venerdì 16 gennaio 2015

OSTAGGI DEL NEOLIBERISMO

NEOLIBERISMO

Il 5 dicembre nel suo messaggio televisivo Berlusconi ha detto: “Vogliamo cancellare il complicatissimo sistema attuale di aliquote differenti, di deduzioni, di detrazioni e sostituirlo con un’aliquota unica del 20%”, cioè la Flat Tax, “la tassazione piatta che avevo già proposto con il professor Martino nel 1994 ma che mai ci era stato permesso, dagli alleati e dall’opposizione, di realizzare. Da allora 38 paesi l’hanno adottata tutti con ottimi risultati”, (Ansa).

Dal PD è giunta immediata la risposta: ci potrebbero essere problemi con i conti pubblici, Berlusconi non indica le coperture. Si vede che dalle parti di Largo del Nazzareno ignorano la curva a campana di Laffer, che con precisione mostra come le entrate fiscali, anziché diminuire con una riduzione della tassazione, aumenteranno. La logica è semplice: è vero, la riduzione delle tasse lascerà tanti più soldi nelle tasche di chi più né ha; per esser chiari: si tagliano le tasse a ricchi; ma niente paura: i soldi che i ricchi non pagheranno al fisco si tradurranno in nuovi investimenti e quindi in nuovi posti di lavoro, così il PIL crescerà e le entrate fiscali aumenteranno.

La teoria che sottostà alla curva di Laffer può essere considerata il volto buono dei neoliberisti. Più cruda l’altra corrente di pensiero: la teoria dell’ “affamare la bestia”. Lo Stato, cioè la bestia, è il problema non la soluzione, per dirla con Reagan. In questo senso l’obiettivo della riduzione delle tasse ai ricchi non è quello di aumentare la base imponibile ed accrescere le entrate, ma quello appunto di ridurla, al fine di affare lo Stato, privandolo di quelle risorse necessarie a finanziare lo stato sociale, l’assistenza, l’istruzione e la sanità pubblica, tutte istituzioni che, per l’ortodossia neoliberista, distorcono le leggi di mercato, soffocano gli animal spirits e premiano i fannulloni. E’ chiaro che la logica è quella del darwinismo sociale e di un calvinismo deteriore, una visione totalmente ideologica propria dei fondamentalisti di mercato. Una idea che ha trovato diritto di cittadinanza, e non solo, nella destra italiana, basti pensare alla logica dei tagli lineari alla spesa pubblica. E forse trova ancora diritto di cittadinanza, visto che la Gelmini continua a presentare Forza Italia come il partito anti-tasse3.

Ma ritorniamo alla Flat Tax: i tagli fiscali sulle aliquote più alte di reddito, dunque, si traducono in nuovi investimenti e nuovi posti di lavoro. E tanto più numerosi saranno i posti di lavoro quanto più incisiva sarà l’azione del governo Renzi nella riforma del mercato del lavoro (il Jobs Act). Via il vecchiume e il ginepraio di norme dell’ormai datato Statuto dei Lavoratori: anche i diritti invecchiano; e via quella selva di differenti aliquote che infesta il nostro fisco. Alla luce di ciò, non si capisce perchè il PD non faccia propria la proposta di Berlusconi: Flat Tax e Jobs Act è il binomio perfetto.

E’ francamente avvilente dover prendere atto di quanto sia ancora forte l’influenza del neoliberismo in Italia. La proposta di Berlusconi di una Flat Tax, infatti, è propria dell’ortodossia neoliberista, è anzi uno dei pilastri fondamentali su cui, da Reagan in poi, si è retto questo paradigma.

I risultati? Una catastrofe. La riduzione della tassazione sulla fasce più alte di reddito (persone fisiche e aziende) è all’origine dell’esplosione del debito americano ed è una delle cause di quelle disuguaglianze sociali, economiche e politiche che stanno corrodendo dall’interno le democrazie occidentali. Le letteratura sul punto è copiosa e credo che non vi sia più alcuno studioso serio che sostenga la validità di una tale soluzione. Inoltre, per quando riguarda l’Italia, è del tutto inutile perder tempo a dimostrare quanto un Flat Tax possa essere dannosa.

E perchè è inutile? Perchè in Italia c’è una Carta costituzionale che vieta una tassazione che si ispiri ad un principio proporzionale e bisogna esser gradi agli onorevoli del gruppo parlamentare della Democrazia Cristiana Luigi Meda, Piero Malvestiti, Amintore Fanfani, Giuseppe Lazzati, Laura Bianchini, Luigi Balduzzi, Gesumino Mastino, Francesco Murgia, Alessandro Turco, Antonio Ferrarese che nella seduta del 15 aprile del 1947 dell’Assemblea Costituente firmarono un emendamento nel quale era scritto: “I tributi diretti saranno applicati con criterio di progressività”; e bisogna esser grati all’onorevole Scoca (DC) che il 19 maggio successivo proposte all’Assemblea un articolo ispirato allo stesso principio: “tutti debbono concorrere alle spese pubbliche, in modo che il carico tributario individuale risulti applicato con criterio di progressività”.

Scoca il 23 maggio illustra in Assemblea il suo emendamento e ricorda come nello Statuto albertino, vi fossero delle disposizioni in materia fiscale, in particolare l’art. 25 “il quale diceva: «Essi (cioè i cittadini) contribuiscono indistintamente, nella proporzione dei loro averi, ai carichi dello Stato». Questa norma enunciava il principio della generalità e dell’uniformità dell’imposta, e lo collegava con la regola della proporzionalità dell’imposta stessa. Trattasi di una regola conforme alle idee dominanti nel periodo in cui lo Statuto albertino fu emanato”. Può essere utile precisare che per idee dominanti bisogna intendere il liberismo puro, o laissez-faire, vale a dire il padre del neoliberismo.

“In questo modo – continua Scosa – la distribuzione del carico tributario avviene non già in senso progressivo e neppure in misura proporzionale, ma in senso regressivo. Il che costituisce una grave ingiustizia sociale, che va eliminata, con una meditata e seria riforma tributaria”.

Quel principio è ora al sicuro nella “rocca della Costituzione”, per usare le parole di Meuccio Ruini, ed è l’art. 53: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Per inciso, vale la pena far notare che l’articolo è inserito nella parte prima della Costituzione, il che significa che non è modificabile dal legislatore ordinario. Dunque, una tassazione ispirata ad un principio proporzionale in Italia, per fortuna, è incostituzionale.

Si diceva in precedenza che la Flat Tax è solo uno dei pilastri su cui è costruito il paradigma neoliberista. L’altro pilastro consiste nello spazzar via tutta quella serie di provvedimenti e diritti con i quali si tentava di sottrarre la determinazione del prezzo del fattore lavoro (il salario) al libero gioco della domanda e dell’offerta, vale a dire fare in modo che il lavoro non fosse più considerato una merce e lo si è fatto fissando “protezioni e diritti alle condizioni del lavoratore stesso” e garantendo ai lavoratori una agguerrita protezione sindacale.

In questo modo si è riusciti a “vincere l’insicurezza (sociale) assicurando la protezione (sociale) di tutti o quasi tutti i membri di una società moderna, per farne degli individui che godono di tutti i diritti”. Quando si sono eliminate queste tutele e questi diritti, perchè incompatibili con il paradigma neoliberista, si è “deliberatamente ridotta la quota dei lavoratori socialmente definiti sicuri sul totale degli occupati”.

Eliminate queste paratie a protezione del lavoro, il mercato, produttore di disuguaglianze, ha potuto fare il proprio lavoro: “tra la metà degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta la disuguaglianza è aumentata in venti dei ventuno paesi membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, per lo più a causa di un aumento della disuguaglianza nella retribuzione del lavoro”. Il che significa che “sono i cambiamenti degli istituti che regolano il mercato del lavoro e le norme che promuovono una redistribuzione della ricchezza la causa principale della sperequazione sociale”. Se a ciò si aggiunge l’effetto regressivo di una tassazione di tipo proporzionale si ottiene il quadro preciso delle cause della crisi economica: mercificazione del lavoro e sperequazione sociale via tassazione proporzionale.

Il lavoro, dunque, non può e non deve essere considerato una merce, altrimenti si producono quelle disuguaglianze sociali ed economiche, in grado di fagocitare il mercato e la democrazia. E qui i “fondamentalisti del mercato” storceranno il naso: solo le leggi del mercato, dando il giusto prezzo ai fattori della produzione, possono garantire la perfetta allocazione delle risorse, scarse per definizione. C’è di più, per i fondamentalisti di mercato le disuguaglianze non sono affatto un male, ma un stimolo costante a migliorarsi, sono anzi il motore del progresso, ciò che garantisce la mobilità sociale: chi è in basso sognerà la vita di chi è in alto e dando il meglio di sé con il lavoro riuscirà a vivere la vita che sogna. Sono due punti importanti che è necessario confutare.

Il primo: il mercato dà sempre il prezzo giusto ai fattori della produzione, compreso il lavoro. E’ falso. In linea di principio si può dire che il lavoratore ideale per qualsiasi datore di lavoro è colui che fornisce il proprio braccio o la propria mente, con entusiasmo e dedizione, senza nulla chiedere in cambio. Il lavoratore ideale pertanto è colui che lavora gratis.

Il secondo: la disuguaglianza è stimolo costante al duro lavoro e al miglioramento. Nutre le aspirazione e le ambizioni e, a livello aggregato, è fattore di progresso. E’ falso. Chi sta in basso resterà in basso. Le disuguaglianze si ossificano e le società si frantumano in classi chiuse. Per fare un esempio: se solo l’accesso alle prestigiose università private dell’Ivy League in America è garanzia di alti salari, chi è povero ne è escluso, a prescindere dal talento, dalla ambizione e dal duro lavoro. Il che si traduce in una perdita netta per la società che si priva di un numero immenso di ingegni. Altro che progresso. C’è di più. Come ha dimostrato Piketty, al quale va inoltre il merito di aver provato, dati alla mano, come il mercato produca disuguaglianza, nelle fasce più alte al lavoro si sostituisce la rendita: ed il tasso di rendimento medio del capitale è superiore (r>g in un rapporto 5 a 1) rispetto a quanto rende il lavoro: “La concorrenza pura e perfetta non potrà recare alcun cambiamento alla disuguaglianza r>g, la quale non deriva in alcun modo da un’“imperfezione” del mercato o della concorrenza, se mai dal contrario”. Il che significa che per quanto possa lavorare senza sosta, chi sta in basso non riuscirà mai a raggiungere i rendimenti di chi vive della rendita del proprio capitale. Per inciso, le stratificazioni sociali si ossificano anche a livello politico con la nascita della dinastie, basti pensare ai Bush e ai Clinton negli Stati Uniti, che, dopo il “miracolo” di Obama, ritorneranno probabilmente a sfidarsi alle prossime elezioni presidenziali.

E’ solo grazie all’intervento di fattori extra-mercato come gli investimenti statali (scuola pubblica, sanità assistenza, ma anche il finanziamento della ricerca di base, anche non redditizzi nel breve periodo), il sindacato (il moderno tribuno della plebe, come lo definisce Luciano Pellicani) e i partiti progressisti che si è potuto alterare, a vantaggio dei più, le leggi di mercato ed impedire che le società aperte si trasformassero in oligarchie.

La questione ovviamente non è solo economica, ma anche politica ed istituzionale. In che senso? “Chi non lavora non magia”, le parole sono di Stalin. Ora, chi non mangia patisce la fame, quando la maggioranza dei cittadini patisce la fame accade un fenomeno particolare, già successo in passato: il cittadino è disposto a spogliarsi di tutte le sue libertà e a votarsi a chiunque gli prometta il pane, è così che il popolo diventa plebe e il cittadino un suddito ed è così che di solito nascono le tirannidi, siano esse di uno o pochi o di una maggioranza (oclocrazia).

Questa è la via che “da sinistra” conduce alla società chiusa: sono i poveri che invocano il tiranno. Ma vi può essere anche una via che “da destra” conduce ad una società che si va via via chiudendo: i vincitori della grande trasformazione (e i loro discendenti) tendono a chiudere l’accesso alla cittadella del comando al resto della popolazione: la proprietà sola – scrive Constant – rende gli uomini capaci di esercitare i diritti politici. Solo i proprietari possono essere cittadini. Ciò si rende necessario, continua Constant, perchè: “quando i non-proprietari hanno dei diritti politici, accade una di queste tre cose: o non traggono impulso che da se stessi e allora distruggono la società, o lo traggono dall’uomo o dagli uomini al potere e sono strumento di tirannide, o lo traggono da coloro che aspirano al potere e sono strumenti di una fazione”.

Pertanto, se è vero che il mercato è l’unico strumento in grado di produrre ricchezze delle meraviglie, è altrettanto vero che esso produce disuguaglianze e questioni sociali. Piketty è dello stesso avviso e lo scrive a chiare lettere: “il progresso dinamico di un’economia di mercato e di proprietà privata, se abbandonato a se stesso, alimenta importanti fattori di convergenza, legati in particolare alla diffusione delle conoscenze e delle competenze, ma anche potenti fattori di divergenza, potenzialmente minacciosi per la nostre società democratiche e per i valori di giustizia sociale su cui essi si fondano”.

Dunque, non pare eccessivo dire che è il liberismo, che fa del laissez-faire l’unica politica economica possibile, a trasformare un società aperta in una società chiusa.

Questa lettura, l’idea cioè che è il liberismo che conduce alla dittatura o ad una ingiusta divisioni in classi della società, è uno dei principi ispiratori di tutta la nostra Costituzione repubblicana, è presente nella parole (tra gli altri) di La Pira, di Dossetti, di Lelio Basso, di Fanfani, di Moro, di Togliatti e di Paolo Emilio Taviani che il 7 maggio del 1947, rispondendo alle critiche dei qualunquisti Maffioli e Colitto, secondo i quali il Titolo III sarebbe l’espressione di una concezione statolatrica, soffocatrice della persona umana, dice: “noi riteniamo che l’ordinamento sociale dell’economia abbia proprio il risultato opposto a quello che temono i nostalgici o i maniaci del liberalismo ad ogni costo; solo un ordinamento sociale, infatti, può evitare lo slittamento verso lo Stato totalitario, cui fatalmente finisce per condurre il non regolato esercizio delle libertà individuali. (…) non è il liberalismo puro, non l’accettazione supina del cosiddetto ordine naturale e economico che possono garantire la democrazia. Essi porterebbero fatalmente al totalitarismo”. Solo un ordinamento economico reso compatibile con le esigenze sociali, dunque, prevenire il sorgere della tirannide. Di qui quello che è il vero capolavoro della nostra Costituzione, vale a dire la costituzionalizzazione dei diritti sociali con una duplice funzione: estendere concretamente ai più quelle libertà liberali formali, sancite dalla costituzioni post-1789; bilanciare quelle libertà (proprietà privata e libera impresa) che, se lasciate senza briglia, rischiano di tradursi in monopolio e latifondo. Il fine è quello di risolvere la questione sociale che naturalmente il mercato produce.

In breve: una questione sociale non risolta genera il potere assoluto, il quale tende a soffocare ogni pluralismo politico ed economico. Il che significa che senza giustizia sociale né la democrazia né il mercato possono funzionare a lungo. Di qui la necessità di costituzionalizzare quei diritti sociali senza i quali né i diritti civili né quelli politici possono perdurare.

Nunziante Mastrolia

https://fondazionenenni.wordpress.com

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