sabato 23 luglio 2016

LA PAURA CI FA DEBOLI!

Risultati immagini per attacchi terroristici

Il primo atto da fare è prendere atto che qualcosa è cambiato e pure rapidamente. Tutto ciò che era stato costruito dalle generazioni precedenti (in particolare nei paesi occidentali) in materia di democrazia, difesa del più debole, di inclusione sociale è stato prima messo in discussione, e poi progressivamente spazzato via. L'arma ideologica utilizzata, quella della globalizzazione economica e della speculazione finanziaria, ha messo in competizione i disperati di tutto il mondo in nome del profitto. Operazione non calata dal cielo, nè scritta nel destino dell'umanità. Ma scelta consapevole di una lobby, questa si globale, che fa dell'adorazione del profitto e dell'esercizio del potere assoluto (in questo caso finanziario) la propria religione da servire e onorare con i propri sacerdoti. Imprenditori, politici, economisti, giornalisti e prezzolati di tutte le risme.
I conflitti, anche se non combattuti con le armi (ma non mancano assolutamente neanche quelli, anzi) stimolano e motivano ovviamente reazioni da parte sopratutto di chi coltivai lo stesso disegno egemonico (sia pur con matrice apparentemente diversa) e preparano il terreno per uno scontro di potere.
Liberismo economico e fondamentalismo islamico alla fin fine sono più simili di quanto si possa credere. Entrambi puntano all'annichilimento dell'essere umano e della sua libertà. Da una parte si utilizzano mezzi più "democraticamente accettabili" e "puliti", dall'altra si bypassano i passaggi intermedi per arrivare direttamente al risultato finale.
L'angoscia e l'impoverimento di centinaia di milioni di disperati creati da questo sistema sono il substrato ideale per chi, invece, molto più semplicemente, ne indirizza, utilizzando la religione come molla, la rabbia e la disperazione contro i suoi simboli e i suoi rappresentanti.
Il terrorismo finanziario ed economico miete le sue vittime facendole morire lentamente, togliendo loro speranza e alimentando l'angoscia per il domani. (E solo chi ha vissuto questi sentimenti può capire l'abisso di paura e disperazione in cui si precipita e da cui, spesso, se ne esce con soluzioni estreme).
L'altro è, per certi aspetti, di più facile comprensione, puntando a mietere direttamente vittime inconsapevoli e spargere terrore diffuso ponendo, tra l'altro le basi per altrettante reazioni rabbiose, razziste e xenofobe.
E' un ginepraio da cui non è facile nè scontato che se ne possa uscire, ma che, comunque, ci mette di fronte la domanda che da sempre accompagna i periodi di forte tensione e apparentemente insolubili: Che fare?
Ovviamente, non sono assolutamente in grado di offrire risposte, ma credo che già riconoscere la stessa impronta egemonica in entrambe le componenti prese in considerazione, possa essere un passo avanti. Passo che ci porta inesorabilmente a quello successivo, il riconoscimento che tutta l'umanità è sotto attacco inconsapevolmente (di cui una parte con le armi) e che limitarsi alle condanne estemporanee non risolve e non aiuta la comprensione.
Abbiamo fortemente urgenza di una terza via. Quelle del secolo scorso appaiono oggi, non certamente sbagliate, ma sicuramente insufficienti a offrire risposte che non siano settoriali. Potrebbero diventare una buona base se innervate e arricchite dalle visioni forse utopiche ma necessarie dei movimenti no-global del nuovo millennio. Rivedere i rapporti tra capitale e lavoro è necessario ma è altrettanto necessario farlo all'interno di una visione che veda la salvaguardia del pianeta e dell'umanità tutta. Quindi lotta ai fondamentalismi di qualsiasi genere siano essi finanziari, politici o religiosi. Impegno per il perseguimento e l'allargamento delle coscienze che vanno sottratte al populismo e alla rabbia. La redistribuzione di beni e diritti all'interno di un riequilibro complessivo dell'economia e dell'utilizzo delle risorse naturali, deve essere la linea guida di qualsiasi forza, partito o movimento che voglia sfuggire a questa logica fuorviante di scontro fra civiltà.
Ci vogliono paurosi e rancorosi, riproviamo ad essere protagonisti e propositivi.
Ad maiora


MIZIO

lunedì 18 luglio 2016

PEPE'N, GLI ARABI E LO STUDENTE

"Spesso ci sono più cose scritte tra gli spazi bianchi che nelle parole"


Molti anni fa, giovane studente squattrinato, sentivo forte la naturale esigenza di conoscenza e la susseguente voglia e necessità di viaggiare. In casa vigeva un accordo, sottoscritto da me già dai tempi del liceo. Io avrei avuto garantiti dai miei vitto e alloggio per tutto il tempo necessario per completare gli studi, ma per tutto il resto libri, abbigliamento e tempo libero avrei dovuto provvedere in prima persona. Quindi l’estate, che per molti miei compagni era sinonimo di vacanze, mare e serate tirate fino a tardi, per me e qualche altro “fortunato” iniziava la forzata conoscenza del mondo del lavoro. Ho avuto modo di lavorare inizialmente come manovale in cantiere (rigorosamente in nero e in costruzioni abusive), ai mercati generali come tutto fare, conoscendo la fatica fisica  e maturando istantaneamente la convinzione che avrei fatto del tutto per evitare che quello potesse diventare il mio destino. Ma per fare in modo che ciò non si verificasse, avrei dovuto sacrificare le mie estati per garantirmi il famoso pezzo di carta e, forse, un futuro meno gravoso.
Rimaneva il fatto, però, che, anche se sacrificavo coscientemente le giornate estive, qualche gita al mare, qualche serata al pub, non riuscivo, però, ad accettare serenamente il fatto che la mia condizione di figlio di proletari mi negasse la possibilità di viaggiare e conoscere il mondo fuori del consueto recinto. Allora non c’era l’ Erasmus, ma c’era la Rail Europe Junior, una tessera ferroviaria riservata ai giovani che permetteva di viaggiare in tutta Europa a prezzi abbordabili. Quindi, quasi risolto il problema del viaggio rimaneva da risolvere la questione della sopravvivenza, vitto e alloggio. In questo mi aiutò un incontro casuale con un amico che sarebbe partito per la Francia per imparare la lingua e che si impegnò a farmi  sapere se c’era la possibilità, anche per me, di usufruire del suo appoggio logistico e magari, anche di trovare un lavoro. Fortunatamente, entrambe le questioni ebbero un esito positivo e, con la mia tessera ferroviaria nuova di zecca in mano, partii per Toulouse, bellissima città del sud della Francia ai piedi dei Pirenei, Soprassedo sulle difficoltà che un diciassettenne, mai uscito dai patri confini e con solo un pessimo inglese scolastico a supporto, possa aver trovato per arrivare, non  nella più famosa città, ma in un paesino dell’hinterland,  Colomiers. Cittadina famosa per l’industria aeronautica che proprio lì costruiva i Mirage e i Concorde, orgoglio nazionale dei cugini francesi.
Comunque, non si sa come e in maniera fortunosa, riuscii ad arrivare.
La sistemazione logistica era una stanza in comune con il mio amico presso la casa parrocchiale della locale chiesa, in coabitazione con  il parroco, un giovane non molto più grande di noi e, come ebbi modo di appurare in seguito, molto più dedito alla cura delle giovani parrocchiane che a quella delle anime dei fedeli.
L’indomani mi presentai al posto di lavoro che mi era stato trovato presso una fabbrica di mangimi per animali. Mi accolse Pepen un emigrante d’origine veneta il cui nome era una storpiatura adattata al francese del nome originario, già modificato di suo, di Peppin. Mi fu illustrato brevemente il tipo di lavoro, la paga (che per me rappresentava un piccolo tesoro) e il contratto. Ah no, il contratto no, anche in Francia in quei tempi si lavorava tranquillamente in nero. Feci, quindi, il mio trionfale ingresso in fabbrica e cominciai la conoscenza dell’ambiente lavorativo. Pieno di polvere in sospensione, che costringeva a lavorare con la mascherina e con una puzza simile a quella che si può sentire in un capannone di un pollificio. Cominciai anche la conoscenza dei miei compagni di lavoro. Qualche italiano, qualche spagnolo, ma la maggior parte di origine magrebina. Di  operai francesi neanche l’ombra.
Eravamo, probabilmente, l’equivalente di quelli che sono oggi gli extracomunitari per noi. Poveri cristi da sfruttare in lavori sottopagati che i locali non avevano più interesse a fare. Per fortuna non c’era, all’epoca, l’equivalente francese di Salvini, per cui , oltre il lavoro infame, non c’erano manifestazioni d’intolleranza razzista. Il lavoro era duro, scandito dal continuo “Vit vit. Vit vit” di Pepen che, nel suo francese approssimativo stimolava continuamente alla velocità.
Nelle pause per il pranzo, una classica baguette imbottita, si fraternizzava con gli altri operai. Molti erano stupiti del fatto che giovani studenti romani, quindi non i classici emigranti italiani, si trovassero lì per scelta e non per costrizione.
Conobbi storie di estremo disagio, altre di relativa soddisfazione per il raggiungimento di una serenità conquistata, anche se a molti chilometri da casa.
Quelli, però, che incuriosivano di più erano gli arabi presenti. Fino ad allora la mia conoscenza di quel mondo era limitata a quel poco che si studiava a scuola . A letture occasionali infarcite di luoghi comuni e alla occasionale frequentazione di alcuni palestinesi con cui si era in contatto per motivi politici.
La prima difficoltà fu superare la barriera di diffidenza che, nonostante loro fossero considerati francesi a tutti gli effetti in quanto provenienti da ex colonie, si avvertiva nel clima che respiravano fuori dalla fabbrica.  Un senso di separatezza per le abitudini,  la religione, i costumi vissuti con ipocrita tolleranza da gran parte della popolazione  locale. Tendevano, quindi, a far gruppo a sé. Ma questo, in verità, riguardava anche gli altri gruppi etnici che erano portati quasi naturalmente, a ritrovarsi tra loro anche nel tempo libero. Facevamo eccezione io e il mio amico che, non avendo legami o prospettive di lungo respiro in quel posto, eravamo svincolati dalle nostalgie tipiche dell’emigrante classico. Noi non dovevamo rimpiangere malinconicamente la nostra terra d’origine. Saremmo tornati , e pure abbastanza presto. Avevamo, quindi, l’atteggiamento aperto e disponibile di curiosi esploratori dell’anima e dei sentimenti umani.
In fabbrica loro erano soggetti a facili ironie e a scherzi fatti di finti inseguimenti minacciosi brandendo fette di prosciutto da cui, alcuni di loro, fuggivano atterriti.
Mai, però, vidi in loro un risentimento o un’avversione particolare, anzi sembravano compenetrati nel ruolo di distaccati osservatori di inutili giochi fanciulleschi.
Il ghiaccio, fra di noi fu rotto definitivamente quando, un giorno, ci si incontrò sulla strada per andare in fabbrica e ci offrirono un passaggio sulla loro macchina. Una mastodontica Mercedes che aveva visto sicuramente tempi migliori, con il cambio a tre marce, che, sinceramente, non sapevo neanche esistesse.
Da allora divenne una piacevole abitudine giornaliera. Ci risparmiavano la fatica di andare al lavoro a piedi e ci si permetteva di approfondire la conoscenza reciproca.
Conoscenza e confidenza che li portò da lì a poco, ad autoproclamarsi nostre guide ufficiali e nostri compagni nel tempo libero. Ci portarono alla scoperta e conoscenza delle bellezze della città e di locali particolari dove si poteva mangiare con poco e, magari, anche ascoltare buona musica. Scoprimmo che, per alcuni di loro la religione era un fatto fondamentale su cui era bene non scherzare troppo, mentre altri potevano tranquillamente rientrare nelle tante categorie presenti un po’ dappertutto, agnostici, disinteressati o, addirittura atei.
Se la parola non fosse troppo impegnativa, visto il breve periodo trascorso insieme, ci potevamo definire addirittura amici.
Avevamo, in poco tempo, superato quella barriera di diffidenza reciproca e anche quel tanto di snobismo e di  morbosa curiosità che spesso ci fa esaltare maggiormente le differenze, rispetto invece, al tanto che ci accomuna come esseri umani.
Imparammo, anche a rispettare il loro atteggiamento di profondo disagio e imbarazzo nell’affrontare il discorso del rapporto tra i sessi. Strozzati come erano, dal dovere di rispettare tradizioni consolidate, e la voglia di abbandonarsi ai più liberi costumi locali.
Arrivò rapidamente la fine di quell’esperienza,. Fummo pagati, ovviamente senza busta paga, in maniera forfettaria ma più o meno con la cifra che si era pattuita inizialmente. Quel tesoro mi doveva permettere di fare il turista per un altro periodo e di riportare un gruzzoletto a casa per rispettare l’impegno preso con i miei, ma non ci negammo una serata d’addio a base di cous cous, narghilè e tanta malinconica allegria.
Nel salutarci ci chiesero l’impegno di ritornare e rivederci l’anno successivo. Dicemmo di si, mentendo sapendo di mentire.
Dall’anno successivo grazie al diploma preso nel frattempo, i miei giri per l’Europa li avrei pagati facendo supplenze negli istituti di lingua e cultura italiana per i figli degli emigranti all’estero.
Ma questa è un'altra storia.

MIZIO   
     

   

sabato 9 luglio 2016

LORO, NOI E VOI!



Una politica che diventa operazione contabile e sbaglia pure i conti. Una sinistra che non indica più una via ma diventa retorica narrazione di se stessa e della propria impotenza.
"Il sonno della ragione genera mostri". Quelli della porta accanto che ci piace pensare vengano lontano da noi. Ora è facile commuoversi, indignarsi, condannare, ma siamo sicuri sia sufficiente? La retorica del dolore può essere altrettanto dannosa dell' incitamento all'odio. La politica! La mia politica deve ridiventare protagonista. Rivoluzionaria nel senso più nobile del termine. Capace di rivoltare le coscienze prima che le piazze. Smetta di essere ragioniera e ritorni ad essere filosofia, scienza del possibile capace anche di immaginare utopie. Siamo sicuri che le "fondamentali" differenze che ci hanno portato a dividerci, a guardarci in cagnesco anche tra vicini ormai da molti anni, e a cui siamo visceralmente attaccati, siano così diverse nelle motivazioni di chi vede il nemico nel diverso a prescindere? Non sembra che il sentimento collettivo ormai sia quello del cercare e trovare il nemico ad ogni costo?
Cosa può fare la politica, cosa deve fare la sinistra?
Magari saperlo! Intanto rimettersi in discussione. Non rimanere arroccati nel proprio castello di certezze sempre più cadente e prossimo al collasso. Ricominciare a parlare di cosa vorremmo e dovremmo fare. La spocchia nel giudicare e condannare le altrui scelte e azioni lasciamole ai mestatori di professione. Noi possiamo e dobbiamo dimostrare di saper fare di più. Spezzare i legacci che ci vogliono comunque legati ad una concezione da amministratore di condominio. L' economia ritorni ad essere uno strumento e non venga spacciata come scienza. Il fine del tutto non può essere che l'essere umano non un attivo di bilancio. Continuare ad inseguire il mito dei conti in ordine e avere milioni di persone che muoiono per guerra, per fame, per cattiveria, per ignoranza, un mondo sempre più maltrattato, violentato e sfruttato avrà come unico risultato finale il deserto. Prima quello dell'aridità sentimentale che, in parte, stiamo già vivendo, poi quello solo immaginato negli incubi peggiori!
Forse siamo ancora in tempo. Fuck the system, fuck fascisti, fuck Salvini e leghisti. Cambiamolo questo schifo di mondo!
Lo dobbiamo anche a Emmanuel e Chimyery.
Ad maiora


MIZIO

martedì 5 luglio 2016

IL PROBLEMA E' CHI GUIDA!

Molti incidenti stradali sono causati da imprudenza, alta velocità, guida in stato di ubriachezza o sotto l'effetto di droghe. In base a questo nessuno si sognerebbe di vietare l'uso della macchina a tutti indiscriminatamente ma si adottano, giustamente, pene e sanzioni per chi si rende responsabile di tali comportamenti. Ora, se paragoniamo la democrazia all'automobile e i partiti ai guidatori, nel sentimento comune oggi, si addossano al mezzo le responsabilità che non sono proprie. Senza voler ricordare che la Costituzione (la più bella del mondo che tutti diciamo di voler difendere) attribuisce ai partiti la titolarità di rappresentare la democrazia dei cittadini, assistiamo ad una gogna mediatica che, bypassando analisi e responsabilità tutti accomuna in un unico giudizio che non lascia scampo. I partiti sono vecchi, vanno superati, sono, corrotti (tutti) immorali, frequentati dagli esemplari peggiori del delinquere nazionale. Ecco poi, il successo di movimenti che si chiamano fuori dallo schema classico dei partiti,  e, spesso, anche delle forme democratiche. Con la libertà assoluta di poter dire tutto e il contrario di tutto data dal loro apparente non schieramento o appartenenza.
Diciamo subito che alcuni partiti (guarda caso in genere quelli più votati e rappresentativi, nulla  o poco, hanno fatto per non essere considerati come covi d'interessi privati più che pubblici, ma sono stati, comunque, legittimati nel loro operare dalla democratica espressione di voto. Quindi il problema andrebbe spostato su chi li ha scelti come propri rappresentanti, in soldoni su tutti noi.
Sappiamo che il popolo italiano subisce il fascino del pifferaio di Hamelin, dell’uomo della provvidenza. Badando, in linea di massima, più ad un’esteriorità gestuale e istrionica del messaggio che ai suoi contenuti, godendo di pancia piuttosto che di testa. Salvo poi, a fronte dell’evidenza, ricredersi diventandone il più severo e crudele censore.
Così sono passati i Mussolini, La Democrazia Cristiana, Craxi, Berlusconi, e passeranno i Renzi , i Salvini , i Grillo & co.
Quindi spostare l’attenzione sulla forma partito, minimale e insufficiente secondo alcuni, esaltando il ruolo dei movimenti (necessari, indispensabili, ma non alternativi) crea di fatto quel vulnus democratico che lascia spazio alla disaffezione, alla critica preconcetta, al seguire le maree dell’istant time e che perdono di vista un’ipotesi complessiva di ordine sociale.
Come già detto gran parte delle responsabilità non possono essere che addossate a chi ha permesso per supponenza, superficialità, interesse che tale sentimento sia stato condiviso da una maggioranza più o meno cosciente e consapevole. Si è parlato, e si  parla molto, di abbandono del modello novecentesco, come fosse quello lo snodo da cui ha avuto origine il male. Mentre nella mia lettura meno elaborata e che vola decisamente più bassa, quell’abbandono repentino, quella rottura improvvisa e traumatica è uno dei motivi dell’attuale momento di difficoltà.
I partiti novecenteschi (chiamiamoli così per comodità) oltre una loro visione di società e di organizzazione della stessa, erano portatori, con la loro presenza capillare, con le loro strutture consolidate di valori condivisi e condivisibili e, l' aderenza a quei valori, permetteva loro, ad esempio, l’espressione di una classe dirigente sentita, sicuramente più vicina e attenta ai bisogni del proprio popolo. Il cambiamento, che era ovviamente, ed è sempre necessario, si è basato esclusivamente su un bilancio da cui sono state tenute fuori alcune voci come la fidelizzazione, l’organizzazione dal basso, la formazione culturale di una classe dirigente, il mantenimento dell’utopia o del sogno come motore e stimolo per il coinvolgimento emotivo, tutte cose estranee in gran parte alla forma movimento e nuova che si vorrebbe alternativa al partito classico.
Non a caso coloro che maggiormente rappresentano il legittimo desiderio di cambiamento, lo stesso lo presentano come rottamazione, riaprendo ogni volta nuovi capitoli destinati a chiudersi sempre più in fretta basandosi su volti, nomi, circostanze legate a momenti di respiro corto e poco lungimirante.
Ci si accapiglia per lo 0,5 % in più o in meno e si trascura il 50% che non partecipa più, si innescano polemiche infinite su apparentamenti e comunanza d’interessi legate a specifiche situazioni, dando loro valenza nazionale e assoluta. Si parla in ambiti sempre più ristretti perché non si ha molto di più della propria parola da offrire ad una platea, eventualmente, più vasta. Gli obbiettivi diventano sempre più minimali, limitandosi speso a dichiarazioni d’intenti e a peculiarità etiche, morali di facile recepimento ma senza ambizioni e disegni di cambiamento complessivo.
Ogni cambiamento che voglia avere un respiro ampio e per certi aspetti, rivoluzionario, deve tenere forzatamente in considerazione anche il percorso pregresso, per migliorarlo, per renderlo attuale e recepibile anche dalle nuove e meno nuove generazioni.
Le fratture traumatiche, il buttare l’acqua sporca col bambino dentro, hanno forse, creato più danni che benefici. Ci vorrà tempo ma, se riusciamo ad uscire dal ragionamento minimalista, e a riappropriarci di un’identità visibile e percepibile ai più con uno sforzo, non dialettico ma d’azione e presenza continua, riallacciando i fili con le situazioni di marginalità, indirizzando un sentimento comune di rabbia o rassegnazione verso una speranza di cambiamento collettivo, forse un ruolo ancora lo potremmo avere. 
Partiti e movimenti, ognuno nel proprio ambito e ruolo.
Ad maiora


MIZIO

lunedì 4 luglio 2016

VITTIME SI, MA QUALI?

Risultati immagini per attentato DACCA

Cordoglio infinito per le vittime e condanna senza appello per chi e' autore di tali efferati attacchi terroristici. Nessuna giustificazione o comprensione ma il tentativo di capire va fatto al di fuori di semplici letture in cui ci sono semplicemente il noi e il loro. Noi i buoni, ingenui, comprensivi. Loro i cattivi, bruti, fanatici e pazzi sanguinari. Se devo pensare ad un accostamento tra vittime non posso fare a meno di pensare ai milioni di lavoratori impegnati nella lavorazione del tessile in Bangladesh. Costretti, minori e non, a lavorare in condizione di semischiavitu' per le aziende del settore tessile in gran parte occidentali. Anche gli italiani, vittime, erano imprenditori del tessile, a Dacca per lavoro. Immagino, quindi, per contratti e commesse tese al minor costo e al massimo profitto. Non sarà quindi la globalizzazione, lo sfruttamento, un'economia cinica in cui impera il "pecunia non olet" a rappresentare il substrato in cui trovano spiegazione e habitat anche le efferatezze più disumane? Siamo sicuri che i carnefici siano solo quelli che ammazzano con le armi e non, anche, coloro che delegano il lavoro sporco di sfruttamento e disumano per il proprio interesse? Il mondo è talmente complesso che è estremamente difficile tracciare un confine netto tra vittime e carnefici e nessuno può dirsi estraneo e innocente a priori. È un mondo da cambiare in profondità, non bastano piccoli ritocchi di maquillage. Cominciamo da noi, dall'Italia, dall'Europa.


Ad maiora