I
media ci raccontano di 33 milioni di italiani in vacanza. Da quello che vedo
intorno sembrerebbe una cifra un po’ gonfiata, ma forse, inserendoci dentro
tutti, anche quelli che vanno via per un fine settimana e quelli che partono
per una visita parenti a costo zero, o quasi, forse ci siamo. I media, in
questo periodo, pongono l’attenzione su quelli che partono. Fa parte del
corollario classico dell’informazione di questo periodo, insieme ai bollini
neri delle partenze, ai consigli per combattere la calura e le insidie degli animali
“pericolosi”.
Io,
invece, vorrei invitare a volgere lo sguardo laddove, spesso, si tende invece,
a distoglierlo, se non per articoli di costume e denuncia che lasciano il tempo
che trovano.
Insomma
su quelli che restano. Alcuni perché obbligati dal lavoro, altri per scelta,
molti, troppi, però perché non possono permetterselo. Si dirà: è così, è sempre
stato così, c’è chi può e chi non può e non possiamo certo colpevolizzare
quelli che possono. Lungi da me tale impostazione, la mia non è una visione
manichea e calvinista della questione. Il “carpe diem” è sempre valido e non
sarò certo io a condannarlo, vorrei soltanto soffermarmi su quello che è il
nostro (e per nostro intendo, gente di sinistra, impegnata, molti, anche, con
compiti di dirigenza) atteggiamento complessivo, che in questo periodo
raggiunge l’acme della contraddizione e, per certi aspetti, dell’ipocrisia.
Ovviamente è una riflessione che ha un carattere generale, non indirizzata a
tizio o caio, reputando la libertà collettiva e individuale sempre come la
massima conquista dell’essere umano.
Se
nel corso dell’anno, grazie all’attivismo, alle vicende che ti prendono, agli
impegni stringenti, alcuni aspetti seppur presenti, tendono ad essere tenute ai
margini, in questo periodo emergono in tutte le loro valenze “negative” e
inducono alla riflessione.
Una
grossa spinta ad affrontare questo aspetto è venuto dai social che rimbalzano e
amplificano qualsiasi cosa.
Dopo
le esternazioni dell’On. Sannicandro (immagino, persona degna e compagno
stimabile), vedo che tutti continuano a pubblicare foto di viaggi, soggiorni,
località esotiche, capitali culturali, e altro. Tutte cose, comunque, non alla
portata di tutti e che, con quelle dichiarazioni, per certi aspetti, vanno a
braccetto.
Mi
si potrà contestare: “Ma questa è invidia sociale!”
Forse,
certamente c’è anche questo aspetto, ma è sicuramente secondario rispetto a
quello principale che vorrei evidenziare.
In
questo periodo storico in cui la politica, i partiti e i suoi rappresentanti
per ben oltre la metà degli elettori rappresentano il male assoluto, forse
sarebbe il caso di adottare un riservatezza e una discrezione maggiore nei modi
e nelle forme comunicative.
Non
si può (ritorno sul tema) parlare di disagio, di ritorno nelle periferie, e poi
farsi immortalare in luoghi e situazioni che più si addicono ai moderni parvenu
sociali rilanciando il tutto sui social per prendere i like dei propri
sostenitori.
E
questa critica vale per tutti, nessuno si senta escluso per la sua (vera o
presunta) maggiore radicalità nelle scelte politiche.
In
un periodo di disaffezione quasi totale, di populismi coltivati ad arte, con lo
sforzo e l’ambizione di voler costruire un partito di sinistra che rappresenti gli ultimi e i penultimi della scala sociale,
questa incapacità di lettura, fa riflettere seriamente sui guasti prodotti da
un certo modo di fare e considerare la politica. Non è un invito populista e
nemmeno un invito al pauperismo bigotto e peloso ma un necessario ripensamento
sui nostri modi di essere, di rapportarci con la società, i suoi disagi e i
suoi drammi. Basterebbe aver seguito un minimo ed elementare corso di
formazione sulla comunicazione per capire che per bilanciare l’effetto di un
solo atteggiamento negativo c’è bisogno di almeno sei o sette avvenimenti
positivi. In questi ultimi anni a sinistra, mi sembra, senza voler essere
pessimista o ipercritico che il rapporto sia stato più o meno l’esatto
contrario.
Certo,
molti penseranno, e giustamente, che questo è un punto di vista molto limitato,
limitante, e anche prevenuto, ma se non impareremo a gestire e rendere
leggibili, comprensibili neanche i nostri piccoli atteggiamenti, come possiamo
immaginare di rendere patrimonio collettivo il frutto delle nostre
interessanti, infinite ma stucchevoli disquisizioni strategiche?
Come
già detto in altre occasioni, sembra che manchi, quasi volutamente quel fiuto
politico, quella capacità che, anche in
maniera opportunistica, riesca, comunque a legarsi e a interpretare un
sentimento collettivo.
Manca
un leader? Manca un partito? Manca una strategia?
Non
lo so e non sta a me dirlo.
Quello
che so è che molti di quelli che rimangono a casa (per i fortunati che un tetto
lo hanno) e tutti quelli che abbiamo paura anche a noi a chiamare poveri, sono sempre
più soli in balia di disperazione e facile preda di opportunismi e clientele.
Vedete
un po’ voi cosa volete e potete fare!
Ad
maiora
MIZIO
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