lunedì 27 aprile 2015

QUELLO CHE NON HO



“Quello che non ho è quello che non mi manca”, cantava Faber. Invece a noi uomini e donne che stiamo attraversando il deserto ideale, progettuale, prospettico di questa nostra epoca svilita dall’animo commercialista che ha preso subdolamente e scientemente il posto dello spirito solidale, pensante, propositivo cosa manca? Forse molto o forse proprio poco.
Eravamo negli anni  ’90 nel post.tangentopoli, alle prese con una crisi finanziaria, ma non certamente economica, il cui significato e finalità sono apparse chiare solo a distanza di anni. Non so se in quel momento abbia prevalso la paura, l’incapacità, la smania di governare, la superficialità  o tutti questi elementi insieme.  Sta di fatto che, a seguito anche, di eventi di rilevanza mondiale, come  la caduta del muro di Berlino e dell’impero russo in primis, si è accettato, coscientemente o meno, che potesse esistere un solo modello di società e che fosse necessario accettarne le regole intervenendo al suo interno per migliorarlo e non più per cambiarlo. Si considerarono ormai come acquisite stabilmente  le conquiste e i diritti sociali di tanti anni di lotte e che, in un mondo con differente composizione sociale, il patto tra capitale e lavoro fosse ormai un dato immutabile .
Cominciò così una destrutturazione, ideologica prima che pratica, del bagaglio ideale, di lotta, di appartenenza che aveva contraddistinto i decenni post guerra. La struttura politica da verticale e piramidale  che era, si trasforma in orizzontale multistrato rendendo sempre meno permeabile nel doppio senso di trasmissione, un livello (sia sociale che politico) rispetto all’altro. Si scopre il bisogno della coalizione (logica maggioritaria) rispetto l’affermazione della propria identità. Si comincerà a votare “contro” anziché “per”. La militanza politica sfrondata dagli “inutili” orpelli ideologici diventa in gran parte opportunistica e autoreferenziale,. Si scopre, anche all’interno di un percorso politico simile o addirittura sovrapponibile che la competizione, la difesa del proprio personale fortino è indirizzata  quasi più verso i propri compagni, pronti ad insidiarne l’eventuale carica o poltrona, piuttosto che all’avversario, ormai  non più percepito come nemico. Il carrierismo politico diventa uno dei modi per la propria affermazione anche sociale e si sono cominciati a considerare “normali” anche gli intrecci discutibili tra interessi personali o lobbystici con personaggi e forze politiche. Tutto questo ha portato ad una disaffezione collettiva rispetto la politica considerata sporca a prescindere (spesso non a torto)
Quindi, ritornando a quello che non ho, forse è qualcuno a fianco che possa considerare compagno o fratello senza infingimenti, è la fiducia che difficilmente viene accordata o creduta quando la richiedi e ti mostri a mani aperte. Quello che non ho è la sensazione e la speranza che questo possa cambiare. Asserragliati nel proprio fortino di certezze ove la sfiducia e il sospetto sono di gran lunga superiori alla voglia di riconoscersi simili ci autocelebriamo costantemente, aiutati in questo dai nuovi mezzi di comunicazione messici a disposizione. I momenti di confronto vissuti sempre più come sfide all’Ok Corral, la sana e giusta indignazione indirizzata troppo spesso ai nostri vicini. Le giuste aspettative trasformate in pretese non mediabili, pena la solita, stanca e ripetitiva abiura e diffamazione pubblica mediatica.
Quello che non ho è un orizzonte utopico, magari lontano e irraggiungibile, ma collettivo e condiviso. Abbiamo permesso che ci fossero cancellati i sogni, abbiamo fatto la scelta del sacrificio rituale degli ideali immolati sull’altare del presunto realismo. Abbiamo permesso che questa realtà fosse dipinta da altri rinunciando a colorarne una nostra.

Quello che non ho è qualcuno che mi convinca che tutto ciò non sia vero.


MIZIO

mercoledì 8 aprile 2015

NON DIMENTICARE

ALLA CASERMA DIAZ FU TORTURA, FU INGIUSTIZIA, FU ORRORE!



Fa che il ricordo sia coltivato,
che ogni momento rimanga tuo.
Il presente non sia ponte interrotto
tra passato rimosso e futuro appaltato.
L'attesa ferma, il tempo sospeso
non fan sbocciare i fiori,
ne disegnano il ricordo
su rami sterili senza più colorii.
Il sangue è ancora più fresco,
nella memoria di quel momento,
dell'orrore che si fece Stato,
nella nudità di un disperante lamento.

MIZIO

lunedì 6 aprile 2015

IL BIVIO


E siamo arrivati al bivio, storicamente, politicamente, socialmente. Questo periodo verrà ricordato volenti o nolenti, nei libri di scuola, come un periodo di profonde trasformazioni. Quello che ancora non sappiamo è come saranno giudicate e valutate le risultanze che da questi cambiamenti deriveranno. Se dovessimo valutare le cose al momento attuale, dovremmo ipotizzare un arretramento complessivo della società conosciuta sino ad oggi.
Arretramento economico e conseguente impoverimento collettivo, arretramento sul tema dei diritti, soprattutto quelli del lavoro con qualche concessione sui diritti civili, decisa accelerata nel senso di uno “sviluppo con una forte connotazione neoliberista e consumista e con il ripristino, se non ufficiale nei fatti di una forte diseguaglianza classista.
Poveri sempre più poveri e legati alla ruota del bisogno in competizione tra loro per accaparrarsi qualche briciola di benessere, ricchi sempre più ricchi, potenti e padroni dei destini del mondo. L’unica differenza, ma sostanziale, rispetto il vecchio capitalismo classista del novecento l’irrompere in prima persona del capitalismo finanziario a scapito di quello imprenditoriale. Nei termini pratici e per i suoi effetti sulle masse cambia poco, ma nella valutazione e nella ricerca della soluzione possibile, potrebbe essere una differenza determinante.
Molti di quegli imprenditori che nei decenni passati erano il “nemico” naturale nelle rivendicazioni, oggi appaiono, se pur in posizione privilegiata, anche loro inseriti in un gioco più grande di cui non hanno le leve e di cui, spesso, rimangono vittime.
Questo impone una riflessione che non sia e non può essere solo di circostanza e limitata a convegni tra esperti. Inserendo poi, nel calderone delle necessità impellenti, quello di indirizzare lo sviluppo verso forme più rispettose dell’ambiente in cui viviamo e un utilizzo più razionale delle risorse naturali, delle fonti energetiche, delle risorse idriche e al tempo stesso garantire uno standard di vita accettabile per tutti, vediamo quanto sia complessa e ardua l’impresa di cambiare rotta.
Ma, proprio per l’emergenzialità di cui parlavamo inizialmente che, da questo punto, possiamo già considerare non inscrivibile nei vecchi schemi di lettura lo sforzo titanico che le forze d’opposizione debbono fare nel ripensare complessivamente la propria azione politica e il proprio modo stesso di rappresentarsi.
Alcuni hanno tentato già di farlo ma in maniera limitata e, comunque sempre con il vecchio vizio della difesa aprioristica della propria unica verità, legandosi e compromettendosi in scelte che apparivano e appaiono ai più, fondamentalmente legate a interessi personali o di parte. Altri si sono barricati nella difesa coerente e autorassicurante fin che si vuole, ma sterile per l’impatto sostanziale, della propria diversità e purezza ideologica.
Altri tentativi sono stati effettuati da forze politiche che si sono presentate come nuove (vedi il M5S) sfruttando principalmente la rabbia repressa della massa ma, in fondo, sterilizzandola in un’azione politica tesa più a magnificare se stessa che ai risultati che si sarebbero potuti ottenere. Io, comunque per inciso, sono tra quelli che non demonizzano i pentastellati, conoscendone molti sinceramente convinti di stare lavorando per un cambiamento sostanziale, ma dimenticandosi, purtroppo, che, prima di tutto, il cambiamento riguarda il proprio modo d’essere. Meno dispotico, più democratico all’interno e meno legato a figure carismatiche che, se pur necessarie all’inizio, poi rappresentano un freno all’azione politica vera e propria
Non sarò certo io a buttare a mare la lettura marxista dei conflitti sociali, ne dimentico le teorie gramsciane sull’egemonia culturale delle classi dominanti, ma a queste devo forzatamente legare altre chiavi di lettura e penso, ad esempio, ala visone eretica di un Pasolini, profetico per molti aspetti. Penso alle motivazioni che erano e sono alla base dei movimenti no-global, che non possono essere archiviate semplicemente con le immagini degli scontri del G8 o del 15  ottobre.2011 a Roma. Le tematiche, portate avanti e troppo spesso accantonate dalle stesse forze di sinistra che, avrebbero il compito storico, di indirizzare il cambiamento, le hanno  riportate, poi, ad un discorso spartitorio e correntizio delle dinamiche interne, meritavano e meritano, invece, una maggiore attenzione e una maggiore valenza nelle scelte che, forzatamente, si dovranno fare.
Allora, ricapitolando, non più e non soltanto operai contro padroni. Non più e non soltanto uno sviluppo e una crescita legata allo sfruttamento umano e dell’ambiente. Non più e non soltanto la difesa di un modello di società che vede nel consumo a prescindere la sua unica ragion d’esistere. Non più e non soltanto proposte politiche che siano legate esclusivamente a richieste di carattere economico. Per fare questo è necessario rivedere i propri capisaldi e individuare quelli che sono gli ostacoli e i “nemici” da superare. Non dobbiamo aver paura nell’identificare chiaramente nel potere finanziario il nemico numero uno che abbiamo di fronte e, conseguentemente, non aver timori nell’indicare l’attuale assetto della comunità europea, nella sua organizzazione e nelle sua finalità uno degli strumenti usati da questo potere per i suoi fini.
Se si vogliono cambiare le cose non si possono usare occhiali da presbite per guardare lontano o viceversa, quindi, senza tema di apparire antieuropeisti, dire chiaramente che questa Europa non ci rappresenta e soprattutto non rappresenta gli interessi (dati alla mano) della stragrande maggioranza dei suoi popoli. Non aver paura di contaminarsi nel cercare, su questi temi, alleanze e sponde che condividono questa visione (ovviamente non mi riferisco all’opportunismo di fascisti e/o razzisti) e segnatamente a quelle forze che, pur non strettamente politiche esprimono dubbi e critiche a questa società. Non posso non pensare, e non a caso, per restare all’attualità, alle dichiarazioni di Papa Francesco, che sembrano, spesso, uscite, da un vocabolario terzomondista del Novecento e di conseguenza con aperture a quel potenziale movimento religioso che, ad esempio in molti paesi dell’America Latina e dell’Africa si è dimostrato molto sensibile a determinati temi ed è protagonista del tentativo di riscatto sociale dei poveri di quelle aree. Così come non si può non pensare ad un coinvolgimento di tutti quei rappresentanti della piccola borghesia imprenditoriale e commerciale che è stata spazzata via dalla crisi e dallo strapotere finanziario. Certo, capisco e condivido in pieno l’attaccamento romantico e passionale per le lotte dei lavoratori, della bandiera rossa sventolata orgogliosamente in piazza, del sogno della rivoluzione proletaria. Tutte cose che ho condiviso e cui sono sentimentalmente e visceralmente legato ma che ho il dovere, pena l’apparire come il soldato a guardia deli bidoni vuoti,  di arricchire e riempire di contenuti e significati nuovi, non ultimo quello del superamento della disputa generazionale che questa società ci ha dato come lettura per distogliere lo sguardo dai veri temi sul tappeto. Il conflitto e la competizione generazionale è sicuramente un dato di fatto insito nella natura umana, ma non può e non deve rientrare nel nostro schema di lettura come fattore discriminante e fare dell’anziano o del giovane il proprio nemico.
E ritornando al bivio di cui all’inizio, noi possiamo essere protagonisti del cambiamento se convinti che questo sia necessario e, nel contempo, serenamente ma lucidamente riconoscere che, fino ad ora non siamo riusciti a rappresentare altro che la nostra impotenza e la nostra supponenza. Credo sia più che necessario cominciare a guardare dalle nostre parti per rimettere in piedi la baracca con scelte coerenti e conseguenti,  su cui cercare di far convergere più forze possibili senza discriminazioni ma anche senza diritti di primogenitura. Landini ha cominciato ad indicare una via, ma non può essere responsabilità e compito di uno solo, per quanto abile e capace, quello di operare cambiamenti radicali che devono, prima di tutto passare nelle nostre menti e nelle nostre coscienze. Se riusciremo a farlo saremo ricordati dai posteri come coloro che hanno sventato il rischio di una tirannia economica suicida ultradecennale, se continueremo a guardarci in cagnesco ad erigere steccati ad accontentarci di qualche seggio tanto per esserci, passeremo alla storia come la sinistra più inutile che si ricordi.
Ad maiora


MIZIO

domenica 5 aprile 2015

LE STORIE DEGLI SPAZI BIANCHI "VI ODIO E VI SPIEGO PERCHE’

"Spesso ci sono più cose negli spazi bianchi tra le righe, che nelle parole".

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Sul marciapiede vedevo solo gambe, scarpe e cicche di sigarette. Accovacciata nel grembo di mia madre non mi era concesso vedere altro. I ricordi sono sfocati, come la vista di quel tempo. Non capivo perché tutti camminassero  svelti e noi, invece, stavamo fermi, perché pochi si fermassero un attimo e molti di più, allungavano, invece,  il passo. La voce di mia madre era una cantilena che conciliava il mio torpore e  faceva dimenticare anche la fame.
La sera si tornava a casa. A casa? Un riparo fatto con gli scarti della società, in cui i buchi e le crepe erano rattoppati come le ferite, curate altrettanto malamente, dei corpi.
La notte il sonno era spesso interrotto dalle grida degli ubriachi, dala voce che voleva essere sommessa di mia madre che diceva: “No! Adesso no”, dai respiri e dai movimenti dei miei fratelli e sorelle che si stringevano non so, se più per il freddo o per la paura. Spesso si sentiva qualcosa di piccolo e veloce che con  le zampette solleticava il mio corpo ed io mi facevo ancora più piccola e speravo e pregavo di diventare invisibile specie quando  lo sentivo che si fermava ad annusare il mio respiro.
Crescendo non uscivo più con mia madre che mi aveva sostituito nelle sue braccia con una  sorellina più piccola.
Io rimanevo nel campo vicino casa, insieme ad altri bimbi più o meno della mia età tra roulotte che avevano visto giorni migliori, baracche che chiamavamo casa e mucchi d’immondizia che rappresentavano la nostra stanza dei giochi..
Quello fu il periodo forse più felice della mia vita, ero in compagnia, giocavo tutto il giorno, si rincorrevano i topi, gli stessi che di notte mi terrorizzavano camminandomi vicino e, spesso, anche sopra.
A volte approfittando della mancanza degli adulti salivamo sulla strada, arrampicandoci sulla ripida scarpata che chiudeva il nostro orizzonte. Tra la polvere d’estate e il fango d’inverno, la visione del mondo degli altri era comunque sempre un’emozione difficile da descrivere. La strada piena di macchine che sfrecciavano veloci rappresentava il confine non invalicabile, ma netto tra noi e gli altri.
Gli altri chi? Ma gli altri voi! Voi che ci degnate di sguardi impauriti e schifati, come se la miseria fosse una colpa. Voi che allontanate i vostri figli per paura che li mangiamo, voi che ci chiamate con disprezzo zingari. Voi che avete studiato e sapete leggere, voi che potete sognare futuri diversi, noi costretti, invece, a raccontare sempre la stessa disperazione. Perché voi avete tutto e io niente? Perché voi siete nel caldo tepore delle vostre case e io nel gelo invernale e nella fornace d’estate? Perché siamo diversi?
Avete forse voi scelto di essere ciò che siete? Ho forse sbagliato io qualche risposta nel concorso per la vita per essere finita tra i dannati?
Ero felice solo tra i miei simili e in qualche raro momento anche contenta e fiera di essere diversa.

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Purtroppo imparai presto, troppo presto, che la felicità non dura mai a lungo, soprattutto per i poveri. E venne il giorno che un conoscente di mia madre mi prese e mi portò vicino un semaforo lasciandomi in compagnia di una spugna e un secchio facendomi frettolosamente vedere il mio lavoro. Lavare i vetri delle macchine nel breve tempo che erano ferme al semaforo rosso, in cambio di qualche spicciolo. Cominciai che ero piccola, ancora troppo piccola per arrivare ai vetri e così, specialmente all’inizio, complice anche la vergogna, non riuscivo a svolgere bene il mio lavoro e i pochi soldi che qualcuno mi lasciava erano soprattutto per la pena che suscitavo nel loro animo. Nonostante tutto erano sempre molte di più le offese, le parolacce, i modi bruschi e sgarbati che non trovavano una ragionevole spiegazione nel mio sentire di bambina.
Anche così, comunque si cresce, cambiando semaforo e molti secchi, diventando più abili, veloci e convincenti nel chiedere un’ offerta. Qualcuno, che passava tutti i giorni, a volte si fermava per lasciare vestiti dismessi dai propri figli che a me sembravano, però, degni di una regina.
Le scarpe erano a volte un po’ piccole e i vestiti un po’ grandi, o viceversa, ma non importa. Vestita cosi, potevo somigliare a voi.
E, oltre che a voi, cominciavo a somigliare sempre più ad una piccola donna pur nella pochezza dei miei anni. Le trasformazioni del mio corpo, le sensibilità acuite dei miei sensi e, evidentemente, anche di alcuni di quelli fermi al semaforo cambiarono, in parte, i miei rapporti con loro.
Al disprezzo e alla pietà dei molti si affacciava una curiosità interessata da parte di alcuni.
“Quanti anni hai?”  “Ti piacerebbe fare un giro in macchina?” “ Vieni con me e ti compro un bel vestito.” Per arrivare via via a proposte sempre più esplicite cui potevo, finalmente ed orgogliosamente, rispondere no, ed essere io a esibire il mio disprezzo.
Confidatami con alcuni amici al campo, si decise che era ora, ormai, che diventassi grande a tutti gli effetti. I miei genitori si accordarono con la famiglia di un ragazzo poco più grande di me e combinarono il nostro fidanzamento. Io non sapevo se essere felice o meno, sicuramente ero confusa. Troppo brusco il passaggio da ragazzina a promessa sposa con tutti gli obblighi del caso che si intrecciavano alle mille paure e dubbi.
Lui era carino e, per quanto possibile in quell’ambiente, anche gentile. Ci vedevamo poco, solo la sera, perché nel frattempo io andavo con altre mie coetanee, a chiedere l’elemosina fuori i supermercati o alla fermata del tram. Alcune avevano imparato ad approfittare della ressa e della confusione per arraffare qualche portafoglio a qualcuno particolarmente distratto. Io non riuscivo a farlo, ma non condannavo neanche quelle che lo facevano. Era troppo il rancore che provavo nei confronti  della vita che mi aveva negato l’infanzia, strappato l’adolescenza e mi stava legando ad un futuro non scelto  per essere solidale con chi, ai miei occhi, dalla vita aveva, invece, avuto tutto.
Se la mia infanzia, la mia adolescenza e la mia vita futura non vi sembrano motivi sufficienti a giustificare il furto o l’appropriazione di un qualcosa che, per voi , può essere considerato superfluo, pensate alle vostre reazioni quando vi sentite vittime di un’ingiustizia. Pensate all’odio che provate per un collega che ai vostri occhi appare meno meritevole di voi e ottiene una promozione. Pensate alla vostra rabbia quando un vostro figlio viene dileggiato ingiustamente. Guardatevi quando qualcuno  vi rovina minimamente, la vostra lucida e preziosa auto. Pensate alle guerre e alle stragi che la vostra società civile ha perpetrato ai danni di popoli interi, primo fra tutti il mio, giustificandole con “questioni di principio” o religiose.
Quindi se io non provo rimorso, se invidio la vostra vita e, se forse vi odio, ora sapete perché e qualcuno potrebbe persino capirmi!


MIZIO