La
governabilità legata alla stabilità è il nuovo (ma mica poi tanto) mantra che
anima le scelte e gli indirizzi della politica negli ultimi decenni. Inseguito
e sollecitato soprattutto dalla classe imprenditoriale, da quella finanziaria
che vedevano, e vedono, nella rappresentanza e nella conseguente dialettica, un
freno a quelle che sono considerate le loro priorità. Priorità indicate sempre
sotto la lente di parametri e interessi economici che quasi mai vanno a
braccetto con un sentimento di equità e giustizia.
La
presunta superiorità del sistema maggioritario (meglio se bipolare o,
addirittura, bipartitico),è legata a quell’altro mito della sua altrettanto
presunta modernità visto che è adottato da quei paesi considerati all’avanguardia,
primi fra tutti quelli anglosassoni.
Se
vogliamo indicare una data simbolo che demarchi un prima e un dopo nella
questione, non possiamo che risalire al referendum del 1993 ove la maggioranza
degli italiani (non io) sotto l’onda emotiva dello scandalo di tangentopoli e
della caduta del muro di Berlino con le sue conseguenze, scelse di abbandonare
il sistema elettorale proporzionale, mantenendone soltanto una percentuale del
25% con la nuova legge adottata,
denominata Mattarellum. Da allora non sono mai terminati gli attacchi tesi a
limitare sempre più quegli aspetti legati alla rappresentatività per spostare l’asse
sempre più verso la stabilità. Detto in parole povere, chi vince si prende
tutto per 5 anni e, a fronte di una sempre maggiore complessità della società,
si tenta di rispondere con una semplificazione e una limitazione alla massima
potenza della partecipazione e della vita politica.
Da
questo punto di vista l’introduzione del sistema maggioritario ha prodotto
limitati effetti, vista la frequenza con cui sono continuati a cadere e
cambiare i governi. Ha prodotto molti più effetti sulla partecipazione e sul
legame che, dal dopoguerra, legava la stragrande maggioranza degli italiani all’attivismo
e condivisione della vita politica. Recisi i rami degli ideali, del senso di
appartenenza, della delega rappresentativa, lentamente ma progressivamente ci
siamo avvicinati a quelle democrazie avanzate cui si faceva riferimento prima
con percentuali di partecipazione al voto di poco superiore al 50% e con una
ancor più misera partecipazione alla vita attiva dei partiti, divenuti progressivamente
sempre più comitati elettorali o d’affari. Partiti che, prima erano punti di
riferimento collettivi e popolari (anche quelli cosiddetti borghesi), e che dopo,
nel migliore dei casi, sono stati visti come opportunità per “svoltare” nella
vita o come strumenti al servizio di interessi poco chiari e, molto spesso, ancor
meno leciti.
Sono
usciti dalla porta per non rientrare più la dialettica, il confronto, la
mediazione, il senso di giustizia sostituiti dall’insulto, dall’ astio, dal
posizionamento svincolato dalla ragione e affidato solo all’essere contro. La
nuova parola d’ordine diventa vincere, a prescindere dal “come” e dal “per cosa”.
La
sinistra e la destra spostano le truppe e gli interessi verso il centro, dando vita a soluzioni ibride
al limite della peggiore ingegneria genetica, denominate centrodestra e
centrosinistra in cui, spesso, all’interno dello stesso schieramento
predominano sospetti e sgambetti. Prodi, D’Alema, Berlusconi, ancora Prodi,
ancora Berlusconi, e poi Monti, Letta, fino ad arrivare all’attuale Renzi l’elenco
di chi si è succeduto alla guida dei non pochi governi indica chiaramente che
anche l’unico obbiettivo condiviso, quello della stabilità, non è stato
raggiunto.
Qualcuno,
sano di mente, può in tutta sincerità, affermare che queste stagioni politiche
siano state caratterizzate, oltre che dalla stabilità, dal buon governo, dalla giustizia
ed equità?
Si
può affermare che la società italiana abbia fatto quel salto qualitativo che le
avrebbe permesso di superare i limiti e le contraddizioni delle stagioni
precedenti?
Personalmente
e, credo insieme alla stragrande maggioranza degli italiani, posso affermare
tranquillamente di no, anzi si sono registrati notevoli passi all’indietro su
temi fondamentali come quello dei diritti sociali, della rappresentanza, della
democrazia.
Già
sento qualcuno che comincia a pensare: ”Va bene, però dimentichi che c’è stata
la globalizzazione, l’Europa, la nuova moneta e le nuove politiche comunitarie
e bla bla bla….”. No, non lo dimentico, anzi, credo che le scellerate scelte
fatte dei paesi europei in termini economici, di giustizia, di solidarietà,
sarebbero stati senz’altro migliori se avesse prevalso un principio di
eguaglianza e di rappresentatività, piuttosto che gli interessi delle lobby
economiche e finanziarie che, trovano nel sistema elettorale semplificato il
loro habitat preferito.
Chi
ha avuto la pazienza di leggere fin qui si aspetterà adesso , legittimamente, una
conclusione.
Siamo
alla vigilia dell’ennesimo, forse decisivo, attacco alla costituzione. La
parola d’ordine adesso è resistere. E resistere vuol dire VOTARE NO il 4
dicembre al referendum.
Subito
dopo, partire per ricostruire un habitat politico idoneo alla rappresentanza degli ultimi e dei penultimi,
mettendo da parte egoismi, visioni personalistiche e limitate. Rimettere in
discussione quelle che sembrano essere, ormai, pietre tombali su alcune
questioni, a cominciare dalla legge elettorale che, per me, deve ritornare ad
essere proporzionale, magari non pura, ma proporzionale.
E
per ripartire col piede giusto non si può, a mio modestissimo parere, che
ripartire da sinistra.
Ad
maiora!
MIZIO