendo la faccia dallo sforzo, salì aiutandosi con le due mani. Chiedendo scusa, con un marcato dialetto frascatano, si procacciò, con inattesa facilità, il giusto spazio per sé e per la gabbia, che conteneva un pollo, vivo e vegeto, dato lo sventolio rumoroso e nervoso delle ali. Maria Pia, ritirando lo stomaco arrestò l’inalazione di quell’aria calda e viziata; arrivò fino al centro del bus. Scovò un posto in piedi, esiguo spazio, che le consentì il rilassamento degli addominali. Difese quel posto con decisione, stringendo forte la mano attorno all’apposito sostegno standosene in piedi. Sedeva invece, accanto a lei, una piccola, esile donna filippina. L’autobus procedeva a singhiozzi. Maria Pia fissava l’orologio, non era il ritardo che temeva, era l’imminente esame universitario. Ripassava mentalmente i punti salienti e quelli più ostici per la sua pur fervida memoria. L’esercizio mnemonico la isolava dalla pressione della calca.
Nell’autobus i passeggeri sono cose fra cose. I loro sguardi sembrano andare oltre i finestrini, ma rimangono lì, all’interno: ciò che accade fuori è come se non si vedesse...
Ad un tratto, strilli e stramazzi vari gettarono nel caos più completo i passeggeri dell’”ottantasette”. Il pollo si era inopinatamente liberato. L’insolita confusione s’abbatté sulla folla come mai s’era visto nella più esilarante comica. In alto, il volatile fuggiva saltando di testa in testa, portando via qua e là qualche ciocca di capelli, mentre un numero incalcolabile di piume si spargevano dappertutto, come bianche schegge impazzite. L’animale non riuscì nell’intento di varcare uno dei tanti finestrini aperti. Gli utenti più temerari, con al capo il contadino, tentarono arduamente di dare la caccia al pollo, sotto lo sguardo costernato di un pubblico, le cui agrodolci lacrime lucidavano facce sempre più smarrite. Allo stesso tempo si urlava e si rideva fragorosamente. E le sorprese non cessavano di stupire!
Il conducente prese ininterrottamente a starnutire: ad ogni starnuto seguiva una brusca sterzata, che sballottava qua e là i poveri passeggeri. L’autista era allergico alle piume. La studentessa si aggrappò con entrambi le mani, aderendo veementemente con tutto il corpo alla stanga verticale. L’allergia spossò subito l’autista; giocò a birilli con i passeggeri; e si rivelò così pericolosa da provocare un pauroso, quanto originale incidente stradale. La curiosità attirò rapidamente una gigantesca folla fra Via “Appia” e Via “La Spezia”, teatro dell’avvenimento.
Gli occhi prostrati della filippina puntavano, senza equivoci, Maria Pia, per una richiesta che mai avrebbe potuto immaginare, stravolta com’era per il botto annunciato. Anzi, temette il peggio durante il tragicomico zigzagare; provò un vero spavento. La filippina, insistendo, disse con una voce implorante al suo sconosciuto interlocutore: ”Rotto acqua”.
“Cosa ha detto, prego?” rispose sorpresa la ragazza curvandosi verso di lei. “Rotto acqua” pronunciò sillabando.
“Oddio! Sta per partorire!” realizzò Pia, che solo allora scoprì la rotondità del suo ventre.
“Presto, presto!! – si sgolò incredula Pia – “Questa donna sta partorendo presto! Qualcuno chiami un’ambulanza! Su, presto!!!.”
Il conducente, che continuava a starnutire, dialogava animatamente con lo sventurato automobilista, quando tutti i passeggeri erano ormai in strada, mescolati fra i curiosi; alcuni avevano bisogno di cure mediche; gli altri, quelli favoriti dalla sorte, confrontavano le rispettive impressioni formulando mirabolanti spiegazioni. Gli echi delle sirene segnalavano intanto l’imminente arrivo degli auspicati aiuti. Sul mezzo pubblico rimase solo il contadino, che ancora non era riuscito, in quel territorio a lui inadatto, a catturare l’animale, ma nessuno più badò a lui.

Subito gli infermieri soccorsero la filippina, mentre i vigili chiesero lumi sullo svolgimento dell’incidente all’autista dell’ATAC, al quale gli iniziarono a lacrimare copiosamente gli occhi, per la violenta irritazione. Quatto quatto, il contadino, avendo risolto il contenzioso con il pollo, s’allontanò indisturbato...



Il numero dimenticato (di Maurizio Santopietro)



Nei pressi di Settebagni l’acre esalazione delle fabbriche, annunciava l’imminente arrivo a “Roma Termini”, inconfondibile segnale del ritorno a casa, dove mancavo dal fatidico primo ottobre. Ero emozionato, ma non lo davo a vedere. I miei mi aspettavano per il giorno dopo, il 22 dicembre.
Il treno, per quanto avesse rallentato, superava in velocità tutte le macchine che transitavano lungo la parallela Salaria. Dal finestrino partecipavo a tutti gli altri sorpassi, mentre i miei compagni già si preparavano a raccogliere la loro roba per portarsi all’uscita. Non mi attardai di molto a raggiungerli. Don Marzio smise la lettura del breviario. “Aspettatemi ragazzi, apro io il portellone, mi raccomando: non apritelo! ” ci disse ammonendoci con tono un po’ preoccupato, abbottonandosi il paltò e aggiustandosi in testa il cappellone nero.
Nella stazione l’assordante rumore metallico dei treni, mescolato agli incomprensibili annunci ferroviari e al frenetico andar vieni dei passeggeri, come di formichine operose, rimbombavano in un’unica, ordinaria confusione. L’aria lì, doveva essere viziata. Fuori, ci apparve una piazza addobbata a festa. La giornata era molto fredda, sembrava voler nevicare, ma forse era più un desiderio che non una credibile previsione atmosferica. Un vento pungente intanto disperdeva l’inconfondibile aroma di castagne arrosto: olezzo che avrebbe saturato indelebili ricordi natalizi. Le sferzate secche della brezza capitolina ghiacciavano il naso e paralizzavano le mani, pur riparate dalle tasche del giubbotto, ma sul collinoso paesino umbro le raffiche spingevano più violentemente.
Don Marzio, un prete vigoroso, dall’eterno e spontaneo sorriso e dai dolci occhietti neri, era assiduamente invasato da un inesauribile spirito altruistico, ci radunò attorno a sé sul piazzale antistante alla stazione per illustrarci il programma, magro ma allettante: “Ora andiamo allo zoo; venite dietro a me, prendiamo gli autobus. Mi raccomando ragazzi, ché non siamo a Monterubiaglio! Pranzo al sacco all’una e mezza circa. Quelli di Roma, dopo la gita possono andare a casa”.
A quelle parole trasalii. Passava nel frattempo il “7”, il tram, che collegava “Piazza Zama” a “Piazza Indipendenza” (mi avrebbe portato a casa qualche anno dopo). Quella linea ferrata ora non c’è più da quasi un trentennio.
Don Marzio, anche in quell’occasione indossava, sotto il cappotto, una tunica consunta, il colletto - sbiadito - era in compenso pulito. Il colore del suo abito talare era per me più chiaro delle vesti chiare delle suore, con le quali trascorsi un anno infelice. L’abito non fa il monaco: non si vede immediatamente, ma s’intuisce distintamente attraverso l’uso di altri sensi: a volte non c’è bisogno di occhi per vedere...
Erano le dieci e mezza del ventidue dicembre. Io avevo otto anni e mezzo.
La vista degli animali nelle gabbie, cesellò tristezza nel bianco animo di bambino. Rimuginai più volte attorno alla loro condizione e, sotto certi aspetti, anch’io mi sentivo distante dal mio habitat naturale.
Vagammo per Villa Borghese (non c’ero mai stato prima di allora) e trovammo tempo per mandar giù una buona pastarella. Un gustoso fuori programma. Partendo dallo zoo, non avrei saputo come fare per andare a casa da solo: lì ero fuori zona. Così il prete buono dall’eterno sorriso e dalla tunica consunta e dal colletto sbiadito ma pulito, mi affidò ad un ragazzo di sedici anni.
“Conosco a fondo il quartiere dove abiti” mi disse per rassicurarmi.
 Io risposi annuendo con il capo, provando per lui schietta fiducia.
Allungò allora la mano sinistra per sgravarmi dal peso della piccola borsa, che io tenevo a malavoglia. Salutai energicamente il gruppo di compagni e Don Marzio, che mi pregò di serbare gli auguri per i miei genitori.
Avanzavano intanto le ombre crepuscolari, sebbene le giornate incominciassero ad allungarsi, mentre il freddo si faceva sempre più intenso. Lungo i marciapiedi, adiacenti ai bar, si elevavano torri di panettoni e pandori (a prezzi esorbitanti), che emanavano una miscela fragrante di dolciumi, irrefrenabile stimolo per risvegliare cascate d’acquolina in bocca. Io adoravo il sapore e l’odore del pandoro, perché non aveva i canditi. A volte gli occhi, senza volontà, si posavano sulle sorridenti facce dei cartelloni pubblicitari, che contrastavano con quelle più grinzose dei passanti, assillati dai regali da acquistare. L’apparizione di due zampognari, preceduta dal suono delle cornamuse, conferì a quel clima natalizio un alone fatato, cui mancava soltanto soffici coriandoli di neve, per essere una vera favola da narrare. Avrei voluto ricompensarli, i suonatori di zampogna, ma non avevo un soldo, così li contraccambiai ammiccando al loro passaggio. E fu allora che notai i riverberi delle luci intermittenti fendere il tessuto scuro del tardo pomeriggio. A “Piazzale Flaminio”, io e il mio occasionale tutore aspettammo il primo mezzo utile per “Piazza Venezia”. Spuntò il “Novanta” dopo un’attesa infinita. Non stavo nella pelle. Tra me e il mio giovane custode non ci fu bisogno di troppe parole. Scesi dal “64” (era a due piani), la voglia di tornare a casa ci motivò a correre a perdifiato fino all’altro capolinea (“Largo dei Fiorentini”), dove riuscimmo a salire sul “98 crociato”, terzo ed ultimo mezzo pubblico. La fretta di arrivare, in questo caso, si rivelò buona consigliera: prendemmo l’autobus a motore ruggente, senza avere il fiatone né le cosce di pietra come quando non si è allenati allo sforzo. “E ora a casa!” esclamai beato fra me. Ci spostammo avanti alla ricerca d’improbabili posti a sedere. Il traffico rallentò l’attraversamento di “Ponte Garibaldi”, ma percorse la salita dell’illuminatissima “Via Gregorio VII” con meno insidie del previsto.
Stonava, rispetto a quell’atmosfera festosa, il buio delle acque del Tevere, che rifletteva fiaccamente il debole lume dei radi lampioni accesi. Dopo le prime fermate, il “98 crociato” si affollò di passeggeri che, come di consueto in quel periodo, si moltiplicavano per scissione diretta! Ravvisai facce stanche, tuttavia avevano l’espressione rasserenata (forse di chi già sta pregustando le delizie del Natale). A molti di loro occorrevano due mani in più per tenere a bada le borse piene di compere. A dire il vero io non pensavo ai regali; mi erano indifferenti, ciò che m’importava era stare nel bel mezzo dell’affetto familiare, ma avevo anche un nostalgico desiderio dei succulenti primi piatti napoletani di mia madre, che li cucinava davvero come nessuno.
Lasciata alle spalle la salita, l’autobus s’inoltrò per una stradina stretta, totalmente nera (non si riusciva a scorgere che le sagome delle macchine con i fari accesi). Sembrava una via extraurbana. I lampioni fecero la loro comparsa dopo un breve tragitto, rischiarando il caseggiato. Scendemmo finalmente in “Via Bravetta”. L’orologio del giovane amico segnava un’ora imprecisa per me, allorché mi chiese il numero civico cui doveva accompagnarmi. Esitai a lungo non sapendo cosa rispondere, cosicché il mio silenzio fu sin troppo eloquente. Ebbi paura. Non sapevo il numero di casa mia! Per un attimo mi balenò l’idea del possibile ritorno in collegio. Iniziarono a colarmi rivoli di lacrime.
Il giovane comprendendo la mia immobile inquietudine, mi rassicurò per la seconda volta.
“Non ti preoccupare! Io conosco bene la zona. Descrivimi com’è fatto il palazzo; ricordarti altri particolari, che così guadagniamo tempo. Vedrai, fra poco starai a casa...”, mi disse il mio tutore, in modo affabile, chiamandomi per nome e mettendomi la mano sulla spalla. Mi aggrappai allora, a quelle parole di speranza.
L’oscurità profonda di quell’ora inghiottì gli abituali riferimenti spaziali: non riuscivo a vedere neppure il campo vicino alla marana (dove giocavamo a pallone), che si trovava giusto di fronte casa, di là della strada. Percorremmo a piedi quattro, cinque volte la via, fino ad arrivare a “Casetta Mattei”, fermandoci davanti a tutti i palazzi che incontravamo e leggendo i cognomi sui citofoni, laddove c’erano.
E ogni volta il ragazzo mi faceva la solita sfilza di domande: “Abiti qui?” “Sei sicuro che non sia questa?” “E’ forse quest’altra?”.
Io mi sentivo dentro una gabbia invisibile, senza più vie di uscita.
Sembrava fosse notte inoltrata, per quanto attorno era nero pesto. Del Natale, lì pareva non esistesse traccia: nessuna luce lampeggiava; né si udivano rumori. E non c’era nemmeno l’odore di castagne arrosto! Dubitai davvero. Forse che la festa arriva solo al centro, inondato com’è di scintillanti luci a tutte le ore? 
L’inutile, frustrante ricerca logorava la nostra pur ferrea volontà; ci fiaccava le gambe, e incrementava il senso di fatica scavando sconforto, instillando il pensiero della sconfitta.
“Per questa sera ti porto a casa mia, domani mattina rimedierò portandoti dai tuoi”, disse il ragazzo ormai disilluso.
Eravamo sfiniti e scoraggiati quando, ritornando indietro per l’ennesima volta, intravidi un bagliore, un bagliore irradiato da un angelo privo di ali e senza aureola. Esterrefatto, rivolsi lo sguardo su Alberto, ormai divenuto mio fido compagno di sventura, per trovare conferma, ma i suoi occhi puntavano altrove. Così, di scatto, mi voltai ancora l’ultima abitazione, il cui contorno aveva un’aria familiare.
“Babbo! Babbo!” urlai a squarciagola, e irruppi in un fragoroso, gioioso pianto liberatorio, mentre mio padre, con la testa china, stava salendo gli scalini d’ingresso al portone della palazzina dal numero civico 474...

 Scusa Ameri, scusa Ameri...”


Con profondo fremito attendevamo, sin dal mattino, l’inizio di una trasmissione radiofonica “Tutto il calcio minuto per minuto”, i miei numerosi fratelli ed io. Le nostre sorelle ci sfottevano, ci schernivano, ci punzecchiavano con le offese più ridicole per il solo fatto d’essere tifosi, ma c’invidiavano. Maria ed Ersilia, in ordine decrescente d’età, invidiavano l’ansia domenicale che tenevamo per il Napoli, che consolidava ancora di più la nostra complicità. Le donne, compresa nostra madre, pulivano casa più a fondo, la domenica mattina. Le canzoni della radio, a tutto volume, rendevano loro le faccende meno noiose. Poi, di pomeriggio, il possesso esclusivo della radio passava nelle nostre mani.
Io, il più piccolo, non subivo molte critiche, perché a scuola promettevo bene e perché ero, l’unico della famiglia - in quel periodo - a stare in collegio. L’attesa, dicevo, si riempiva di una tensione del tutto peculiare, fra desiderio e paura: due facce di una stessa medaglia. Da una parte, ribollivamo per il desiderio di sentire, dalla viva voce di Enrico Ameri, che il Napoli fosse in vantaggio; dall’altra, la paura di avere a che fare con una realtà avversa, per quanto prevedibile.
Anticipavamo la rubrica sportiva imitando la rinomata, rauca, voce di Sandro Ciotti: “Scusa Ameri, scusa Ameri...: Napoli in vantaggio...”. Lo era sempre, almeno per gioco. Il migliore imitatore era Massimo. Era un vero e proprio rituale propiziatorio!
Quella domenica Massimo, Ottavio ed io, decidemmo di andare a giocare a pallone e “soffrire” a Villa Pamphili. Il cielo, annuvolato, non ci scoraggiò; il clima era ideale per disputare una bella partita.
Ce la facemmo a piedi da casa (Via Bravetta) correndo a turno dietro al pallone fino alla Villa, distante alcuni chilometri. Eravamo i padroni della strada. Era il nostro infinito campo di calcio, la strada.
Ogni tanto i doppioni delle figurine, scivolavano dalla tasca del pantaloncino e mi obbligavano ad interrompere la corsa, a far attendere i miei due fratelli, che non protestarono più di tanto. Superammo il “Buon Pastore”; arrivammo al cinema “Ara Pacis” senza affanno, senza rendercene conto. Solo il pallone di cuoio ci precedeva, sempre.
(Di fronte alla sala parrocchiale, c’era il “Bar Gagliardi”: lì ci lavoravano altri tre dei miei fratelli: Gennaro, che preferiva farsi chiamare Rino, tifoso moderato; Armando, tifoso esagitato, e Ugo, che era un po’ Armando e un po’ Rino). Evitammo di salutarli per non arrivare tardi all’”appuntamento”. Puntammo diritti verso il “campo”, la Villa. Non portammo la radio nonostante il consolidato diritto di possesso, infatti, eravamo sicuri di trovarne a decine, e già in funzione. In quegli anni, la diretta iniziava con i “Secondi Tempi”: la suspence si faceva ancora più densa.

(I calciatori portavano le divise con i colori sociali tradizionali, ed erano prive di cognome stampato sulle spalle (i giocatori di quel periodo si riconoscevano da dietro anche senza nome). I numeri, prima, suggerivano un preciso ruolo; le maglie non avevano il nome dello sponsor; prima, la casacca identificava una specifica squadra... E le partite si giocavano la domenica, al medesimo orario. Oggi il calcio è frammentato, sfigurato, smembrato, eccessivamente somigliante alla società contemporanea.

Il pallone adesso rotolava oltre il bivio di “Via della Pisana”. All’angolo si ergeva un’edicola tutta verde accanto ad un piccolo “Caffè” frequentato da nostro padre: ci passava il tempo libero giocando a carte, a condizione che non vi fossero ospiti a casa, con i quali giocarci.
Così arrivò il mio turno a lanciare la palla a Massimo, che scattò come una saetta, uno sprint degno di una vera “ala pura”. Io e i miei fratelli lo sfottevamo chiamandolo “Cavallo Pazzo”. Era bravo, correva come un forsennato, ma dribblava troppo, non passava mai la palla. Calciava di sinistro, come Gigi Riva.
Ora era la volta di Ottavio a sganciarsi. Raggiunse la palla e poi fu lui a lanciarmela in modo impreciso: un classico! (sfoggiava caparbietà agonistica, ma anche “piedi duri”, poca tecnica). Dal canto mio feci il solito scatto. Sembrava che io fossi dotato di talento naturale. Ero timidamente orgoglioso, perché giocavo con i più grandi e, in collegio, ero sempre tra i primi ad essere scelto. Desideravo, come tutti gli scugnizzi partenopei, di giocare con il Napoli (figuriamoci, anche gratis).
Quando toccavo la palla a centrocampo, diventavo Juliano; quando mi capitava di fare il portiere, emulavo Dino Zoff: paravo tuffandomi proprio come lui, con la stessa “serietà”.
Giungemmo finalmente alla Villa, litigando per chi avrebbe dovuto portare il pallone con le mani, finché non avremmo trovato un posto adatto per giocarci. Entrando, ci guardammo attorno. Non c’era l’atteso pienone. Solo i fedelissimi del pic-nic pasquale sfidarono la minacciosa, ostinata presenza delle nuvole; tutti però avevano una radiolina accesa. Mi sfugge chi di noi raccolse la sfera.
Dopo un’attenta perlustrazione, occupammo un’area abbastanza estesa per giocarci, poi ci accostammo ad un piccolo gruppo di persone che erano nei paraggi. Era disposto curiosamente a cerchio mentre la radio, come una sorta di totem, stava lì, al centro. Giungemmo in perfetta coincidenza con la sigla d’apertura. “La Stock di Trieste v’invita all’ascolto di: Tutto il calcio minuto per minuto”... Chiedemmo alla comitiva di farvi parte. Noi tre trasmettevamo una certa sofferenza o meglio, una condizione d’apprensione mista ad una sottile sfumatura di piacere. Una sensazione sadomasochista. Finalmente l’inconfondibile timbro di voce di Enrico Ameri annunciava dal campo principale il risultato del primo tempo: a S. Siro, Inter zero e Napoli uno. Gol di Altafini su respinta di Bordon al minuto...”, pronunciò distintamente la voce del radiocronista. Non trattenemmo la gioia di esultare, sebbene la parte più autentica di quell’effimera, profonda euforia rimase inespressa sotto la nostra pelle. Soddisfatti, ci apprestammo a dare i primi calci, incominciando a “passaggi”. Contagiammo gli occasionali spettatori; così potemmo formare due squadre di quattro giocatori. Ci muovemmo con destrezza; riuscivamo ad eseguire le giocate più raffinate. Giocavamo tendendo entrambe le orecchie alla radiolina. Ad un tratto irruppe con tono concitato Enrico Ameri, e all’istante fermammo la nostra partita. “Rigore, rigore a favore dell’Inter..., rigore molto contestato dai giocatori napoletani.... Zoff, di solito molto composto, si lascia andare a un atteggiamento di stizza...”, annunciava nervosamente Ameri. Inutile dire che io, Massimo e Ottavio pregammo in religioso silenzio che lo sbagliassero quel rgore!. Ma non fu così, purtroppo. Ci assalì un fastidioso scoramento per la beffa e il danno ricevuto. I miei fratelli continuavano ad inveire contro Gonnella, il signor arbitro che decretò l’ingiusto rigore. Entrambi formularono supposizioni geopolitiche. Ed io sentivo di appartenere ad una squadra discriminata, sebbene la natura di tifoso conosca solo il “principio del piacere”. Noi eravamo tifosi, e anche accaniti.
Gli effetti si manifestarono nel nostro rendimento: Massimo e Ottavio giocarono “distrattamente”, controvoglia. Vivevano l’aria di “S. Siro”, dove si era consumato l’iniquo pareggio. Ma potevamo contare ancora su tre gol di vantaggio. Profusi la tanta rabbia nel gioco, trasformandola in intenso sfogo agonistico. I nostri avversari accorciarono le distanze, avendo noi scelleratamente consentito di farci due reti. I nostri avversari si erano ormai rianimati. Centrammo quindi la palla. Ottavio scagliò il pallone sulla linea di destra, io la fermai con uno stop a seguire e attesi che il difensore venisse contro; con il busto mi spostai verso la mia sinistra mentre feci schizzare la palla al lato opposto. Superato l’avversario, prolungai freneticamente la corsa sulla (immaginaria) linea laterale; alzai la testa, per verificare la posizione dei miei compagni e quindi crossai verso Massimo, che attendeva il pallone sul secondo palo. La sfera, tesa, colpita violentemente al volo con un tiro mancino, si stampò sul secondo palo (in realtà un tronco d’albero). La palla rimbalzò quindi sul mio piede: un tocco “morbido” da sotto tratteggiò un preciso pallonetto. “Gol!!”, esclamai con un pizzico di rabbia. Per ascoltare nuovamente la radio, sospendemmo il gioco.
Noi tre speravamo sempre che la squadra ripassasse in vantaggio; Juliano e compagni avevano soverchiato gli avversari in lungo e in largo tutto il “Primo Tempo”, non raccogliendo in modo proporzionato alle energie profuse, i frutti sperati, da noi profondamente desiderati. La squadra aveva “speso” troppo, inutilmente. Non arrivando al gol, temevamo allora di incassarlo (per la dura regola del “gol fallito gol subito”). Stavolta l’ansia esprimeva la paura di perdere. La coinvolgente radiocronaca di Ameri non ci dette scampo. Era Boninsegna la causa della nostra abissale frustrazione. Il centravanti, con un’audace quanto folle incornata, rischiando di prendere in pieno volto una “pedata” da Panzanato, realizzò la rete. Sulle nostre facce calò una fitta, densa e nera desolazione. Ci sentimmo defraudati per l’ennesima volta. Il gruppo che ci ospitò comprese per intero la nostra amarezza e ci confortò rilevando la maligna interferenza arbitrale, ma ciò non alleggerì il malumore. Tornammo mestamente a giocare la seconda parte della partita, anche se io avrei voluto lasciare per vedere in televisione “Novantesimo minuto”, rubrica sportiva condotta dall’indimenticabile Maurizio Barendson (e poi da Paolo Valenti). Aderivo, in linea di massima, al ragionamento vittimistico dei miei fratelli, però mi riservavo di verificare, alla moviola, la decisione arbitrale. Lo sconforto sarebbe stato quasi drammatico se fossi rimasto lì, in collegio, nel campo vuoto...


Maurizio Santopietro

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