lunedì 21 giugno 2021

COSI' E' SE VI PARE

Ogni tanto qualcuno mi considera e giudica come "estremista". Epiteto, che non ritengo certo offensivo ma che, troppo spesso, viene associato nell'immaginario comune, all'aggettivo "pericoloso". Dandone, quindi, un' accezione prevalentemente negativa. Perciò, personalmente, ho sempre ritenuto di dovermi qualificare, laddove se ne sentisse il bisogno di farlo, non come estremista, ma come radicale. Ovviamente non nell'appartenenza al movimento liberal dei radicali di Pannella e Bonino. Ma, svincolandola dall'interpretazione politica e partitica, nel considerare immutabili e non contrattabili alcune scelte ideali di fondo. Scelte e ideali per cui l'estremista, di cui sopra, è disposto magari, a ricorrere anche alla violenza e ad uccidere per affermarli. Il mio essere radicale, invece, al contrario, sarebbe idealmente disponibile a farsi uccidere,  piuttosto che rinnegarli. Per questo motivo il "radicale" può trovare accoglienza e potenzialità d'azione all'interno di situazioni, movimenti o associazioni anche apparentemente diverse fra loro. Ma, con altrettanta faclità può prenderne le distanze, nel momento in cui il confine tra capacità di mediazione, risultanze pratiche, patti con la coscienza, non venga superato in modo irreversibile trasformandosi in colpevole complicità. Qualcuno potrebbe pensare che sia parac.lismo o opportunismo e, dal suo punto di vista, ne avrebbe anche le ragioni. Laddove si accetti la logica e si consideri normale la superiorità della "ragion di stato" rispetto la giustizia, può senz'altro apparire così. Ma chi giudica senza paraocchi e con l'animo sgombro da retropensieri e dietrologie inesistenti, troverà nel radicale il più sincero, leale e affidabile compagno di viaggio. E lo sarà anche nel doloroso momento dell'eventuale abbandono del comune percorso per i motivi illustrati prima. Il radicale, per sue caratteristiche è, purtroppo, destinato ad errare continuamente alla ricerca di un Sacro Graal, probabilmente inesistente, che ne giustifichi l'esistenza e l'ansia per il prossimo e, finanche per l'intero universo. E qui mi tocca citare per l'ennesima volta il buon Silone. "Un cristiano senza chiesa, un comunista senza partito" MIZIO

martedì 27 aprile 2021

25 APRILE, poi 26...27....28

Anche quest'anno, come tutti gli anni, e doverosamente, si è celebrata il 25 aprile la festa della liberazione. Attenzione, della Liberazione, non della libertà. Quella, eventualmente ne fu la logica conseguenza e, purtroppo, ancora non del tutto conquistata. Come tutte le ricorrenze del passato, presenti e future, la giornata è passata attraverso i necessari rituali richiami storici, ma anche attraverso l'altrettanto immancabile retorica, che diventa inutile e addirittura irritante, quando non supportata da azioni coerenti e conseguenti. Perchè è su questo che vorrei argomentare qualcosa. Siamo tutti d'accordo che sia fondamentale la memoria storica, il ribadirne la verità contro negazionismi e revisionismi interessati, e farlo in una giornata particolare a questo dedicata. Quindi viva la Liberazione, viva la Costituzione, viva la Resistenza e guai a chi tocca il 25 aprile che tutto ciò celebra e ricorda. Ma non possiamo dimenticare che, dopo e prima del 25 aprile, ci siano altri 364 giorni. E che ci siano stati, ormai diversi decenni. Giorni e anni in cui troppo spesso si sono dimenticate e accantonate le motivazioni per cui si festeggia quel giorno. E non mi riferisco ai nostalgici e ai fascisti più o meno mascherati e interessati, ma ai tanti che proprio in quel giorno, in maniera ipocrita, non rinunciano al presenzialismo retorico e autoreferenziale in nome di un antifascismo, troppo spesso solo dichiarato e di facciata. Perchè, penso, si possa essere tutti d'accordo, nel dire che il fascismo più pericoloso non sia solo quello esibito e provocatorio del saluto romano e della simbologia collegata. Qiello di quattro imbecilli già condannati e valutati dalla storia. Molto più subdole e pericolosr sono le scelte e le politiche che permettano, giustifichino e accentuino odiose differenze sociali, razziali e di genere. Perchè, mi sembra chiaro, che sia proprio in questo clima che favorisce l'ingiustizia, il privilegio, la difesa palese di precisi interessi che trovino il loro habitat elettivo l'impotenza, la disperazione e la disaffezione che, facilmente possono trasformarsi in rabbia e rancore. Rabbia e rancore ancor più facilmente sfruttabili dai mestatori di professione. Non è neanche, estraneo a questo processo, l'abbandono fisico dei territori da parte dei partiti e della politica istituzionale, lasciando colpevolmente, praterie immense a disposizione di facili e pericolose speculazioni. Speculazioni in cui, tra l'altro, troppo spesso si intrecciano interessi della peggiore espressione politica e della criminalità più o meno organizzata. Altro aspetto colpevolmente sottovalutato e,anzi, quasi incentivato lasciando (intenzionalmente?) zone franche, non solo dal punto di vista territoriale ma anche della legalità. Quindi, arrivando rapidamente alla conclusione, l'antifascismo per essere reale, credibile e formativo per coscienze, soprattutto giovanili, non può che sposarsi a politiche di giustizia sociale. Di lotta, anche dura, alle disuguaglianze. Di impegno costante, continuo giornaliero che non lasci zone d'ombra. Che faccia dello spirito costituzionale il proprio faro con l'impegno per una rivoluzione progressiva, democratica e permanente che non affidi solo al ricordo e alla simbologia il proprio bagaglio di valori ideali. Capisco sia difficile e impegnativo, soprattutto se lo leghiamo alle logiche, agli errori e alle facili colpevoli letture politiche degli ultimi decenni. Ma credo sia non solo necessario, ma indispensabile farlo. Altrimenti il 25 aprile sarà sempre più solo una retorica giornata sempre meno avvertita e vissuta con la necessaria coscienza e consapevolezza dai più. VIVA IL 25 APRILE! VIVA LA RESISTENZA! VIVA LA COSTITUZIONE! MIZIO

lunedì 19 aprile 2021

DON ROBERTO E PASOLINI

Un paio d'anni fa circa, è morto Don Roberto Sardelli. Un nome che a molti non dirà molto ma che per altri, me compreso, ha rappresentato un mondo e un universo ancora non esplorato e compreso completamente. Don Roberto era un prete e sembra strano, che proprio io così lontano dalla religione costituita e dai suoi precetti, ma non alieno alle eterne domande sulla vita, i suoi perchè e il suo misterioso destino, ne possa parlare e ricordare in maniera così coinvolgente. Ma ho sempre preferito parlare e distinguere il sentimento religioso o la spiritualità, da qualsiasi forma di organizzazione costituita fatta di precetti, comandamenti e, soprattutto di esercizi di fede impossiili e improbabili. Don Roberto pur essendo nella Chiesa era a questa, paradossalmente estraneo ma ostinatamente presente come pietra di scandalo.Inviso e tenuto ai margini. Arrivando addirittura, per diversi anni, a togliergli la possibilità di praticare l'esercizio del sacerdozio. Proprio a causa del suo attenersi profondamente al messaggio originario e, praticamente unico, del Vangelo del Cristo. Stare dalla parte degli ultimi. E lui ci stava, non in modo caritatevole, non catechizzando e alimentando la speranza in un paradiso post mortem. Ma esercitando quello che sentiva come il suo compito principale. La difesa aprioristica e il cercare di far prendere loro coscienza. Don Roberto, in quei tempi di forte e marcato manicheismo ideologico e poitico, era sospettato e addirittura accusato, sia da vertici vaticani che da politici e media interessat, di essere comunista. Pur senza essere mai stato nè iscritto, nè militante, nè tantomeno diffusore di idee, stampa o altro riconducibile ad una propaganda per questo o quel partito o ideale. Ovviamente questo non voleva dire equidistanza o disinteresse qualunquista. Anzi il suo lavoro continuo, certosino, per certi versi estenuante era per fare in modo che i poveri potessero e dovessero appropriarsi della politica come strumento prima di comprensione, poi di liberazione. Lasciare la politica a lor signori, che pur definendola cosa sporca, si guardavano bene dal mollarne la gestione o dal cercare di renderla migliore (in questo aspetto dopo decenni siamo ancora lì se non peggio). Lui, essendo soprattutto una persona libera, aveva come referente principale e forse unico, la propria coscienza di cristiano. Forse di un cristiano senza chiesa e di un comunista senza partito. (Silone) Ma lo era e lo diventava (comunista) agli occhi dei borghesi benpensanti perchè urlava, non solo metaforicamente, contro l'ingiustizia, e non solo dal pulpito di una chiesa. Ma lo faceva dalle strade polverose o fangose dell'estrema periferia degradata di Roma. Lo diventava perchè non scacciava o emarginava i Rom. Ma cercava di comprenderne cultura e usanze per condividerle empaticamente. Lo era perchè aveva deciso di prendersi cura, sostenere e soprattutto tener loro la mano nell'ultimo viaggio. ai malati terminali di AIDS. Quei malati che, in quegli anni, paventando una nuova peste e appestati vittime di una punizione divina, venivano scacciai e abbandonati al loro destino lasciandoli morire da soli, vittime più dell'ignoranza che della malattia. Lo era soprattutto però, perchè nella sua Scuola 725, cui mi onoro di aver fatto parte come allievo, all'Acquedotto Felice, diede una coscienza e preparò una generazione di ragazzi. Ragazzi che nel crescere, sarebbero poi diventati protagonisti attivi nella società e non condannati preventivamente, non da un dio capriccioso, ma da una società cinica, ad occupare gli ultimissimi gradini della scala sociale. Tra questi c'è Chi lo ha fatto in politica. Chi nel sindacato, nei movimenti, nelle associazioni o nell'ambito lavorativo (alcuni sono diventati insegnanti). Ma tutti sicuramente, nella vita, nel rapporto col prossimo e con la società nel suo insieme. Un rapporto in cui la ricerca e difesa della giustizia non ha rappresentato solo un concetto astratto o una semplice enunciazione di principio. Ma una linea di confine netta e non modificabile tra bene e male. Linea di confine che quasi mai permetteva lo sconfinamento nell'altra, più comoda della convenienza opportunistica. Ragazzi i cui legami tra loro si sono nel tempo spesso allentati o addirittura (come nel mio caso) sfilacciati, ma mai provocando nell'intimo, un senso di distacco o allontanamento da quegli insegnamenti e da quell'esempio vivente. Al contrario, avvertendo spesso, un profondo senso d' inadeguatezza per non riuscire neanche lontanamente, ad emularne l'esempio. Ma mai facendo in modo di perdere la consapevolezza di aver fatto parte collettivamente e singolarmente, di un'esperienza sicuramente unica, e di aver potuto usufruire di un raro privilegio. Credo che il sentimento che sicuramente ci accomuni, oltre quello della comune estrazione sociale e dell'esperienza vissuta, sia proprio quel senso di appartenenza ad una ristretta privilegiata cerchia. Fatte le debite proporzioni ma senza tema di esagerare, trattasi di un sentimento abbastanza vicino a quello provato e vissuto da chiunque si sia trovato a stretto contatto con personalità di una grandezza non misurabile. Persone capaci di ergersi almeno di un palmo sopra la mediocrità e la supponenza imperante. Quelli che qualcuno non esita, a seconda dell' habitat, a chiamare santi, grandi anime o eroi. Personalità di diversa estrazione, formazione o rappresentanza religiosa, politica o sociale le cui gesta e le parole attraversano il tempo mantenendone intatto la grandezza e il valore. Ecco noi questa cosa non 'abbiamo sentita dire da qualcuno. Non ce l'ha dovuta raccontare nessuno. Non l'abbiamo letta sui libri. L'abbiamo vissuta, toccata. Ci abbiamo studiato, mangiato e lavorato insieme. A volte abbiamo anche discusso, criticato e anche dubitato. Inutile nasconderlo. L'hanno fatto in tanti molto più preparati e attrezzati di noi in situazioni sicuramente più facili, figuriamoci se non potessero farlo degli spocchiosi adolescenti di borgata, come eravamo. Ma, soprattutto l'abbiamo mantenuto vivo non solo nel ricordo e nelle celebrazioni, ma nel vissuto, con risultati spesso non esaltanti e decisamente criticabili ma mai, grazie a quel seme che lui ha gettato in noi, superando quel sottile confine tra bene e male cui accennavo prima. Quel confine che traccia in maniera invisibile ma determinante, l'appartenenza non solo e non tanto alle brave o cattive persone. Ma tra esseri umani coscienti, sensibili, vigili e attivi protagonisti consapevoli, rispetto l'apatia, il cieco risentimento e il conseguente insensibile menefreghismo cui si sarebbe potuto essere destinati da un potere tanto ingiusto quanto ottuso. Insomma, l'occhio e l'attenzione di Don Roberto verso gli ultimi e verso la loro rappresentazione pratica nelle borgate romane, non era la stessa di Pasolini. Il quale trovava nella fascinazione del brutto, sporco e cattivo motivo per suoi interessi che non solo stimolati da curiosità intellettuale o da sentimenti empatici, definirei più antropologici che sociologici. PPP non ne vedeva la grandezza potenziale, se non nella narrazione delle miserie, e non ne ricercava o auspicava il riscatto. Ne raccontava e ne ricercava le ombre e i paradossi. Ci si calava beandosi ed esaltandone gli aspetti più scandalosi e scandalizzanti. Esattamente il contrario di Don Robero la cui preoccupazione costante era propio quella di difendere, rispettare, minimizzare e mimetizzare gli aspetti di costume e quasi agiografici di quella condizione. Non dimentico la rabbia e la durezza con cui contestava chi si provava ad approcciarsi con quello spirito alla borgata e ai suoi abitanti. Riportandone e raccontandone su stampa e media l'immagine di un'umanità esclusivamente dolente e misera, oscurandone e delegittimandone, di fatto, potenzialità e speranze. Più o meno quello PPP veicolava e trasmetteva attraverso le sue opere e le sue frequentazioni. Opere che, seppur da sempre sono state prese a esempio e modello per denunce e rappresentazioni ulteriori, ne erano in realtà una semplice, seppur mirabile narrazione. Era il regista, lo scrittore, l'osservatore, l'intellettuale talmente posizionato in una dimensione altra, che nel raccontare in modo anche mirabile ne ricercava però, il paradosso e a rappresentazione scandalistica. Certificandone certamente e veicolandone più o meno fedelmente, l'esistenza. Ma senza traccia, impegno o mobilitazione per un suo superamento. La denuncia urlata dello scandalo e dell'ingiustizia, augurandosi quasi però, che il tutto rimanga tale e quale nei tempi e nei modi. Non indicando una via d'uscita e di riscatto, se non affidata alle piccole, meschine trovate o espedienti dei protagonisti delle sue opere, destinati quasi fatalmente, al fallimento. Per questi aspetti paralleli tra le due visioni ma non sovrapponibili a me piace paragonarli un pò alle differenze che possiamo trovare tra un quadro e una fotografia. Il soggetto è lo stesso, la sua rappresentazione e narrazione è però, sicuramente diversa già nel suo approccio iniziale, e ancor più nella sua realizzazione. Rendendo il loro paragone difficoltoso se non addirittura impossibile, proprio per le differenze motivazionali e pratiche presenti fin dalla scelta dela tecnica da usare rispetto il cosa andare a rappresentare. MIZIO

giovedì 15 aprile 2021

LA VITA E' UN MISTERO, LA MORTE NON SEMPRE

L'altro giorno mi sono vaccinato e quindi credo di poter tranquillamente non essere considerato complottista o negazionista, anzi. Però, bypassando tutto quello che riguarda il come dove e perchè del virus, e della conseguente pandemia, argomenti su cui invidio le certezze granitiche di molti, appartenenti e schierati in campi anche diversi, alcune riflessioni sembrano, però doverose. Perchè, ad esempio, dopo oltre un anno, a differenza di altri paesi simili, il numero dei decessi, da noi sia ancora inspiegabilmente e intollerabilmente troppo alto, sia in termini assoluti che percentuali? Credo sia legittimo, se non obbligatorio, da parte di chi ha responsabilità in materia, porsi delle domande e cominciare anche pensare se l'approccio, con cui ci si è confrontati con la pandemia finora, sia stato e sia ancora quello più idoneo. Visti i risultati si comincia legittimamente a dubitare che lo sia. Escludendo, al momento, quelle visioni utopiche e romantiche tra movimento hippy e new age, anche fascinose e potenzialmente valide, ma decisamente necessitanti di tempi storici lunghi per la loro permeabilità e presa di coscienza collettiva, rimane il lavorare se e come cambiare approccio. Cambiamento necessario per poter, almeno, ridurre nell'immediato, l'impatto più grave e pesante. Detto che, attualmente, solo la vaccinazione di massa, pur se tra legittimi dubbi e timori, sembra essere in grado di tirarci fuori, in tempi ragionevolmente brevi dalla fase critica , non può, però la sua risoluzione definitiva essere affidata solo a questa opzione. Visto che, tra l'altro,a fronte delle numerose varianti del virus potrebbe risultare meno efficace delle aspettative. Quindi, se all'inizio, a fronte di una situazione nuova e di un nemico al momento sconosciuto, ci si è mossi tra mille comprensibili tentativi emergenziali, dopo oltre un anno risulta inconcepibile che l'unico, o quasi, approccio con il virus sia rimasto quello, dimostratosi inefficace, della tachipirina e della vigile attesa. Attesa che, troppo spesso, si trasforma poi in ricovero in intensiva e successiva potenziale evoluzione nefasta. Si è colpevolmente, tolto alla medicina di prossimità (medici di base) la possibilità di autonomia e libertà di cura costringendo alla passività (che a molti non è dispiaciuta)e al rigido rispetto del protocollo. Tutto questo, nonostante, nel tempo, ci siano per fortuna e sempre più, esempi di approcci terapeutici tempestivi e diversi che portano ad abbattere enormemente il ricorso all'ospedalizzazione e i conseguenti minori decessi. E, non vogliamo, in questo ambito, considerare il benefico effetto sulle strutture ospedaliere e sulle altre patologie, attualmente meno “attenzionate” dal sistema sanitario (E' di oggi la notizia che nel Lazio sono sospesi tutti gli interventi non urgenti). Col nuovo governo, da questo punto di vista sembra non essere cambiato molto. E' cambiato il responsabile della gestione logistica più per questioni di opportunità (viste le ombre su alcune operazioni) che di cambio di passo vero e proprio. Il ministro è rimasto lo stesso e questo sembra confermare un giudizio, tutto sommato, positivo sulla gestione precedente. D'altra parte, riconosciamo che il ministro si è trovato calato all'improvviso, da uno stato di orgoglioso autocompiacimento per far parte di un governo, al doversi assumere responsabilità in una crisi epocale che mai, avrebbe pensato di dover affrontare neanche nei suoi peggiori incubi. Adesso però, dopo oltre un anno e con evidenze non smentibili che alcune cose siano state affrontate in modo errato, credo ci si debba assumere anche la responsabilità politica di mettere alle strette le risultanze delle certezze, che tali finora, non sono sembrate, dell'ISS e dei vari comitati tecnici. Nuovi protocolli più efficaci sono già attuati quotidianamente e con successo, da medici coraggiosi, responsabili disponibili e aperti. Medici, è bene prcisarlo, non negazionisti, non complottisti o no-vax. Per fortuna alcune regioni, autonomamente, cominciano a riconoscere la validità di tale approccio diverso e, non sarebbe male che anche il governo, nella sua interezza, si assumesse la responsabilità, se non altro, di sperimentarne la validità. Certo, per fare questo non c'è bisogno di effetti spot, ma di un'organizzazione della sanità pubblica che riscopra la sua funzione di prevenzione e cura capillare sul territorio. A cominciare dal mettere effettivamente e finalmente in piedi le USCA che, con assunzioni e fondi mirati, permettano di avere una rete diffusa di assistenza domiciliare dei malati di Covid. Per concludere, possiamo tranquillamente affermare che, a fronte delle cifre, forse non tutto è stato indovinato e fatto nel migliore dei modi. Diciamo che se possiamo riconoscere delle attenuanti, vista l'eccezionalità della situazione, quello che però, non si può e non si deve fare, è la sottovalutazione o mistificazione degli errori e il loro perpetuarsi per non smentirsi o riconoscere i limiti e gli errori commessi anche a livello politico, oltre che tecnico. Perchè, parliamoci chiaro, questa pandemia e i morti, hanno messo prima di tutto in crisi il modello di sanità pubblica, visto sempre più non come servizio ma come azienda con dolorosi tagli epocali. Azienda messa in concorrenza diretta con quella privata che, al contrario, è finanziata sempre più con soldi pubblici e con l'altrettanto penalizzante delega della sua gestione, alle regioni. Riconoscere questo vorrebbe dire ammettere il proprio fallimento in materia. E senza distinzioni percepibili tra destra e centrosinistra. Vorrebbe dire la fine dell'unico modello sociale che si sia in grado di immaginare nei diversi campi che si alternano e si contendono il potere. Il modello capitalista soprattutto nella sua ultima versione liberista e finanziaria. Modello in cui tutto, anche la vita umana è solo una questione economica. Si tratta, evidentemente, solo di stabilire dove fissare l'asticella che renda accettabile o giustificabile il numero delle morti. In Italia, attualmente, sembra essere fissata in alto. MIZIO

giovedì 4 marzo 2021

L' AMORE NON E' UN EQUILIBRISTA

Credo che molti, se non tutti, prima o poi si interroghino sul significato profondo dell'esser vivi. Il “chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo”, sono domande che sembrano già senza risposta nell'enunciazione stessa, ma che ostinatamente, costantemente ogni essere umano dotato di un minimo di coscienza d'essere si è posto da sempre attraversando i secoli e le barriere evolutive. Il mito, la superstizione, le religioni, il pensiero filosofico l'impegno sociale o politico, ognuno a suo modo e ognuno con i suoi limiti o ambizioni hanno provato a dare, se non risposte, potenziali strumenti di comprensione. Da dove nascono e cosa sono veramente il bene e il male? Sono stati preesistenti o esistono solo in quanto trovano modo di manifestarsi all'interno di coscienze costituite, predisposte all'occorrenza? E, se riuscissimo a svincolarci dalle nostre personali convinzioni, tutte nobili e degne del massimo rispetto e allargassimo lo sguardo a ciò che ci circonda vedremmo, con le nostre attuali conoscenze e capacità interpretative, come il tutto tenda da sempre costantemente, ostinatamente alla ricerca di un equilibrio. Ricerca che chiamiamo evoluzione, i cui adattamenti, anche non volontari, non pensati, sperimentano e premiano poi, quelli che meglio si adattano al precario equilibrio precedente creandone un altro più favorevole. Lo stesso equilibrio cui tende, fondamentalmente, l'intero universo o, almeno quella parte che conosciamo un pochino meglio. Le leggi che regolano i rapporti tra i vari corpi celesti altro non sono che una ricerca costante di quell' equilibrio che tenta di contrastare l'inevitabile caos cosmico che ci scatenerebbe in loro assenza. A fronte di queste domande, anche inquietanti e potenzialmente destabilizzanti, lo riconosco, ognuno risponde a suo modo e con le possibilità che il personale livello evolutivo consenta. Parlando degli esseri umani vediamo, però, che gran parte di essi, un attimo dopo essersi posto il quesito, lo sfuggono, lo mettono da parte, considerandolo cruccio inutile e da cui è impossibile arrivare ad una qualsiasi risposta. Molti di questi aderiscono, poi acriticamente a precetti religiosi, confidando che l'essere fedeli di quell'idea, possa comportare improbabili, ma possibili, premi successivi e magari, una vita meno disgraziata con l'adesione a comportamenti socialmente accettati. Un po' dappertutto, folle oceaniche di fedeli pronte a piccoli o grandi sacrifici e a omaggiare sacerdoti e rappresentanti di un dio invisibile ma non per questo meno tiranno e meno vendicativo. Un Dio che predica amore ma permette l'esercizio e la pratica dell'odio tra esseri umani. Un Dio troppo spesso usato come paravento per meschine, violente e anche tragiche vicende tutte umane. Un Dio che viene usato e arruolato sotto la propria bandiera per benedire armi cannoni e giustificare guerre sante. Nel passaggio precedente abbiamo accennato all'amore, anche se riferito al divino. L'amore è uno dei tratti unificanti e un sentimento comunemente accettato riconoscendogli una valenza positiva e superiore ad altri. Per la verità quasi sempre ci si riferisce all'amore tra i sessi, consolatorio e finalizzato al proseguimento della specie ma limitato all'interno di una dialettica di coppia. Dialettica che, altrimenti, senza condizionamenti culturali sarebbe naturalmente portata all'anarchia e alla promiscuità riproduttiva oltre che sentimentale. Ecco, il riconoscimento dell'amore come sentimento superiore però, è uno di quei passaggi evolutivi che hanno, indubbiamente, consentito nel corso dei secoli una migliore stabilità dell'organizzazione sociale, prevedendo già un mutualismo tra gli esseri sia pure, inizialmente, limitato al proprio nucleo familiare. Ma se allarghiamo il concetto vedremmo che l'amore è stato anche la molla per allargare progressivamente il concetto di solidarietà, di mutualismo sociale anche prima ancora che questo fosse teorizzato, ad esempio col marxismo, come progetto di diversa organizzazione sociale. Quindi l'amore, nelle sue varie accezioni e interpretazioni lo possiamo tranquillamente assimilare e sovrapporre a quello che si diceva all'inizio riguardo l'equilibrio universale. L'amore, perlomeno quello comunemente accettato, altro non è che uno scambio sentimentale e pratico in cui sia previsto un dare e un avere. Quindi, cos'altro è, o possiamo considerare ad esempio, lo scambio energetico tra i corpi celesti che ne permette l'equilibrio se non uno scambio di forze (gravità) reciproche , preesistenti e necessarie? E cosa cambierebbe sostanzialmente se lo definissimo amore? E cos'altro è lo scambio di energie vitali tra quella solare che fa crescere i vegetali che offrono nutrimento agli erbivori che, a loro volta sostengono i carnivori e tutti insieme tendono alla perenne ricerca di un equilibrio sempre più perfettibile? Abbandonando visioni ed elucubrazioni forse troppo lontani e anche poco sentite come indispensabili o semplicemente utili, dal nostro quotidiano, cerchiamo di riportare il ragionamento a noi e all'oggi. Se il tratto caratteristico e costante che ci accompagna è (volenti o nolenti) la ricerca continua dell'equilibrio (amore), potremmo tranquillamente inquadrare qualsiasi nostra attività all'interno di tale schema. E, lasciatemelo dire, anche l'attività e l'impegno politico, sindacale o sociale, quando esercitata con spirito sincero e altruistico possono rientrare a pieno titolo in questa lettura. La demonizzazione che troppo spesso accompagna tali attività (sia pur giustificata da comportamenti scorretti) come la storia ci insegna è, spesso foriera di interruzioni traumatiche e violente di quell'equilibrio ideale ricercato. I regimi dittatoriali, le guerre, le violenze, le ingiustizie che hanno contrassegnato da sempre la nostra storia sono lì a dimostrarlo. Oggi abbiamo le capacità collettive sia di coscienza che intellettive per impedire che tutto ciò possa ripetersi, possiamo e dobbiamo farlo soprattutto lavorando su noi stessi e sul nostro equilibrio. Eliminando, ad esempio, per quanto possibile, l'odio, la violenza, il rancore pur presenti e necessari indirizzandoli, però costantemente, alla ricerca della giustizia e della pace. Pace e giustizia che se raggiunte come convinzione da una massa critica sufficiente, potrebbero rappresentare la più grande e la più equilibrata delle rivoluzioni possibili (almeno al momento). Utopistico? Certamente, ma conoscete qualcosa di diverso dall' utopia che possa cambiare il mondo? Ad maiora MIZIO

domenica 28 febbraio 2021

HO LETTO PINOCCHIO

Spesso ci sono più cose tra gli spazi bianchi fra le righe che nelle parole
Pinocchio, la fiaba di Collodi universalmente conosciuta ,e proprio nell'edizione con quella copertina riportata sopra, è stato il primo libro che posso considerare veramente mio. Non proposto da altri, non regalato, non decantato da qualcuno che l'avesse già letto. Ricordo benissimo il posto e le modalità con cui ne entrai in contatto. Avevo forse 7/8 anni, avevo sicuramente imparato a leggere da non moltissimo ma già molto incuriosito e affascinato da quel mondo fatto non più solo di figure e disegni, ma di storie, parole, avventure. C'era l'annuale festa parrocchiale, uno dei momenti di gioia e di libertà per noi bambini. Giostre, caramelle, dolci, giocattoli. I giochi tipici di quell'epoca come il palo della cuccagna, la rottura della pignatta,le corse nei sacchi. Ma soprattutto era una delle rarissime occasioni in cui avevamo la possibilità di gestire in autonomia le modeste somme messe a disposizione dai nostri genitori. E a portata di mano, c'erano le mille irresistibili tentazioni sulle bancarelle che come suadenti sirene ci affascinavano con le luci, colori, odori e sapori. Quel piccolo tesoro in mano veniva costantemente messo alla prova dalla cruda realtà . Si facevano i conti più volte, aiutandosi con le dita. Si scopriva amaramente che la moderna società dei consumi e del mercato comportava dolorose scelte e sacrifici. Che non tutto e non sempre, si sarebbe potuto avere se non a caro prezzo. Prezzo che i nostri spiccioli rendevano irraggiungibile, se messo a confronto con i nostri “smodati” desideri. Tutto attirava, tutto si sarebbe voluto, ma tutto era tremendamente costoso.Quindi, passando più volte in rassegna con gli occhi sgranati le prelibatezze esposte e sapientemente decantate dagli abili imbonitori, la fatidica ma inevitabile decisione sembra a sempre più crudele e fonte di sofferenza. Sembrava prevalere il dolore della rinuncia alle molte possibilità che la gioia di appagarne poche. Arrivai così e inconsapevolmente, di fronte alla bancarelle dei libri usati. Ero già un lettore bulimico di fumetti, dei libri di lettura di scuola, di quelli di fiabe e anche del quotidiano che entrava regolarmente in casa. Però, trovarmi di fronte un intero spazio ricoperto alla rinfusa di libri mi colpì e affascinò come non mai e cominciai la personale e accurata esplorazione dei titoli presenti. Ovviamente la stragrande maggioranza mi era totalmente ignota ma, in mezzo a tutti gli altri risaltò e attirò la mia attenzione quella copertina colorata e quel buffo personaggio. Pinocchio! Era un nome già sentito da qualche parte, ma più che la fama potè il potere seduttivo della sua copertina. Non ci pensai più di tanto. Un libro, anzi quel libro, era quello che volevo. Avrei sacrificato volentieri dolci e giocattoli per essere l'orgoglioso proprietario di un libro. Il primo libro che avrei sentito veramente mio. Da quel giorno, com'è facile immaginare, la sua lettura mi tenne compagnia a lungo. Le illustrazioni, ingenue e minimali se rapportate a quelle moderne, le disavventure del burattino divennero una costante nelle mie giornate e, anche quando non lo leggevo, mi piaceva riprenderlo, guardarlo e persino odorarlo. Particolare piacere questo, che si sarebbe ripetuto per tutta la vita con i tanti altri libri successivi. O almeno, con quelli che hanno rappresentato una pietra miliare o comunque qualcosa, nella personale formazione. Quel libro,mi tenne compagnia a lungo e l'ho letto e riletto più volte. Senza vergogna, anche in età più matura dove, comunque, si accompagnava naturalmente a letture più impegnate. Purtroppo, nei vari traslochi che si sono succeduti, non so né dove né quando è andato perso, ed è rimasto solo nei ricordi più teneri. Ma il suo significato è rimasto e, anzi, si è persino accresciuto. Si è scoperto, col passare degli anni che, quella che sembrava una semplice fiaba intrisa di buoni sentimenti e di facili morali, poteva essere tranquillamente letta e vista sotto una luce completamente diversa e decisamente, più intrigante. Il burattino che diventa bambino cosciente di sé, attraverso tutta una serie di prove dolorose e impegnative da cui trarre spunti di riflessione e non solo di facile insegnamento. Non mancava, come in tutte le tradizioni religiose o spirituali, il demiurgo, il creatore, nella figura di Geppetto (in questo caso inconsapevole). Non mancano i demoni e le figure tentatrici che provano a impossessarsi della sua anima promettendo paradisi artificiali. Non manca la figura caritatevole pronta al perdono come la Fata Turchina e neanche la cattiva coscienza e predicatore inascoltato come il Grillo parlante. Non mancano le illusioni, le delusioni, le rovinose cadute, le facili scorciatoie e l'amara presa di coscienza. E tutto questo non somiglia tremendamente all'accidentato cammino della razza umana, e del singolo individuo? Quale migliore rappresentazione del duro, lungo apprendistato rappresentato dall'evoluzione fisica, di coscienza e spirituale dell'umanità e dell'intero universo conosciuto? E se questa consapevolezza avviene attraverso una lettura apparentemente semplice non è certo meno apprezzabile e valida che se fatta all'interno di verbose, pesanti anche se dotte, ma troppo spesso inascoltate citazioni e argomentazioni filosofiche? Come diceva Ermete Trismegisto “Come nel grande, così nel piccolo”. Riscoprire la grandezza e la miseria dell'umana condizione anche tra le righe e le facili allegorie di una fiaba, può contribuire a dimensionare noi stessi all'interno di quel gioco complesso, duro, di difficile comprensione e di ancor più difficile attraversamento, che è la vita. Vita che, come Pinocchio, dovremo forzatamente scoprire diversa e con significati altri rispetto quelli che non siano semplicemente appagamenti egoistici e rinchiusi in un recinto di soli edonistici traguardi. MIZIO

giovedì 18 febbraio 2021

LA RETORICA DEL CORAGGIO

Dell'ambiente sociale in cui sono nato e cresciuto, credo d'aver già raccontato abbastanza da far intuire che il mio approccio alla vita non sia stato segnato esattamente da un percorso sul red carpet degli agi e dei facili riconoscimenti. Comunque, grazie a fortuna, combinazione, incontri, predisposizione personale e familiare, quello che sembrava un sentiero già segnato dalla sorte ha potuto prendere, sia pur faticosamente e progressivamente l'aspetto di un percorso di “normalità” (ammesso che esista una normalità). Situazione che, però non poteva non tener conto dell'habitat e delle condizioni in cui essa si era maturata, rappresentando rispetto l'esistente intorno, un'eccezione piuttosto che la regola. La consapevolezza di ciò rendeva, se possibile, ancora più serrato la sensazione di dover “ripagare”, in una qualche maniera le opportunità avute. Quindi scegliere di fare l'insegnante e di impegnarsi in politica e nel sociale sembrarono scelte conseguenti e, quasi naturali. Null'altro sembrava poter dare un senso più alto e nobile nell'ambito delle cose, per me, potenzialmente possibili. Le due scelte convissero tra loro più o meno felicemente per circa 4/5 anni. Almeno fino a che la vita e le sue spietate condizioni costrinsero a valutare che, continuare con la precarietà e i relativi scarsi introiti, non erano più compatibili c on le precarie finanze personali e familiari. Fui così, diciamo “costretto” a impegnarmi nella ricerca del famoso posto fisso, partecipando a decine di concorsi pubblici che spaziavano a 360° dal posto di spazzino a quello di educatore nelle carceri o mediatore culturale in Regione. Comunque in quel lasso di tempo l'impegno politico assorbiva la maggior parte del tempo e mi portava progressivamente, anche a ricoprire posti di responsabilità oltre che nel partito, anche nelle istituzioni pubbliche. Fu proprio in questa veste che le mie convinzioni e la capacità di averle fatte proprie furono messe decisamente alla prova. Come consigliere circoscrizionale (non erano ancora diventati municipi) si stava nelle varie commissioni, perciò per la mia giovane età e per la mia occupazione del momento fui messo in quella che si occupava di cultura, scuola, politiche giovanili. Si consideri che le circoscrizioni (municipi) di Roma equivalgono, comunque, come popolazione e complessità dei problemi, a città di medie dimensioni. La mia in particolare aveva all'epoca circa centomila abitanti. Tra le altre cose la commissione scuola si occupava degli asili nido e delle relative graduatorie per l'inserimento, vista la scarsità dei posti disponibili. Accadde, così che una mattina, stranamente arrivò una telefonata dal Direttore didattico (l'attuale dirigente) del circolo scolastico in cui prestavo più o meno, saltuariamente la mia opera di precario. Telefonata in cui mi si invitava a passare in direzione l'indomani mattina. Considerando che quelle volte in cui ci si incrociava nei corridoi della scuola, quasi mai rispondeva al mio cordiale buongiorno, la cosa mi turbò non poco. Nell'attesa dell'incontro ripercorsi mentalmente gli accadimenti dei giorni passati per cercare di trovare una qualche inadempienza, errore o mancanza talmente grave da dover essere trattata addirittura personalmente dal grande capo. “Buongiorno direttore. Voleva vedermi?”. “Oh, buongiorno signor Mari.... (signor Mari....?) chiuda la porta e si accomodi”. Avete presente Fantozzi a rapporto col mega direttore galattico? Ecco , più o meno, quella era la sensazione: “Mi hanno detto che lei, signor Mari...., fa parte della commissione scuola circoscrizionale, non è vero?” Da lì in poi capii che, forse non ero il Fantozzi di turno e che per una volta i ruoli erano, se non proprio rovesciati, comunque, diversificati. Difatti il gran capo, in pratica, mi spiegò la delicata situazione familiare del figlio rimasto da solo con un bambino piccolo e con l'assoluta necessità di trovare posto in un nido. In pratica, stava chiedendo a me, supplente precario, una raccomandazione per agevolare l'inserimento del nipote nelle graduatorie dell'asilo. In quel periodo ero già abituato alle telefonate, alle richieste e all'ascolto delle situazioni più disperate che chiedevano un occhio di riguardo per la stessa questione, ma a tutte rispondevo che tutto quello che potevo sicuramente promettere era l'impegno al più rigoroso controllo della corretta applicazione dei criteri e dei relativi punteggi faticosamente condivisi. Ma, indubbiamente, ribadire tali motivazioni davanti il tuo capo, era chiaramente cosa leggermente più delicata che avrebbe comportato, una maggiore capacità diplomatica e anche un pochino di coraggio. Ci salutammo, io con un evidente disagio, lui con un calore e affabilità, decisamente imbarazzante. Mi parve chiaro che non avesse colto appieno la mia posizione. Forse espressa, data la comprensibile particolare situazione, certo con chiarezza, ma senza la necessaria durezza e indignazione. Comunque, vuoi per il fato, vuoi per i criteri adottati il bambino rientrò tra gli aventi diritto, senza che io muovessi un dito, che, d'altra parte non avrei, comunque, fatto. Non mi affannai certo a comunicargli la cosa, e, cercai anche di evitare di transitare dalle parti del suo ufficio. Ma dopo qualche giorno, fu lui che mi convocò nuovamente in direzione. Il suo atteggiamento fu ancora più affabile e confidenziale, ringraziandomi calorosamente in modo cameratesco. Nonostante gli espressi la mia assoluta estraneità alla questione, ci tenne a farmi intendere che capiva e apprezzava la mia modestia e il riserbo, ma che entrambi,(con strizzata d'occhio) sapevamo come fosse andata. Un po' alla Totò e al suo dichiarare:”Siamo uomini di mondo, noi!” Poi passò con improvvisa serietà, e complicità abbassando il tono di voce e guardandomi negli occhi:”Signor Mari...., lei vorrebbe fare l'insegnante nella vita?”, “Sarebbe il mio obiettivo, in effetti” “Bene, allora so che il prossimo anno uscirà il concorso, io posso aiutarla a far diventare il suo sogno realtà. Faccia la domanda, subito dopo mi venga a trovare e io le garantisco che non solo lei sarà un insegnante- Ma che lo sarà proprio in questa scuola (a cento metri da dove abitavo). Alla fine di quell'anno scolastico, in cui il direttore ci tenne a ricordarmi il suo impegno, come detto, fui costretto a cambiare totalmente lavoro e vincendo uno dei tanti concorsi, mi ritrovai casualmente ferroviere. Il famoso concorso uscì, in effetti, l'anno successivo. E, per amor di sincerità fui,anche se per pochissimo tempo, tentato di approfittare di quella promessa del direttore. Ma il pensiero di tradire tutto quello per cui avevo vissuto e cercato di mettere in pratica fino ad allora, mi impedì, devo dire senza troppa fatica, di alzare la cornetta o andarlo a trovare. Il risultato e' stato, ovviamente, che rimasi ferroviere. Non felicemente, ma senza rimorsi. Sempre, più o meno in quel periodo in cui ero consigliere, proprio per quella posizione, mi fu offerta la possibilità di vincere facilmente un concorso come funzionario al Comune di Roma. Ruolo con ottime possibilità di sviluppo e di carriera. Questa volta con la motivazione, meglio che, in certi posti ci vada uno dei nostri piuttosto che un democristiano. Risposi che se il democristiano fosse stato più bravo di me era giusto che quel posto fosse il suo e che il mio impegno in politica era proprio per affermare e rappresentare certi valori e certi principi. Non certo per promozione personale. Racconterò in altra occasione le lusinghe cui fui sottoposto quando mi dimisi da quell'incarico, da parte di vari esponenti di altre forze politiche. Tutte persone che,al pari del direttore e del compagno che mi propose la questione del funzionario, non avevano capito nulla della serietà, del valore, e della preminenza di certi valori ideali nella mia personale scala. Affermati, non certo con la drammaticità del sacrificio supremo, come per altri in diverse condizioni, ma capaci, comunque di resistere alle lusinghe di percorrere un'autostrada più comoda piuttosto che il sentiero accidentato e scomodo su cui sarei potuto rimanere. Perchè a volte sento il bisogno di ricordare alcuni passaggi cruciali, eppur quasi dimenticati del proprio vissuto? Perchè forse aiuta qualcuno a capire il perchè di certi giudizi e di certe scelte. Scelte che possono sembrare figlie di una rigidità ideologica o di un settarismo estremista, identitario e, per certi versi gratificante. Di queste attribuzioni l'unica che posso condividere è quella che riguarda la gratificazione perchè è indubbiamente vero che niente è altrettanto appagante che lo stare in pace con la propria coscienza che non ha appartenenza politica o religiosa. Quindi, e arrivo a bomba al nocciolo della questione, non “sfrugugliate” con la questione del coraggio , pompandola solo per aver espresso il proprio punto di vista dalla comoda location di un posto in parlamento o in un qualsiasi altro ruolo politico o amministrativo. E non giudicate chi si è distaccato, magari aanche con dolore, da quel mondo che si nutre e vive esteriormente di retorica ma immerso fino al collo nel compromesso e (questa si) nell'autopromozione e autoesaltazione. La supremazia della coscienza sull'interesse, sia personale che di gruppo, arrivata ad essere considerata quasi un difetto anziché una virtù. Buona solo per esaltarne retoricamente il luminoso esempio in figure del passato, tradendola però, costantemente, nella pratica quotidiana. Adattandola ogni volta ai propri limitati interessi immediati piuttosto che a quelli collettivi di largo respiro. Se è considerata una colpa questa linearità di comportamento, ebbene siamo colpevoli. Ma della nostra eventuale “colpa” ne rispondiamo sempre e soltanto noi stessi. Altri, con le loro, coinvolgono colpevolmente intere comunità (spesso vittime della sindrome di Stoccolma) ma soprattutto gli interessi e i diritti dei più bisognosi e derelitti. Eppure i posturologhi e gli ortopedici lo dicono sempre,. Anche se si passa tanto tempo seduti su una poltrona, per evitare problemi, bisogna stare sempre con la schiena diritta. E chi vuol capire capisca. MIZIO

lunedì 25 gennaio 2021

NE USCIREMO. SI, MA COME?

Ne usciremo. Certo che ne usciremo. Nessuna pandemia è per sempre. Invece una delle poche cose che sembrano per sempre è il cinico, insensibile, crudele modo con cui il potere, in particolare quello di ultima generazione vede il suo (e nostro) futuro. Sempre maggiore potere e centralità per il suo, sempre più precario e insicuro quello della stragrande maggioranza. “E' finito il tempo in cui si andava a scuola, all'università e poi si lavorava. Adesso per tutta la vita dobbiamo adattarci, cambiare ed essere pronti. Il sistema deve aiutare tutto questo.” Queste le parole di Enrico Letta. Non uno qualunque. Un ex presidente del consiglio. Un rappresentante di quel “progressismo” e di quell'europeismo tanto osannato e tanto supportato in nome della sempre meno valida e sufficiente motivazione di un frontismo antidestra e antisovranista.. Una dichiarazione non sorprendente, non casuale e neanche originale. Visto che fa seguito alle parole profetiche di D'Alema (si proprio lui) del lontano 1999, con cui annunciava la fine del posto fisso e apriva la strada alla tragica logica del precariato. Obiettivo da sempre caro alla destra, e applicato, però praticamente, soprattutto, dalla cosiddetta “sinistra” progressista. Nel mezzo decenni di continui attacchi al lavoro e ai lavoratori. Continue forme di precariato sempre più odioso e penalizzante. Fino ad arrivare alla riforma delle riforme in materia, del Job's act renziano che, di fatto seppellisce lo statuto dei lavoratori e i suoi diritti. Quindi nessuna sorpresa se un rappresentante di quel mondo ribadisca addirittura pubblicamente, non so se con compiacimento, o più semplicemente con l'asettica analisi del docente universitario, ponendolo come dato di fatto obbligato e irreversibile. A questo segue (temporalmente ma non casualmente) la nostra cara vecchia Unione Europea che, nella crisi pandemica sembrava aver recuperato una sua funzione e una dimensione più giusta e umana, che detta le condizioni per l'accesso ai fondi del Recovery fund. Condizioni che, se è vero riguardino tutti i paesi europei, sembrano però scritte con un occhio alla situazione del paese con le maggiori criticità, l'Italia, appunto. Condizioni che smentiscono clamorosamente il “senza condizioni” di cui ci si era beati incoscienti e convinti fino a ieri. Riallacciandoci, però, all'incipit iniziale, rimane solo da stabilire se certe considerazioni di alcuni personaggi e di alcune forze politiche siano figlie di un realismo ormai rassegnato o di un disegno strategico sposato e portato avanti con convinzione. In entrambi i casi sembra chiaro che ci sia l'abbandono, ormai irreversibile, di qualsiasi progetto alternativo di rapporti sociali. Quando sentiamo un rappresentante della sinistra cosiddetta radicale, come Fratoianni, che di un'alleanza raccogliticcia, con forze estremamente diverse fra loro che si trovano a governare insieme, ne auspica addirittura una sua progettualità futura e stabile, il tutto diventa improvvisamente chiaro e, allo stesso tempo, incomprensibile. La logica del continuo scegliere il meno peggio, come già qualcuno dichiarava tempo fa, porta inevitabilmente a far trionfare il peggio e se ne diventa anche inconsapevolmente complici. E, alla luce di questa situazione ancor più incomprensibile appare l'ostinata, penalizzante, stupida frammentazione delle residue forze ed energie di sinistra che, da troppo tempo, hanno rinunciato masochisticamente ad avere un ruolo e una funzione propositiva e significativa, se non in ottica promozionale e autogratificante limitata all'interno della propria ristretta cerchia. Appare chiaro che con la caduta del muro di Berlino, la fine dell'Unione Sovietica, l mondo sia diventato, agli occhi di molti, unipolare e immodificabile. E lo è veramente se, chi ha coscienza, sensibilità e progettualità rinuncia, più o meno coscientemente, a mettersi al servizio per un nuovo progetto. Un nuovo manifesto, un nuovo patto sociale, politico, economico, generazionale che faccia trovare i nuovi punti di coagulo degli interessi collettivi. Che non sia fossilizzato sul classico e lineare schematismo tra padrone e lavoratore, forse non più attuale e con troppe variabili . Come possiamo intendere la figura del piccolo artigiano o commerciante con un paio di dipendenti? Padrone o lavoratore, “carnefice” o vittima? Lo stesso “padroncino”, rispetto le aggressive politiche delle multinazionali, del e-commerce che rischiano di spazzarlo via insieme ai suoi lavoratori, come lo inquadriamo in un ipotetico nuovo e diverso assetto sociale? Non andrebbero recuperate le sue ragioni ad una funzione propositiva, creativa e solidale piuttosto che lasciare il suo risentimento, la sua rabbia alla mercè di un populismo d'accatto e pericoloso? E il rapporto con la natura, l'ambiente e le sue risorse non andrebbero inquadrate in una nuova e più adeguata visone che punti al rispetto, salvaguardia e al riequilibrio sostanziale dello stesso, piuttosto che valutarlo in senso esclusivamente utilitaristico, tipico del capitalismo, di una certa visione cristiana, ma anche del socialismo storico? Se poi introduciamo pure la questione della robotizzazione e digitalizzazione dell'industria 4.0, che spazzerà via milioni di posti di lavoro appare indispensabile che a fronteggiare e gestire tali innovazioni epocali non possa essere lasciato solo l pensiero debole del meno peggio e dell'asservimento passivo alle logiche del potere capital-liberista. Al momento sembra che non ci siano le condizioni per poter immaginare un processo di tal genere, ma basterebbe, che ognuno intanto si ponesse in discussione, (so che è difficilissimo ma è il prerequisito necessario). Dovrebbe anche essere sufficiente avere la coscienza (perchè sarà così) che seppur la pandemia passerà, prima o poi, non passeranno l'ingiustizia, il prepotere, gli squilibri complessivi e, anzi, li conosceremo probabilmente anche nelle forme più ciniche e peggiori. MIZIO

martedì 12 gennaio 2021

LA GROTTA DEI CENTO SCALINI

Le storie degli spazi bianchi. Ci sono più cose negli spazi bianchi tra le righe che nelle parole scritte.
Già avevo raccontato, in altri momenti, degli immensi spazi verdi della campagna romana che, in quegli anni, resisteva all'avanzare tumultuoso, caotico, devastante della periferia cittadina. Spazi che, però, visti con gli occhi dei bambini che eravamo allora, si trasformavano più che facilmente nelle scenografie di favolose avventure. Avventure in cui innocenti ramarri diventavano spaventosi draghi, colorate farfalle messaggeri divine e le marrane spaventosi corsi d'acqua tropicali in cui le piccole rovelle assolvevano all'ingrato compito di temibili piranha. Tutto questo avendo sullo sfondo, privilegio assoluto di essere nati a Roma l'ombra dei colossali resti degli acquedotti romani, inseriti e protetti oggi nel parco denominato, appunto, degli acquedotti. Credo sia all'interno di un naturale processo di crescita anche necessario, quello di trovare, sempre nuovi stimoli e nuove sfide. La caccia nei prati, i bagni nelle pozze, le scalate e le arrampicate sui pini e sulle maestose vetuste arcate in pietra, erano già state affrontati più volte, non senza rischi e/o rovinose cadute, ma avevano, ormai perso il fascino del proibito o del rischioso. Rimanevano solo alcuni limiti da superare, tra cui quello di attraversare la Tuscolana, che, allora per noi rappresentava il limite consentito dalle apprensive madri. Cosa che facemmo, comunque, senza grosse problematiche di coscienza, in occasione della venuta di un grosso circo, forse Orfei, negli spazi di fronte la chiesa di San Giovanni Bosco. Scoprimmo, nell'occasione, che l'oltre Tuscolana, era assolutamente simile a quello che già conoscevamo. Niente di più, niente di meno e, se non fosse stato per la curiosità suscitata dal circo, sarebbe potuto tranquillamente rimanere un tabù senza altro significato,oltre quello di sfida al divieto dei genitori. Per il fumare, eravamo ancora troppo piccoli, anche se qualcuno, aveva già azzardato l'ebbrezza di qualche tiro rischiando di tossire fuori anche le tonsille. Il sesso era, altrettanto ovviamente, un curioso mistero ma assolutamente fuori portata e, anche tutto sommato, a quell'età poco avvertito come cosa importante o necessaria. Avremmo conosciuto in seguito, in modo assolutamente confuso, travolgente e impattante, cosa significasse con i tanti tormenti e le rare gioie. Durante l'inverno spesso, ci si riuniva a casa di qualcuno e, agevolati dal buio e dalla noia, spesso partivano racconti rimasticati e rivisti dai narratori, per renderli ancor più spaventosi, di spiriti, fantasmi, avvenimenti inquietanti con lupi mannari e altri mostri. Fatti di cui si giurava e spergiurava la veridicità accertata personalmente o, più spesso, dai nostri genitori, cosa che spazzava via eventuali dubbi. E fu in uno di quei momenti che qualcuno accennò alla presenza nei prati vicino la ferrovia, di una grotta misteriosa chiamata “dei cento scalini”. Presenza che tutti conoscevamo ma, che fino ad allora, nessuno aveva mai ipotizzato neanche lontanamrnte di andare a cercare. Figuriamoci, addirittura, pensare di entrarci dentro. Cosa non certo dovuta, come già dimostrato, al timore dei rimproveri genitoriali, quanto, piuttosto, alla sinistra fama che l'accompagnava e alle inquietanti voci che la riguardavano. Tutto sommato l'ignoto, il mistero per quanto affascinanti e attraenti rappresentano comunque e sempre, un limite difficilmente valicabile o sperimentabile a cuor leggero.Dubitare e ironizzare al sicuro in casa, è un conto. Affrontarne il potenziale, anche se improbabile rischio, proprio per la sua componente di imponderabilità è tutt'altro. Ma, figuriamoci se,a quell'età, nel momento in cui qualcuno lanciò l'idea di andarla a visitare, qualcun altro abbia avuto la voglia di mostrarsi timoroso o, ancor peggio, vigliacco. E, fu così che tra mille timori, mai ostentati chiaramente, cercando magari astutamente il cavillo o l'impedimento che potesse mettere in dubbio la cosa o almeno, ritardarla, si arrivò, comunque al giorno fatidico. “E' deciso, si va! E, se avete paura, statevene a casa da mammà!” Ovviamente nessuno pensò di rischiare lo sbeffeggio e l'emarginazione perenne. Così, armati di candele (le torce allora erano merce rara e preziosa), fiammiferi, un po' di corda e qualche bastone (per la serie”non si sa mai”), l'improbabile manipolo di piccoli cacciatori del mistero si mise in cammino, seguendo le indicazioni di qualcuno che conosceva l'ubicazione approssimativa della famosa grotta. Era nel mezzo di un campo, normalmente seminato a grano. Si presentava non come una grotta, come l'avevamo immaginata, ma come un piccolo manufatto in cemento. Manufatto alla cui apertura ci avvicinammo con malcelato timore e altrettanta manifesta curiosità. Accidenti se era buio là dentro. Abituando gli occhi all'oscurità si intravedeva, subito dopo l'ingresso, una scala con i famosi scalini che in realtà, pur essendo tanti, erano meno dei cento del nome. Il buco nero e inquietante che si percepiva alla fine degli scalini a tutto induceva meno che alla tranquillità, Comunque, piano piano, cercando di non scivolare su quegli scalini umidi, tenendoci stretti l'uno all'altro, lentamente, al tenue chiarore della luce delle candele arrivammo nel fondo. No, decisamente non era una grotta naturale. C'erano sarcofaghi, piccole colonne, nicchie laterali, aperture basse laterali parzialmente piene di terra che sembravano portare ad altri locali.Su tutte spiccava, però, la galleria principale. Galleria che, si vociferava,portasse fin sotto San Giovanni in Laterano e che seguimmo finchè la piccola luce in alto dell'entrata rimase visibile e rassicurante. Nostra personale stella polare che ci indicava la via del ritorno. Quando non fu più in vista e il proseguire diventò ancor più difficoltoso per il tanto materiale franato e, anche per qualche osso inquietante trovato tra la terra e i sassi, decidemmo che la prova coraggio era stata superata da tutti a pieni voti. Si poteva,quindi, senza rischio alcuno di perdita di stima perenne, tornare fuori alla luce del sole. Luce che mai fu accolta con maggior piacere e sollievo. Il tabù era stato, comunque infranto. Ci ritornammo, poi altre volte, sempre con un po' di timore, ma senza più la necessità di dover dimostrare qualcosa. Ogni volta scoprimmo altre cose interessanti ma mai quello di cui si vociferava ed si temeva di più. Nè lamenti di anime in pena né apparizioni di spiriti inquieti. O, forse, nel caso ci fossero state veramente presenze strane, avranno sicuramente, provato tenerezza e manifestato il dovuto rispetto a bambini che, coraggiosi e incoscienti quanto si vuole, ma che mai avrebbero potuto sfidare forze dell'occulto. Per quelle ci sarebbero state necessarie maggiori conoscenze, e,ancor più sicuramente, una maggiore maturità. MIZIO https://www.parcodegliacquedotti.it/il-nostro-esperto-tomba-dei-cento-scalini/