mercoledì 24 giugno 2015

E' SOLO UN FILM?




Scorri rapidamente gli innumerevoli post su Facebook sapendo già che la maggior parte sono inutili, ripetitivi, provocatori alla ricerca di qualcosa che accenda la fantasia e la curiosità. Improvvisamente ti imbatti nella  richiesta di un gruppo che invita a menzionare i film italiani che hanno contribuito alla crescita della nostra coscienza politica e sociale. E ti ritrovi a confrontare i tuoi ricordi con quelli degli altri componenti, scoprendo che, anche per alcuni molto più giovani le pietre miliari, quelli capaci di scuotere le coscienze appartengono ad un periodo che va dal dopoguerra alla fine degli anni ’70. Ritrovi Bertolucci, Rossellini, Monicelli, Pasolini, Volontè. Nomi e film capaci di sconvolgerti, di fotografare una realtà che era patrimonio collettivo nella sua evoluzione e non appariva lontana ed estranea alle vite di ognuno. In effetti mettendomi a ripescare nella memoria, negli ultimi decenni del secolo scorso e nei primi dell’attuale abbiamo avuto modo di apprezzare qualche autore, qualche film ci ha colpito per la delicatezza o per le tematiche trattate, qualcun altro per le meraviglie degli effetti speciali, ma nessuno, o quasi, capace di spostare o condizionare scelte di vita politica e collettiva. Molto, indubbiamente, è dipeso dall’abbondanza e dalla varietà dell’informazione che ha messo chi vuole, nella condizione di essere informato, molto più di prima, anche se in maniera caotica e superficiale, rendendo superflua la funzione pedagogica del film, relegato, quindi, quasi esclusivamente alla funzione dell’intrattenimento. Questo è vero, ma viene in mente che nel periodo di cui si parlava prima, la vivacità e la capacità di compenetrarsi nel sociale non riguardava solo la filmografia ma tutto il mondo dell’arte in genere. La musica, i testi dei cantautori, il teatro, l’arte figurativa, la letteratura, la fotografia, tutto sembrava contribuire in maniera consapevole ad una presa di coscienza collettiva.
Tutto questo per dire che forse, oltre che guardare obbligatoriamente e doverosamente, al futuro, varrebbe la pena di fermarsi a riflettere su quale corto circuito mediatico collettivo abbia permesso che quella spinta, quel sentire comune, sia stato depotenziato privilegiando una visione molto più attenzionata sul singolo piuttosto che su una crescita collettiva. Si è perso progressivamente quel tessuto connettivo che permetteva di sentire i problemi del singolo o di una categoria come un  problema di tutto il corpo sociale. E bisogna avere il coraggio di ammettere che si è perso, certo, per l’evolversi del modello sociale imposto da poteri sovranazionali, il cui compito, però, è stato di molto facilitato dalle scelte che  sono state fatte da chi aveva storicamente il compito di alimentare una visione diversa. Si è scelto di confrontarsi sullo stesso terreno scelto dall’avversario, con il risultato di essere considerati progressivamente ormai, assimilabili nella stessa logica. Oggi abbiamo ex leader politici che fanno film intervistando bambini, anche in modo simpatico, ma si fa questo perché incapaci di scuotere coscienze e avere una funzione credibile di guida bruciata sull’altare di un realismo politico pro domo sua.
“La classe operaia va in paradiso” oggi sarebbe un film improponibile perché l’ottica è esattamente rovesciata rispetto ad esempio al film, molto più recente “Tutta la vita davanti” sul lavoro precario cui spesso é stato accostato. Lì c’era un problema collettivo di sfruttamento che veniva percepito come tale e dava vita a scelte e risposte collettive, di qua c’è lo stesso dramma collettivo che viene vissuto e percepito come personale, quasi, colpevolizzandosi per la propria condizione. L’indice non viene quasi più puntato sui responsabili reali e, quando lo si fa, è sempre in modo limitato e individuale.
Alla fin fine questo pistolotto, partito da un semplice sondaggio sui gusti cinematografici, diventa un invito a riflettere sulle scelte e sulle direzioni da intraprendere. Il futuro si costruisce partendo dal riconoscimento degli errori del passato e, soprattutto, coscienti che potrà diventare tale solo quando ci sentiremo tutti coinvolti nella sua costruzione.
E chi vuol capire, capisca!
Ad maiora.

MIZIO

martedì 23 giugno 2015

L'UOMO DELL'ACQUA

waterman

Lo hanno soprannominato "Waterman of India" per il suo prezioso contributo nel rendere disponibile l'acqua alle popolazioni di centinaia di villaggi. Vivere lontani dalle fonti d'acqua potabile significa percorrere chilometri ogni giorno per raggiungere l'oro blu, un compito molto pesante che di solito viene affidato alle donne.
Ma Rajendra Singh ha deciso di mettersi in gioco per fare la differenza. Nello stato del Rajastan è considerato un vero e proprio eroe perché da solo è riuscito a riportare acqua in cinque fiumi che risultavano a secco da decenni.
Dopo la laurea in medicina ayurvedica, Singh nel 1985 si trasferì nel quartiere di Alwar Rajastan con l'intenzione di dedicarsi all'agricoltura per occuparsi di guarigione non soltanto rispetto al popolo indiano ma anche per quanto riguarda l'ecosistema sofferente di quella regione semi-arida.
Singh aveva notato che la popolazione della zona stava diminuendo e che la maggior parte degli abitanti del villaggio avevano lasciato le loro case dopo che il fiume Arvari si era prosciugato negli anni Quaranta. Spinto da un forte desiderio di aiutare gli abitanti del villaggio, si assunse il compito di riportare l'acqua in quelle terre.
Per compiere la propria missione ha elaborato una strategia unica attingendo alle conoscenze antiche indiane di geologia, idrologia e ecologia. Ha introdotto il concetto di "johads", dei serbatoi di stoccaggio dell'acqua piovana costruiti in pietra o con altri materiali disponibili. Questi serbatoi sono serviti per ricostruire i livelli d'acqua sotterranea e superficiale in fiumi e torrenti.
L'acqua raccolta durante la stagione delle piogge, grazie a questi serbatoi, può essere utilizzata dalle popolazioni dei villaggi per tutto il resto dell'anno. Inoltre l'acqua immagazzinata filtra lentamente nel terreno e va a riempire le falde acquifere.
Ha in seguito costruito delle dighe su piccoli fiumi e torrenti. Queste dighe non fermano completamente il flusso d'acqua ma formano laghetti che gli abitanti possono usare per le proprie esigenze. L'acqua in eccesso continua a scorrere a valle.
Nel corso degli anni la sua strategia ha funzionato. L'acqua catturata dai johads durante i monsoni ha potuto colmare le falde acquifere per la fornitura locale di acqua potabile e ha aiutato a rinverdire la vegetazione di oltre 1000 villaggi.
Il fiume Arvari è tornato in vita insieme ad altri quattro fiumi della regione. La copertura forestale della zona è aumentata del 33%. Le persone che avevano abbandonato i villaggi lentamente hanno iniziato a fare ritorno a casa, al loro stile di vita tradizionale.

L'aver riportato in vita un fiume che risultava prosciugato da decenni, grazie a strumenti rudimentali, è considerato un vero e proprio miracolo della vita reale. Ispirato dal successo ottenuto, Singh ha fondato l'organizzazione no-profit Tarun Bharat Sangh (TBS), attraverso la quale aiuta migliaia di persone a risolvere i problemi di scarsità d'acqua. Dal 1980, TBS ha costruito oltre 4500 johads che raccolgono l'acqua piovana in oltre 850 villaggi in 11 distretti in India.

lunedì 22 giugno 2015

PSICO SOCIOLOGIA DEI VALORI

Un nuovo contributo dell'amico Dott. Maurizio Santopietro

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Psico-sociologia dei “valori”: concreti modulatori del comportamento

Spesso il concetto di “mancanza di valori” sembra esprimere l’idea di assenza: di “educazione”; di “principi morali”; di “rispetto per l’altro”; di “altruismo”, di “sensibilità umana”, e, in casi più gravi, di “insufficiente cultura della vita”, ecc... Secondo il senso comune, tale carenza sarebbe causata dallo “sfrenato egoismo”; dal “lassismo educativo”, dalla caduta di “ideologie alternative”, dall’ “arrivismo” ecc... che faciliterebbero, presso i giovani (in particolar modo quelli socialmente svantaggiati), l’assunzione di condotte “antisociali” o esageratamente omologate alle mode vigenti. Giovani, si dice, “privi di valori”. La domanda che viene spontanea è la seguente: perché sono sempre i giovani il bersaglio di tali critiche? E perché sono sempre loro la parte socialmente più vulnerabile all’esposizione del modello cultural-consumistico? Prima di provar a rispondere ai quesiti posti, è utile definire i valori in termini psicodinamico e psicofisiologico. Nell’accezione psicodinamica essi esprimono le “strutture psicologiche interne” e, in particolar modo, le “istanze super-egoiche”, la cui attività intrapsichica, avendo diverse origini (psicologica, culturale, etica, sociale, educativa, religiosa, ecc...), ha la funzione di adeguare gli schemi comportamentali ai diversi contesti relazionali. In termini psico-fisiologici “strutture di personalità” e “valori” corrispondono alla formazione di specifici aggregati neuronali (pace-maker), che presiedono la manifestazione dei rispettivi comportamenti. Questi “pace-maker”, che si integrano con il repertorio di risposte geneticamente predeterminate, si attivano in relazioni a specifiche classi di stimoli relazionali e non ad altre essendo gerarchicamente organizzati secondo una priorità soggettivamente data. Collegato sinteticamente l’astratto concetto dei “valori” con la concretezza psicofisiologica del comportamento manifesto, ora è necessario considerare l’interazione con il relativismo morale. Infatti, nel periodo precedente l’industrializzazione, i modelli, sociale e familiare, organizzati secondo le esigenze del fattore primario, seguivano, in maniera rigidamente stereotipata e, coerentemente strutturata, la chiara suddivisione dei ruoli, da cui emergevano effetti psico-sociali d’indubbia valenza coesiva, che rafforzavano il senso d’appartenenza culturale. In tale contesto, anche il modello educativo era adottato coerentemente, dalla famiglia e dalla scuola, luogo unificato di apprendimento, di didattica, di educazione civica, di morale e di pedagogica. Questa situazione avrebbe favorito la condivisione sociale per quei valori all’epoca dominanti, riducendo notevolmente il gap culturale tra gli adulti e i giovani, diminuendo, quindi, l’intensità dello “scontro” generazionale, che é, in una certa misura, naturale. Gli effetti scatenati dal fatidico “boom economico”, dalla protesta giovanile del “’68”, dall’emancipazione della donna, dall’affermazione del modello tecnologico liberal-consumistico e dalla caduta di ideologie antagoniste, avrebbero prodotto profonde disgregazioni: a) nell’organizzazione della famiglia che, ormai “affettivamente atomizzata”, rende difficoltosa la formazione dei processi di coesione dell’Io, e non fornendo più coerenti modelli di valori alle nuove generazioni, perde parte della capacità di “compattezza morale e psicologica”, anche per la scarsa autorevolezza dei genitori in campo educativo; b) nel sistema scolastico che, non essendo più la sede unificante delle varie esperienze di cui sopra, comporta ulteriori “frammentazioni”; c) nel modello socio-culturale che, divenuto molto più complesso. Tutto ciò incrementerebbe la diversità culturale e comportamentale fra le varie generazioni e, di conseguenza, aumenterebbe la differenza dei modi di “vedere” e di “sentire” fra adulti, giovani, adolescenti e bambini. I valori veicolati dal modello consumistico, sembrano imporsi anche nell’ambito delle relazioni interpersonali, assumendo sfumature pericolosamente strumentali anche fra i più piccoli. La complessità sociale, con le sue infinite articolazioni contradditoriamente frustranti, fa emergere, valori incoerenti, ambigui, ambivalenti che, interiorizzati da piccoli e giovani, favoriscono la formazione di strutture di personalità sofferenti, “nevroticamente conflittuali”, “dissociative”. Ma anche una marcata adesione ai “normali standard culturali”, non esclude stati d’insofferenza esistenziale. Queste ragioni amplificano la vulnerabilità dei giovani, dovuta ai fisiologici cambiamenti legati all’identità. Inoltre, i giovani sono facili bersagli perché storicamente rappresentano potenziali agenti innovatori, costituendo una minaccia destabilizzante del sistema acquisito, e non sempre possono beneficiare di modelli adulti “sani”.

Pubblicato nel 2003su “L’Attualità” (Periodico mensile di società e cultura, Roma, Dir. C. G. S. Salvemini), 

Dott. Maurizio Santopietro

lunedì 15 giugno 2015

PRIMA GLI ITALIANI? MACCHE', PRIMA I SOLDI!


Migliaia di persone bloccate sugli scogli a Ventimiglia, altre migliaia in transito e accampati alla stazione centrale di Milano, ancora di più in strada a Roma presso la Stazione Tiburtina. Non so se ormai prevale lo schifo, la vergogna, l’indignazione la rabbia.
“Prima gli italiani” continuano a gridare ponendo una scelta che sembra quella posta all’asino di Buridano, che non sapendo cosa scegliere morì di sete.
E’ questa è la fine che aspetta la nostra società? Il nostro definirci civili di fronte a tragedie di proporzioni  bibliche, la risposta che si riesce a dare è dover scegliere chi sacrificare.? Ma sacrificare in nome di cosa e di chi?  Non ci sono soldi per assistere tutti si ripete. Certo se i soldi vengono cannibalizzati per il sistema bancario e finanziario, vengono utilizzati per acquistare aerei da guerra, per finanziare missioni di guerra magari proprio in quei paesi da cui poi fuggono i migranti, per grandi opere faraoniche dalla dubbia e sospetta utilità.
Mancano i soldi, perché gli unici soldi sicuri a disposizione sono quelle dei proventi delle tasse dirette e indirette dei contribuenti obbligati ad essere onesti da un sistema vessatorio che non riesce o non vuole a far pagare gli evasori.
Mancano i soldi perché l’Europa che tutela benissimo gli interessi delle banche e dei poteri forti pretendendo il rispetto degli accordi e dei regolamenti, anche a costo di far affondare interi paesi, non è così rispettosa di altri accordi che prevedono il libero transito non solo delle merci e del denaro spesso sporco, ma anche, se non,  soprattutto delle persone, a prescindere del colore della pelle.

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Mancano i soldi perché manca la volontà e la sensibilità prima umana e poi politica. Mancano i soldi perché i partiti compresi quelli di sinistra e quelli che si propongono come nuovi non vanno oltre l’interesse spicciolo di bottega e la propaganda. Non mancano i soldi, manca soprattutto il coraggio di cambiare, perchè si da per scontato che tutto ciò avvenga quasi per volontà divina e non per scelta degli uomini.

Il prendere coscienza delle responsabilità da solo però non basta, se non facciamo nostro lo “stay human” sempre, a cominciare da oggi.
Ad maiora 

MIZIO

giovedì 11 giugno 2015

I LEADER NASCONO ALLA POSTA

Nel 2015 i leader nascono alla posta


Negli anni '20 in una birreria di Monaco prese il via la folle e criminale ascesa del fuhrer nazista. Ora io non conosco l'ambiente delle birrerie tedesche dell'epoca ma credo non siano state molto diverse da quello che si può incontrare in un nostro banale ufficio postale. Cinquanta persone accaldate, sudate, rassegnate in fila per pagare odiose tasse o bollette. La fila scorre lentamente, quando all'improvviso una voce stentorea comincia ad imprecare ad alta voce contro tutto e tutti e "L'animadelimegliolimortacciloro, noi qui a pagà e loro a godesse li sordi nostri". Un leggero brusio, qualche cenno d'assenso, molti sguardi perplessi. Il colui visto lo scarso appeal dell'invettiva precedente, cala l'asso, sicuro che sarà quello vincente :"Ve pare giusto che noi dovemo pagà e a quelli glie danno quaranta euro ar giorno pe' nun fa un c***o? Perchè nun li danno a li figli nostri disoccupati?". Improvvisamente cinquanta corpi accaldati, sudati, rassegnati vengono repentinamente posseduti dallo spirito di altrettanti militanti leghisti o di Casa Pound.
Vengono evocati roghi purificatori, cannonate, calci un c**o. A questo punto il capo popolo si autocandida per la risoluzione definitiva del problema:"Ah, se comannassi io pe 'na settimana......!" Educatamente e sommessamente nonostante l'irritazione crescente, faccio notare che i famosi 30/40/50 boh, euri al giorno non vengono dati ai profughi, ma a chi li ospita, quindi a degli italiani che ne traggono un reddito. Non considerando, poi, quelli che i soldi, se li mettono direttamente in tasca. E poi perchè tanta veemenza contro chi sta peggio di noi non viene indirizzata contro chi da decenni ci deruba costantemente di soldi e diritti?" Nonostante la mia esperienza mi sono reso subito conto di aver sbagliato luogo e momento. Il colui coglie la palla al balzo "Eccolo, uno de quelli che li difende. Ecco la rovina dell'Italia chi è. So quelli come lui, i buonisti, i comunisti che li difendono". Riacquistata subito la lucidità necessaria per capire che non erano pronti per una disquisizione sull'accoglienza, sulle responsabilità dell'occidente,sulla disperazione di chi fugge da guerra e fame, mi sono rimesso ordinatamente in fila.
"Numero 76" per fortuna è arrivato il mio turno, pago e mi allontano accompagnato da sguardi che trasmettevano incredulità e schifo. Tra tanti solo un'anziana signora mi fa un cenno d'approvazione col capo.
Oggi i nuovi leader possono nascere anche in fila alla posta.

Ps: Il colui doveva pagare l'Imu per seconda e terza casa probabilmente ex abusive e condonate.
Ad maiora

MIZIO



domenica 7 giugno 2015

NUTRIRE IL CORPO E LO SPIRITO

Un altro prezioso e interessante contributo del Dott. Maurizio Santopietro che analizza il rapporto o, non rapporto, tra cibo per il corpo e  cibo dell'anima.

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Malnutrizione, malattia del corpo e dello spirito Il principio: L’uomo non vivrà di solo pane, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio (Mt 4,4). Il sistema: I poveri li avrete sempre con voi[…] (Mt 26,11). La constatazione: Siamo quello che mangiamo (L. Feuerbach). Il rimedio: Bisogna che Egli cresca, e che io diminuisca (Gv 3,30). A maggio 2015 si è inaugurata a Milano l’Expò mondiale sul tema Nutrire il Pianeta. Energia della vita, quasi ad accorgersi solo ora della disparità all’accessibilità al cibo fra gli emisferi nord e sud del globo. L’intenzione più elevata, che sarebbe “cosa buona e giusta”, sarà quella di redigere una sorta di “Carta internazionale del diritto all’alimentazione”. Vedremo. Senza approfondire in questa sede le matrici di ordine economico, politico e sociale, è palese che questa netta sperequazione sia espressione di un’iniqua distribuzione di beni e risorse, che favorisce la concentrazione di beni nelle mani di pochi a danno dei moltissimi, soprattutto in questi ultimi decenni in cui il divario fra ricchi e poveri è terribilmente aumentato. La malnutrizione non va identificata esclusivamente con la mera denutrizione o la carente assunzione di sostanze macro e micro nutrizionali (proteine, carboidrati, lipidi da una parte, vitamine e oligominerali dall’altra), infatti nei Paesi occidentali la malnutrizione si manifesta anche per cause opposte (eccesso di nutrimento), colpisce un alto numero di persone e bambini, e causa obesità e patologie correlate o anoressia, patologico paradosso del rifiuto di cibo che si verifica nella parte del mondo opulento. Si pone così in evidenza l’ambivalenza del fenomeno: ci si ammala e/o si muore sia per eccesso che per mancanza di cibo. Manca l’equilibro, l’armonia nella distribuzione della fruibilità e nella composizione bilanciata della dieta quotidiana, laddove ci sia disponibilità. 1 In ambito spirituale, Cristo si offre da oltre duemila anni come “vero cibo e vera bevanda”: In verità, in verità vi dico: Chi crede in me ha vita eterna. Io sono il pane della vita. I vostri padri mangiarono la manna nel deserto e morirono. Questo è il pane che discende dal cielo affinché uno ne mangi e non muoia, Io sono il pane vivente che è disceso dal Cielo; se uno mangia di questo pane vivrà in eterno; or il pane che darò è la mia carne, che darò per la vita 1 La FAO stima che la malnutrizione causi 9 milioni di morti (per insufficienza alimentare e denutrizione) e 6 milioni nei Paesi Occidentali, per patologie dovute ad obesità e cattive abitudini alimentari (Radiogiornale Rai, 01/05/2015). 2 del mondo […]. Perciò Gesù disse loro: In verità, in verità vi dico che se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete vita in voi (Gv. 6,47 ss.). La disponibilità di questo specifico cibo spirituale, al contrario di quello che deperisce, è per tutti gli uomini e in modo equilibrato. Si sente dire talvolta che il cibo spirituale sarebbe fruibile quasi solo in una specifica regione del mondo (area Occidentale). Un comunissimo pensiero era fino a qualche tempo addietro il seguente: come fanno a salvarsi quelli che vivono nelle zone sperdute del mondo? Si insinuava così che Dio non avrebbe distribuito equamente sulla terra il “pane” della salvezza, ma avrebbe discriminato come fanno gli uomini! Si ignorava stoltamente che Dio è giusto Giudice, che ha dato a tutti il diritto di diventare suoi figli, a prescindere dal luogo di nascita, dall’appartenenza etnica e culturale (Gv 1,12)! Nelle prime esperienze di partecipazione alla cena del Signore, i cristiani della chiesa di Corinto dettero pessimo esempio per il modo sacrilego con cui vi si accostavano, riproducendo squilibri sociali tipici del mondo pagano. Alcuni consumavano anzitempo pasti fastosi mentre altri erano a digiuno, e altri ancora addirittura si ubriacavano (1 Cr 11,17 ss.). Era un oltraggio al memoriale, cioè all’annuncio dell’Evangelo fatto proprio mediante la cena del Signore (1 Cr 11,26 ss.). Anche nella nascente chiesa di Gerusalemme, con migliaia di neoconvertiti, sorsero dispute fra ellenisti ed ebrei a causa dell’infelice distribuzione dei pasti alla mensa comune e, in particolare, nell’assistenza alle vedove. Nella circostanza, gli apostoli fecero scegliere alcuni servitori (diaconi) perché risolvessero la questione, mentre gli apostoli stessi si dedicavano alla predicazione (Atti 6,1 ss.), che era la vera priorità. Nella Bibbia ebraica troviamo un’altra dimostrazione d’immaturità spirituale e civica. Durante il cammino nel deserto, Dio inviò al popolo manna e quaglie giorno dopo giorno, immancabilmente. Cosa fecero i furbi? Cercarono di accumulare quanto più cibo possibile, nonostante il divieto tassativo di non raccogliere e consumare oltre il giusto quantitativo giornaliero per l’intera famiglia. I furbi non compresero, e furono puniti col rapido deterioramento del cibo ammassato, divenuto incommestibile e maleodorante (Es 16,13 ss.). Se Dio avesse consentito la razzia di cibo oltre il reale fabbisogno quotidiano per ogni gruppo familiare, altri ne avrebbero certo sofferto; si sarebbe generata ingiustizia, forse fino a realizzare un mercato nero! Questi sono i limiti della mentalità umana volta al male e priva della forma mentis di Dio, di Cristo (e ciò in persone che, pure, si erano affidate al Signore). Mancò l’applicazione del principio secondo cui non di pane soltanto vive l’uomo, ma di ogni parola che procede da Dio, (Mt 4,4). Mancò il rimedio: “Bisogna che egli [Dio e/o Cristo] cresca, e che io diminuisca”, oggigiorno ancora più valido. 3 Continuando nel simbolismo Cristo – cibo costituito dalla sua Parola, dal suo insegnamento, egli diviene un complesso di “sostanze essenziali” necessarie a far sviluppare la salute spirituale, a patto però che vengano assunti tutti i fondamentali del suo insegnamento. Se infatti dovessimo ingerirne arbitrariamente solo alcune parti, saremmo malnutriti, indeboliti, metteremmo a serio rischio la vita morale, esporremmo noi stessi al rischio di “malattie mortali”, esattamente come avviene nella realtà materiale. Ad esempio, Lutero riteneva lo scritto di Giacomo una “lettera di paglia”, perché enfatizza le opere rispetto alla fede, disposizione interiore non verificabile immediatamente. Gli uomini, soliti a semplificare le realtà, possono contrapporre impropriamente i due “macronutrienti” delle opere e della fede, che invece hanno qualità complementari e sono entrambi rilevanti nella “dieta spirituale” quotidiana. Non c’è motivo quindi per creare un insensato antagonismo fra opere e fede. È vero che Lutero dovette contrastare il mercato delle indulgenze e la simonia, ma Giacomo, ovviamente, non intendeva contrapporre le opere alla fede (Gc 2,17 s.)! Restando nel paragone alimentare, la dieta del cristiano è “onnivora”, egli si ciba indistintamente di TUTTI gli insegnamenti, tutti gli esempi e tutte le prescrizioni presenti nella Bibbia, in particolare nel Nuovo Testamento. È possibile però che alcuni, per immaturità spirituale, assumano ancora il “latte spirituale”, nonostante la lunga militanza nella fede (Eb 5,12). Potrebbero essere coloro che dicono “Io sono nella chiesa da trent’anni”, “io da quaranta”, come se non avessero più disponibilità ad apprendere dal Signore, come se il fattore cronologico da solo fosse sufficiente a garantire la vita spirituale. Sarebbe più utile chiedersi: sono stato cambiato dalla “dieta spirituale” di Cristo in tutto questo tempo? E quanto sono cambiato? Spesso, manca questo atto di profonda umiltà, e talvolta non ci si accorge di regredire, come appunto ci ricorda l’apostolo Paolo (Eb 5,2). Ora però poniamo al centro di un’ipotetica tavola del cibo e, in una seconda tavola virtuale, Cristo quale cibo spirituale. Alla prima tavola facciamo accomodare un vegetariano, un fruttariano, un vegano, un salutista e un “onnivoro”; alla seconda poniamo tanti invitati quante sono le centinaia di confessioni che si rifanno al cristianesimo. Proviamo a ragionare: quanti si adatterebbero alla sola “pietanza spirituale” che è il Cristo, senza rinunciare alla propria dieta? La risposta ecumenica, cioè di comodo, starebbe nello slogan: uniti nella diversità… nutrizionale! Così verrebbe fuori un Cristo “irriconoscibile”, cioè un pasto non digeribile per tutti, non gradito a tutti, ostico per molti, non salutare per alcuni, considerato che non potrebbe soddisfare l’appetito di tutti, e il rischio è che alcuni diventino anche INAPPENTENTI! Esiste però un pericolo difficile da scorgersi, per la sua parvenza di bontà. Corrono tale rischio soprattutto i predicatori, i pastori (vescovi) o i credenti stimati i quali, pensando di essere nobilmente ipernutriti del “cibo di Gesù”, alimentano di soppiatto il proprio ego, usano il Cristo 4 come mero mezzo di autoaffermazione, come “nutrimento narcisistico”! Attenzione perciò a coloro che si reputano detentori di verità assoluta e vogliono salire sul pulpito più alto, attenzione a coloro che “usano” il pane di Cristo per fini strumentali; pur avendo compiuto opere potenti, pur avendo molto predicato, pur avendo scacciato demoni, non troveranno conferma da parte del Signore: “Io non vi ho mai conosciuti, allontanatevi da me, voi tutti operatori di iniquità” (Mt 7,21 ss.). Hanno mangiato “pane a tradimento”. E saranno gli stessi apparenti bravi cristiani quelli che, pur avendo manifestato doti eccezionali nell’oratoria, nelle opere potenti, in estremi sacrifici personali, pur avendo esibito doti eccezionali, hanno trascurato invece la Carità, l’Amore (1 Cr 13,1 ss.). Ma in termini evangelici l’amore coincide con l’osservanza della parola del Signore (1 Gv 5,3)! Per non essere malnutriti, dovremmo pertanto ambire allo stesso cibo assunto da Gesù, il figlio dell’uomo (Gv 4,34). All’Expò di Milano manca proprio il padiglione principale, quello dedicato al cibo spirituale, il vero Pane dell’anima!


© Riproduzione riservata – M. Santopietro 2015

venerdì 5 giugno 2015

FOLLIA


Ah, fosse vera la follia,
non fosse vestito di velina
l'avrei fatta mille volte mia.
e indossata ogni mattina.


MIZIO



giovedì 4 giugno 2015

LA MORALE E' SEMPRE QUELLA? BOH!


Già il Machiavelli  nel XVI secolo aveva sdoganato e reso accettabile la doppia etica pubblica (politica) e privata. Quella che prima di allora passava attraverso un’imposizione più o meno autoritaria del potente di turno senza il bisogno di alcun consenso popolare e senza necessità di essere vagliata sotto la lente della morale e dell’etica, di fronte al risvegliarsi, almeno in quella parte di umanità che poteva permetterselo, della dedizione alle speculazioni filosofiche o alla ricerca del bello come mezzo di avvicinamento al divino, rese necessario, probabilmente, mettere al riparo da critiche e censure troppo severe i potenti facendo filtrare le loro azioni attraverso la lente deformante della ragion di stato. Cioè di un comportamento la cui  etica era permesso sottrarsi alle normali censure morali in quanto espressione di un interesse ben maggiore di quello del singolo che le ha materialmente adottate.
Di questa facoltà autoassolutoria si sono sempre avvalsi tutti i poteri siano essi tirannici o quelli più aperti e democratici, non dimenticando la doppia morale adottata spesso, anche dalle religioni, rigide persecutrici della morale privata giustificatrici delle proprie malefatte, ovviamente tutte per la maggior gloria di Dio.
Quindi l’evoluzione della coscienza privata e collettiva ha seguito percorsi paralleli ma distinti con pochi punti di contatto che non siano quelli imposti dal riconoscimento di un minimo comune denominatore.
La sensibilità del singolo segue quella che è una propria evoluzione (spirituale, di coscienza chiamiamola come ci fa più piacere) determinata dal suo livello di partenza, dagli ambienti e dagli accadimenti della sua vita che rimane singola e non cooptabile. Quella collettiva alla luce del cosiddetto bene comune, è molto più legata all’interesse specifico e relativo al momento, per cui sono stati possibili, nella storia anche periodi di ritorno a forme di barbarie che si ritenevano ormai superate, come nel periodo nazista e fascista rese accettabili, in quel caso, dalla presunta  necessità di ordine e dal riconoscimento di una, ancor più presunta, superiorità razziale.. Il livello medio di evoluzione individuale era, in quel periodo, indubbiamente superiore a quello collettivo rappresentato da quei regimi che, infatti, e senza troppi rimpianti sono stati spazzati via dalla presa di coscienza singola, prima che dalla reazione collettiva di rigetto.
Questo, in parte, spiegherebbe come mai, anche in un periodo come l’attuale in cui i mezzi a disposizione, l’informazione complessiva, permette al singolo un’acquisizione di notizie e punti di vista molteplici, il tutto non riesca a trasformarsi in qualcosa di collettivamente significativo. La risposta potrebbe essere già compresa nella domanda, l’acquisizione diretta di informazioni favorisce una presa di coscienza individuale e soggettiva che difficilmente riesce a riconoscersi in un progetto collettivo in cui ognuno è costretto a rinunciare ad una parte della propria visione e a riconoscere pari dignità anche a quella di altri. E questo penalizza soprattutto quei movimenti che fanno dell’esercizio critico e propositivo scevro da interessi particolari il proprio modus operandi. Qualcuno che legge sta pensando alla sinistra italiana? Non sbaglia, proprio a quella sto pensando anch’io.
Si parla da anni di soggetto unico, di alternativa senza riuscire a trovare un punto d’equilibrio che soddisfi le mille visioni individuali. A parte le trite e ritrite critiche (giuste e giustificate) ai leader, inadeguati, arrivisti, superbi, vecchi non dobbiamo forse esercitare lo stesso esercizio critico nei nostri confronti? Quante volte ognuno di noi ha privilegiato il proprio orgoglioso punto di vista rispetto a un pur piccolo passo avanti collettivo? Siamo sinceri. Siamo diventati un po’ tutti autosufficienti dal punto di vista cognitivo, ascoltiamo le idee altrui con il sopracciglio alzato in segno di sufficienza e, senza spesso ascoltare, pensiamo già alla difesa del nostro punto di vista, ovviamente migliore a prescindere.
Chi ha avuto la pazienza di arrivare sin qui nella lettura si chiederà: si ma che c’entra la doppia morale singola e collettiva con tutto questo?
Bene provate a liberarvi per un attimo dei vostri pregiudizi e delle vostre visioni che si scontrano con la grigia realtà quotidiana e pensate che il vostro mondo e la realtà in cui si è calati possano essere, invece, frutto dell’identica visione (morale, politica di coscienza).
Ecco il punto, la doppia morale, seppur comprensibile, non può essere tollerata. Ciò che è moralmente valido o, al contrario, censurabile, per il singolo non può essere giustificato e valido a qualunque altro livello sia esso politico e/o sociale.
Sognatore? Forse! Ma se imparassimo a coltivare  la nostra coscienza come coltiviamo il nostro ego e trasferissimo il tutto a disposizione degli altri, sfrondandolo di quel tanto di auto celebrazione e supponenza, credo che qualche passettino in avanti si possa fare.
Ad maiora


MIZIIO

lunedì 1 giugno 2015

LA RETORICA NON VINCE

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Partiamo dal presupposto che il 50% degli italiani aventi diritto non ha ritenuto necessario votare. Qualsiasi altra valutazione va fatta sotto questa lente d'ingrandimento. Non c'è riscossa della destra, non c'è tenuta del PD, non c'è vittoria del M5S, non c'è la sinistra (ma quella, purtroppo, non c'era neanche prima). Le valutazioni e le riflessioni vere le faranno in pochi, la maggior parte sarà lì a pesare con il bilancino del farmacista la propria non vittoria o non sconfitta.
La seconda repubblica è riuscita nell'impresa di allontanare la gente dalla politica, con le sue demenziali riforme (necessarie! Si certo!). Sta uccidendo la democrazia, la partecipazione. Ha creato il substrato perfetto per svolte di tipo reazionario mai riuscite e mai ipotizzate prima. La sinistra abbandonando la sua storica funzione ha facilitato questo obbrobrio, ha delegato alla pura testimonianza o al raggiungimento di un paio di poltrone la propria ragion d'essere. Ha rinunciato ad essere alternativa e credibile.Se la ricostruzione di una sinistra "possibile" dovrà passare attraverso accordi tra sconfitti dalla storia incapaci di leggere il nuovo e, anche, di valorizzare ciò che era, penso sia meglio fermarsi. Per molti dei protagonisti di queste stagioni una dignitosa ritirata sarebbe più apprezzabile di una patetica resistenza.


MIZIO