
Non so bene che lavoro faccio. So che tra poco saranno otto anni che lo faccio. In otto anni non ho ancora capito, ma dicono che sia il problema minore. Tempo fa ho letto un articolo di David Graeber su Internazionale in cui si dice che questo è il secolo del lavoro stupido. Dice Graeber: “È come se esistesse qualcuno che inventa lavori inutili solo per farci continuare a lavorare”. E poi: “La classe dirigente ha capito che una popolazione felice e produttiva con un sacco di tempo libero è un pericolo mortale per i suoi privilegi”. E ancora: “Una volta, mentre contemplavo la crescita apparentemente infinita delle responsabilità amministrative nei dipartimenti accademici britannici, ebbi l’impressione di stare assistendo a una possibile visione dell’inferno. L’inferno è un insieme di individui che spendono la maggior parte del loro tempo a lavorare su un compito che non gli piace e per il quale non sono particolarmente bravi”.
Ecco,
il lavoro che faccio da otto anni è un lavoro che non mi piace e per il quale non
sono particolarmente bravo. È inoltre un lavoro del quale la collettività
potrebbe fare a meno. Infatti non credo che se la mattina non mi alzassi dal
letto per correre in ufficio, il mondo sarebbe un posto peggiore. Eppure so che
se la mattina non mi alzassi dal letto per correre in ufficio, ci sarebbe un
altro al posto mio che invece si alzerebbe eccome, e correrebbe in ufficio a
svolgere lo stesso lavoro, un lavoro che però non piacerebbe neppure a lui e
per il quale non sarebbe particolarmente bravo. Quindi so già quali sono le
obiezioni: ritieniti fortunato di avere un lavoro e non rompere le scatole, è
sempre meglio avere un lavoro stupido che non averne affatto, e via di questo
passo. Dico subito che sono d’accordo, come sono d’accordo col Dr. House quando
dice che lo scopo nella vita non è eliminare l’infelicità, ma mantenerla al
minimo.
Che
lavoro faccio? Ho un contratto su cui è scritto che sono un impiegato con
mansioni di supporto e assistenza operativa qualificata d’ordine. La società
per cui lavoro è una società partecipata con trecento dipendenti, cioè è una
società nella quale una quota di capitale sociale è di proprietà di un ente
pubblico. Tecnicamente non sono un dipendente pubblico, di fatto lavoro in un
contesto di pubblica amministrazione (la maggior parte delle persone con cui
divido l’ufficio sono impiegati assunti dallo Stato tramite concorso). I miei
compiti sono di supporto nelle attività giornaliere di cui si occupa il
dipartimento in cui lavoro. La parola supporto regola con precisione
scientifica la mia posizione rispetto ai dipendenti pubblici, che è una
posizione di retroguardia, sempre un passo indietro, nessuna assunzione di
responsabilità, nessun diritto di orientare le scelte, di indirizzare i cicli
di produzione dei servizi.
In
tutto questo tempo ho lavorato nelle seguenti aree: comunicazione istituzionale
e marketing, politiche attive del lavoro, strategie di animazione territoriale,
economato, progetti europei, gestione e coordinamento del personale assegnato
agli uffici dipartimentali. I nomi con i quali indico ciascuna di queste aree
sono ingannevoli, perché in ciascuna di queste aree il lavoro che ho svolto è
sempre stato a grandi linee lo stesso, ossia quello del passacarte salariato
che deve inventare ogni giorno un modo per non farsi sopraffare dalla noia e
dalla prostrazione. Ora, se vi guadagnate da vivere facendo qualcosa del
genere, provate a spiegare in due parole a vostra madre che lavoro fate. Io, in
otto anni, non ci sono ancora riuscito.
L’edificio
che ospita il dipartimento è un cubo con in mezzo un buco quadrato. Se
immaginate un cubo con in mezzo un buco quadrato potete anche immaginare che
ogni piano (i piani sono tre) è composto da quattro lunghi corridoi. Ho
cominciato abbastanza presto a chiamarlo il Grande Nulla. Ora, dopo otto anni,
quando penso al Grande Nulla, lo penso come un cubo di Rubik, lo penso cioè
come un posto in cui è facile perdere l’orientamento, anche se, dopo otto anni,
l’orientamento non lo perdo più. Da otto anni incontro ogni giorno della gente
che mi chiede: “Scusi, dov’è l’uscita?” E capita che ogni tanto rivolga la
domanda a me stesso, e quando mi faccio questa domanda penso al cubo di Rubik.
Allora la risposta che mi do è sempre la stessa: “La soluzione esiste, ma è
difficile”.
Il
contratto iniziale che ho avuto con la mia società prevedeva un part-time a
venticinque ore settimanali. Il primo giorno di lavoro sono arrivato in ufficio
con un completo marrone di velluto a coste e la cravatta, perché il
responsabile delle risorse umane mi aveva raccomandato di indossare il completo
e la cravatta, almeno il primo giorno, “per riguardo verso i nuovi colleghi”.
L’ufficio era composto da cinque impiegate, la capoufficio si è presentata e mi
ha detto: “Non abbiamo una scrivania per te, siediti al mio posto e aspetta”.
Dopo una settimana ero ancora lì ad aspettare. Solo che nel frattempo non ero
riuscito a restarmene seduto, insomma mi ero messo a dare una mano alle mie
nuove colleghe per riordinare degli elenchi in Excel sforzandomi di trovarlo un
lavoro interessante. Fin dal primo giorno ho avuto l’impressione che lì la mia
presenza fosse superflua, che ero stato assunto all’unico scopo di giustificare
la somma di denaro che mi avrebbero versato ogni mese, che non mi era
riconosciuto alcun tipo di professionalità, che in cambio dello stipendio
dovevo solo fare un piccolo sacrificio: rinunciare a essere libero per cinque
ore al giorno.
Nella
biografia dello scrittore olandese Willem Frederik Hermans c’è una vicenda
interessante. Hermans insegnava geografia all’Università di Groninga. Nel 1972
fu sospettato di trascurare l’insegnamento a vantaggio della scrittura. A
quanto si sa fu addirittura istituita una commissione parlamentare d’inchiesta
per indagare sulla faccenda. Secondo i risultati dell’indagine, Hermans fu accusato
di usare la cancelleria dell’università per scrivere i suoi romanzi. Il fatto
costrinse Hermans a dare le dimissioni, in seguito alle quali si trasferì a
Parigi per dedicarsi completamente alla scrittura. Come fece pronunciare a uno
dei suoi personaggi tempo dopo, aveva abusato della sua posizione
all’Università di Groninga “per fare qualcosa di utile con questa carta costosa
che normalmente scomparirebbe, senza essere letta, nel cestino della
cartastraccia, inquinando l’ambiente”. Quest’uomo, da otto anni, è il mio eroe.
Come Hermans, anch’io aspiro a occupare le restanti trenta ore lavorative “per
fare qualcosa di utile con questo tempo costoso che normalmente scomparirebbe,
senza essere in alcun modo produttivo, nell’oblio del vuoto burocratico, inquinando
la mia mente”.
Sono
abbastanza consapevole che sto dicendo qualcosa che, nell’epoca e nella società
in cui vivo, risulta essere in larga parte incomprensibile. Sto dicendo che a
causa di una strutturazione del lavoro caotica, velleitaria, e di un’insensata
filosofia produttiva, impiego trentasei ore a svolgere un lavoro che potrebbe
occuparmi al massimo mezza giornata la settimana, o che al limite potrei
svolgere comodamente da casa, senza contribuire, con i miei sessanta chilometri
di spostamenti quotidiani, al traffico di Roma, all’inquinamento atmosferico e
allo stress della collettività. La cosa che trovo sconcertante è che conosco
impiegati nel Grande Nulla il cui tempo lavorativo effettivo già nelle
condizioni attuali è inferiore alle sei ore settimanali. La conseguenza è che
molte di queste persone si lasciano convogliare dall’ozio più sfiancante,
trascorrono i loro infiniti tempi morti in attività puramente passive, come
giocare a Ruzzle, o appassionarsi sui social network alle vite di emeriti
sconosciuti, molti li vedo oziare sulle scale masticando sigarette spente, bere
esorbitanti quantità di caffè al distributore automatico, fingere di parlare al
telefono, fissare il vuoto celeste per ore.
In
effetti, in un contesto del genere, esiste un importante problema di diffusione
di malattie mentali depressive dovute alla consapevolezza dell’inutilità del
proprio lavoro. Nel corso degli anni ho visto persone sane dare, col passare
del tempo, segni di disordine emotivo piuttosto seri, vedo ogni giorno uomini
passeggiare lungo i corridoi discutendo animatamente con se stessi, altri
ammalarsi di narcolessia depressiva e sonnecchiare tutto il tempo davanti a un
computer spento, altri ancora li vedo sorridere solo quando confabulano con una
piantina coltivata in un piccolo ritaglio di terra tra l’ingresso degli uffici
e la strada. Molti impiegati mi hanno confidato che la loro principale paura è
ammalarsi di questo tipo di cose. A fronte di ciò c’è anche una buona fetta di
personale che dà mostra di essere non dico felice, ma perfettamente a suo agio,
che ha buoni rapporti sociali, che si spende nel lavoro o che addirittura trova
gratificante la materia di cui si occupa.
Il
fatto che per gran parte del mio tempo lavorativo io svolga compiti inutili è
qualcosa di strutturato, è un processo di cristallizzazione del lavoro tipico
dell’era contemporanea e delle società occidentali. Nonostante la conclamata
inutilità del mio lavoro, sono tenuto a essere presente in un ufficio dal quale
non posso allontanarmi se non per un numero limitato di ore annue. Il mio
controllore è un badge elettronico in cui è presente una foto della mia faccia
così com’era otto anni fa e un numero di matricola. È mio dovere timbrare il
badge in entrata e in uscita ogni giorno e verificare che i miei colleghi
facciano altrettanto, il badge è il sistema che geolocalizza il mio corpo, è la
sentinella che mi impedisce qualsiasi tipo di spostamento al di fuori
dell’edificio in cui lavoro.
Sul
sito web di un’azienda che si occupa della vendita di sistemi di rilevazione
delle presenze ho trovato questa frase promozionale: “Oltre al risparmio di
tempo per calcolare le ore lavorate e stampare un prospetto dettagliato da
inviare alla gestione delle paghe, le nostre soluzioni vi permettono di controllare
le entrate in ritardo, le uscite anticipate, le assenze ingiustificate, gli
straordinari non autorizzati, riducendo così i costi sulla forza lavoro”. In
realtà, ciò che viene rilevato da questi sistemi non è tanto le ore lavorate,
quanto le ore di detenzione a cui ciascun lavoratore dà il suo assenso in
cambio di una contropartita in denaro, non essendo affatto sottinteso che alle
ore di detenzione corrispondano altrettante ore lavorate con profitto. Questo
modello si fonda ancora su un’idea del lavoro di tipo coercitivo, non si cura
cioè del raggiungimento degli obiettivi di produzione, ma mira al controllo
fisico (e quindi alla proprietà) delle persone.
Ho
fatto un calcolo: se considero che faccio questo tipo di lavoro per
duecentoventi giorni l’anno (trecentosessantacinque giorni esclusi sabati,
domeniche, ferie e festività varie) per una media di sette ore al giorno, mi
risulta che lavoro per millecinquecentoquaranta ore l’anno, che fanno
sessantaquattro giorni pieni. Questo tipo di dato viene chiamato anno-uomo, una
definizione che trovo abbastanza sinistra ma efficace. La schiavitù da lavoro
improduttivo di cui faccio parte non riguarda solo i settori della pubblica
amministrazione, ma intere aree professionali occupate soprattutto nelle
cosiddette società di servizi, cioè a occhio e croce un miliardo di persone in
tutto il mondo, un miliardo di esseri umani che non hanno problemi a sfamare se
stessi e i propri familiari ma che non conoscono l’utilità del proprio lavoro,
che non contribuiscono in alcun modo al progresso, che per ogni anno della loro
vita spendono in media sessantaquattro giorni (notti comprese) a svolgere
attività senza valore sociale, senza scopo, senza significato, un miliardo di
persone che potrebbero avere una possibilità di essere felici se liberate dal
giogo del lavoro inutile e impiegate secondo le loro reali capacità.
Di
recente, leggendo La morte in banca di Giuseppe Pontiggia (Mondadori), mi sono
appuntato questo:
“Incontrava
a volte l’amico bancario e, facendolo parlare, ritrovava in lui la propria
crisi, le stesse speranze deluse. Eppure non poteva accettare le conclusioni
dell’altro. Certo, questo era strano: si irritava ancora, ad ascoltarle. Non
poteva accettare che proprio la crisi, che gli aveva aperto gli occhi, gli imponesse
una nuova finzione, impedendogli di vedere oltre. Che il fallimento fosse
mentale. Ne provò una stretta d’angoscia. Ecco, era quella la morte: la morte
in banca. Che era poi una delle infinite morti nella vita”.
In
definitiva, ho uno stipendio, ho un contratto sicuro, posso fare debiti, faccio
parte di una minoranza di lavoratori che godono di ogni tipo di tutela. Una
percentuale elevata di persone disoccupate, sfruttate, sottopagate o malamente
impiegate può, a ragione, ritenermi una persona fortunata, come erano ritenuti
fortunati i bancari degli anni Cinquanta di Pontiggia. Ma, in fondo a tutto, la
domanda essenziale rimane una: a chi conviene, realmente, che la gente si
ammali e muoia ogni giorno di questo genere di fortune?
Andrea Pomella
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