Il
5 dicembre nel suo messaggio televisivo Berlusconi ha detto: “Vogliamo
cancellare il complicatissimo sistema attuale di aliquote differenti, di
deduzioni, di detrazioni e sostituirlo con un’aliquota unica del 20%”, cioè la
Flat Tax, “la tassazione piatta che avevo già proposto con il professor Martino
nel 1994 ma che mai ci era stato permesso, dagli alleati e dall’opposizione, di
realizzare. Da allora 38 paesi l’hanno adottata tutti con ottimi risultati”,
(Ansa).
Dal
PD è giunta immediata la risposta: ci potrebbero essere problemi con i conti
pubblici, Berlusconi non indica le coperture. Si vede che dalle parti di Largo
del Nazzareno ignorano la curva a campana di Laffer, che con precisione mostra
come le entrate fiscali, anziché diminuire con una riduzione della tassazione,
aumenteranno. La logica è semplice: è vero, la riduzione delle tasse lascerà
tanti più soldi nelle tasche di chi più né ha; per esser chiari: si tagliano le
tasse a ricchi; ma niente paura: i soldi che i ricchi non pagheranno al fisco
si tradurranno in nuovi investimenti e quindi in nuovi posti di lavoro, così il
PIL crescerà e le entrate fiscali aumenteranno.
La
teoria che sottostà alla curva di Laffer può essere considerata il volto buono
dei neoliberisti. Più cruda l’altra corrente di pensiero: la teoria dell’
“affamare la bestia”. Lo Stato, cioè la bestia, è il problema non la soluzione,
per dirla con Reagan. In questo senso l’obiettivo della riduzione delle tasse
ai ricchi non è quello di aumentare la base imponibile ed accrescere le
entrate, ma quello appunto di ridurla, al fine di affare lo Stato, privandolo
di quelle risorse necessarie a finanziare lo stato sociale, l’assistenza,
l’istruzione e la sanità pubblica, tutte istituzioni che, per l’ortodossia
neoliberista, distorcono le leggi di mercato, soffocano gli animal spirits e
premiano i fannulloni. E’ chiaro che la logica è quella del darwinismo sociale
e di un calvinismo deteriore, una visione totalmente ideologica propria dei
fondamentalisti di mercato. Una idea che ha trovato diritto di cittadinanza, e
non solo, nella destra italiana, basti pensare alla logica dei tagli lineari
alla spesa pubblica. E forse trova ancora diritto di cittadinanza, visto che
la Gelmini continua a presentare Forza Italia come il partito anti-tasse3.
Ma
ritorniamo alla Flat Tax: i tagli fiscali sulle aliquote più alte di reddito,
dunque, si traducono in nuovi investimenti e nuovi posti di lavoro. E tanto più
numerosi saranno i posti di lavoro quanto più incisiva sarà l’azione del
governo Renzi nella riforma del mercato del lavoro (il Jobs Act). Via il
vecchiume e il ginepraio di norme dell’ormai datato Statuto dei Lavoratori:
anche i diritti invecchiano; e via quella selva di differenti aliquote che
infesta il nostro fisco. Alla luce di ciò, non si capisce perchè il PD non
faccia propria la proposta di Berlusconi: Flat Tax e Jobs Act è il binomio
perfetto.
E’
francamente avvilente dover prendere atto di quanto sia ancora forte
l’influenza del neoliberismo in Italia. La proposta di Berlusconi di una Flat
Tax, infatti, è propria dell’ortodossia neoliberista, è anzi uno dei pilastri
fondamentali su cui, da Reagan in poi, si è retto questo paradigma.
I
risultati? Una catastrofe. La riduzione della tassazione sulla fasce più alte
di reddito (persone fisiche e aziende) è all’origine dell’esplosione del debito
americano ed è una delle cause di quelle disuguaglianze sociali, economiche e
politiche che stanno corrodendo dall’interno le democrazie occidentali. Le letteratura
sul punto è copiosa e credo che non vi sia più alcuno studioso serio che
sostenga la validità di una tale soluzione. Inoltre, per quando riguarda
l’Italia, è del tutto inutile perder tempo a dimostrare quanto un Flat Tax
possa essere dannosa.
E
perchè è inutile? Perchè in Italia c’è una Carta costituzionale che vieta una
tassazione che si ispiri ad un principio proporzionale e bisogna esser gradi
agli onorevoli del gruppo parlamentare della Democrazia Cristiana Luigi Meda,
Piero Malvestiti, Amintore Fanfani, Giuseppe Lazzati, Laura Bianchini, Luigi
Balduzzi, Gesumino Mastino, Francesco Murgia, Alessandro Turco, Antonio
Ferrarese che nella seduta del 15 aprile del 1947 dell’Assemblea Costituente
firmarono un emendamento nel quale era scritto: “I tributi diretti saranno
applicati con criterio di progressività”; e bisogna esser grati all’onorevole
Scoca (DC) che il 19 maggio successivo proposte all’Assemblea un articolo
ispirato allo stesso principio: “tutti debbono concorrere alle spese pubbliche,
in modo che il carico tributario individuale risulti applicato con criterio di
progressività”.
Scoca
il 23 maggio illustra in Assemblea il suo emendamento e ricorda come nello
Statuto albertino, vi fossero delle disposizioni in materia fiscale, in
particolare l’art. 25 “il quale diceva: «Essi (cioè i cittadini) contribuiscono
indistintamente, nella proporzione dei loro averi, ai carichi dello Stato».
Questa norma enunciava il principio della generalità e dell’uniformità
dell’imposta, e lo collegava con la regola della proporzionalità dell’imposta
stessa. Trattasi di una regola conforme alle idee dominanti nel periodo in cui
lo Statuto albertino fu emanato”. Può essere utile precisare che per idee
dominanti bisogna intendere il liberismo puro, o laissez-faire, vale a dire il
padre del neoliberismo.
“In
questo modo – continua Scosa – la distribuzione del carico tributario avviene
non già in senso progressivo e neppure in misura proporzionale, ma in senso
regressivo. Il che costituisce una grave ingiustizia sociale, che va eliminata,
con una meditata e seria riforma tributaria”.
Quel
principio è ora al sicuro nella “rocca della Costituzione”, per usare le parole
di Meuccio Ruini, ed è l’art. 53: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese
pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è
informato a criteri di progressività”. Per inciso, vale la pena far notare che
l’articolo è inserito nella parte prima della Costituzione, il che significa
che non è modificabile dal legislatore ordinario. Dunque, una tassazione
ispirata ad un principio proporzionale in Italia, per fortuna, è
incostituzionale.
Si
diceva in precedenza che la Flat Tax è solo uno dei pilastri su cui è costruito
il paradigma neoliberista. L’altro pilastro consiste nello spazzar via tutta
quella serie di provvedimenti e diritti con i quali si tentava di sottrarre la
determinazione del prezzo del fattore lavoro (il salario) al libero gioco della
domanda e dell’offerta, vale a dire fare in modo che il lavoro non fosse più
considerato una merce e lo si è fatto fissando “protezioni e diritti alle
condizioni del lavoratore stesso” e garantendo ai lavoratori una agguerrita
protezione sindacale.
In
questo modo si è riusciti a “vincere l’insicurezza (sociale) assicurando la
protezione (sociale) di tutti o quasi tutti i membri di una società moderna,
per farne degli individui che godono di tutti i diritti”. Quando si sono
eliminate queste tutele e questi diritti, perchè incompatibili con il paradigma
neoliberista, si è “deliberatamente ridotta la quota dei lavoratori
socialmente definiti sicuri sul totale degli occupati”.
Eliminate
queste paratie a protezione del lavoro, il mercato, produttore di
disuguaglianze, ha potuto fare il proprio lavoro: “tra la metà degli anni
Ottanta e la metà degli anni Novanta la disuguaglianza è aumentata in venti
dei ventuno paesi membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo
economico, per lo più a causa di un aumento della disuguaglianza nella
retribuzione del lavoro”. Il che significa che “sono i cambiamenti degli
istituti che regolano il mercato del lavoro e le norme che promuovono una
redistribuzione della ricchezza la causa principale della sperequazione
sociale”. Se a ciò si aggiunge l’effetto regressivo di una tassazione di tipo
proporzionale si ottiene il quadro preciso delle cause della crisi economica:
mercificazione del lavoro e sperequazione sociale via tassazione proporzionale.
Il
lavoro, dunque, non può e non deve essere considerato una merce, altrimenti si
producono quelle disuguaglianze sociali ed economiche, in grado di fagocitare
il mercato e la democrazia. E qui i “fondamentalisti del mercato” storceranno
il naso: solo le leggi del mercato, dando il giusto prezzo ai fattori della
produzione, possono garantire la perfetta allocazione delle risorse, scarse per
definizione. C’è di più, per i fondamentalisti di mercato le disuguaglianze non
sono affatto un male, ma un stimolo costante a migliorarsi, sono anzi il motore
del progresso, ciò che garantisce la mobilità sociale: chi è in basso sognerà
la vita di chi è in alto e dando il meglio di sé con il lavoro riuscirà a
vivere la vita che sogna. Sono due punti importanti che è necessario confutare.
Il
primo: il mercato dà sempre il prezzo giusto ai fattori della produzione,
compreso il lavoro. E’ falso. In linea di principio si può dire che il
lavoratore ideale per qualsiasi datore di lavoro è colui che fornisce il
proprio braccio o la propria mente, con entusiasmo e dedizione, senza nulla
chiedere in cambio. Il lavoratore ideale pertanto è colui che lavora gratis.
Il
secondo: la disuguaglianza è stimolo costante al duro lavoro e al
miglioramento. Nutre le aspirazione e le ambizioni e, a livello aggregato, è
fattore di progresso. E’ falso. Chi sta in basso resterà in basso. Le
disuguaglianze si ossificano e le società si frantumano in classi chiuse. Per
fare un esempio: se solo l’accesso alle prestigiose università private dell’Ivy
League in America è garanzia di alti salari, chi è povero ne è escluso, a
prescindere dal talento, dalla ambizione e dal duro lavoro. Il che si traduce
in una perdita netta per la società che si priva di un numero immenso di
ingegni. Altro che progresso. C’è di più. Come ha dimostrato Piketty, al quale
va inoltre il merito di aver provato, dati alla mano, come il mercato produca
disuguaglianza, nelle fasce più alte al lavoro si sostituisce la rendita: ed il
tasso di rendimento medio del capitale è superiore (r>g in un rapporto 5 a
1) rispetto a quanto rende il lavoro: “La concorrenza pura e perfetta non potrà
recare alcun cambiamento alla disuguaglianza r>g, la quale non deriva in
alcun modo da un’“imperfezione” del mercato o della concorrenza, se mai dal
contrario”. Il che significa che per quanto possa lavorare senza sosta, chi
sta in basso non riuscirà mai a raggiungere i rendimenti di chi vive della
rendita del proprio capitale. Per inciso, le stratificazioni sociali si
ossificano anche a livello politico con la nascita della dinastie, basti
pensare ai Bush e ai Clinton negli Stati Uniti, che, dopo il “miracolo” di
Obama, ritorneranno probabilmente a sfidarsi alle prossime elezioni
presidenziali.
E’
solo grazie all’intervento di fattori extra-mercato come gli investimenti
statali (scuola pubblica, sanità assistenza, ma anche il finanziamento della
ricerca di base, anche non redditizzi nel breve periodo), il sindacato (il
moderno tribuno della plebe, come lo definisce Luciano Pellicani) e i partiti
progressisti che si è potuto alterare, a vantaggio dei più, le leggi di mercato
ed impedire che le società aperte si trasformassero in oligarchie.
La
questione ovviamente non è solo economica, ma anche politica ed istituzionale.
In che senso? “Chi non lavora non magia”, le parole sono di Stalin. Ora, chi
non mangia patisce la fame, quando la maggioranza dei cittadini patisce la fame
accade un fenomeno particolare, già successo in passato: il cittadino è
disposto a spogliarsi di tutte le sue libertà e a votarsi a chiunque gli
prometta il pane, è così che il popolo diventa plebe e il cittadino un suddito
ed è così che di solito nascono le tirannidi, siano esse di uno o pochi o di
una maggioranza (oclocrazia).
Questa
è la via che “da sinistra” conduce alla società chiusa: sono i poveri che
invocano il tiranno. Ma vi può essere anche una via che “da destra” conduce ad
una società che si va via via chiudendo: i vincitori della grande
trasformazione (e i loro discendenti) tendono a chiudere l’accesso alla
cittadella del comando al resto della popolazione: la proprietà sola – scrive
Constant – rende gli uomini capaci di esercitare i diritti politici. Solo i
proprietari possono essere cittadini. Ciò si rende necessario, continua
Constant, perchè: “quando i non-proprietari hanno dei diritti politici, accade
una di queste tre cose: o non traggono impulso che da se stessi e allora
distruggono la società, o lo traggono dall’uomo o dagli uomini al potere e sono
strumento di tirannide, o lo traggono da coloro che aspirano al potere e sono
strumenti di una fazione”.
Pertanto,
se è vero che il mercato è l’unico strumento in grado di produrre ricchezze
delle meraviglie, è altrettanto vero che esso produce disuguaglianze e
questioni sociali. Piketty è dello stesso avviso e lo scrive a chiare lettere:
“il progresso dinamico di un’economia di mercato e di proprietà privata, se
abbandonato a se stesso, alimenta importanti fattori di convergenza, legati in
particolare alla diffusione delle conoscenze e delle competenze, ma anche
potenti fattori di divergenza, potenzialmente minacciosi per la nostre società
democratiche e per i valori di giustizia sociale su cui essi si fondano”.
Dunque,
non pare eccessivo dire che è il liberismo, che fa del laissez-faire l’unica
politica economica possibile, a trasformare un società aperta in una società
chiusa.
Questa
lettura, l’idea cioè che è il liberismo che conduce alla dittatura o ad una
ingiusta divisioni in classi della società, è uno dei principi ispiratori di
tutta la nostra Costituzione repubblicana, è presente nella parole (tra gli
altri) di La Pira, di Dossetti, di Lelio Basso, di Fanfani, di Moro, di
Togliatti e di Paolo Emilio Taviani che il 7 maggio del 1947, rispondendo alle
critiche dei qualunquisti Maffioli e Colitto, secondo i quali il Titolo III
sarebbe l’espressione di una concezione statolatrica, soffocatrice della
persona umana, dice: “noi riteniamo che l’ordinamento sociale dell’economia
abbia proprio il risultato opposto a quello che temono i nostalgici o i maniaci
del liberalismo ad ogni costo; solo un ordinamento sociale, infatti, può
evitare lo slittamento verso lo Stato totalitario, cui fatalmente finisce per
condurre il non regolato esercizio delle libertà individuali. (…) non è il
liberalismo puro, non l’accettazione supina del cosiddetto ordine naturale e
economico che possono garantire la democrazia. Essi porterebbero fatalmente al
totalitarismo”. Solo un ordinamento economico reso compatibile con le esigenze
sociali, dunque, prevenire il sorgere della tirannide. Di qui quello che è il
vero capolavoro della nostra Costituzione, vale a dire la
costituzionalizzazione dei diritti sociali con una duplice funzione:
estendere concretamente ai più quelle libertà liberali formali, sancite dalla
costituzioni post-1789; bilanciare quelle libertà (proprietà privata e libera
impresa) che, se lasciate senza briglia, rischiano di tradursi in monopolio e
latifondo. Il fine è quello di risolvere la questione sociale che naturalmente
il mercato produce.
Nunziante Mastrolia
https://fondazionenenni.wordpress.com
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