venerdì 28 ottobre 2011

STORIA E PROPAGANDA DELLE LIBERALIZZAZIONI IN ITALIA



Recentemente il ministro Tremonti ha presentato il suo piano per salvare l'Italia dal debito, principalmente, svendendo i beni pubblici. Questa ricetta apparentemente innovativa ha in realtà origine ben precise che tenterò di spiegare, facendo menzione di alcuni eventi internazionali che influirono sull'economia italiana.

Di Massimiliano Moresco

Lo sviluppo dell'economia dopo la Seconda guerra mondiale
Nel 1944 i potenti della terra si riunirono nella cittadina americana di Bretton Woods per istituire e regolare il mercato e per evitare il disastro della grande depressione del '29.
Gli accordi prevedevano l’istituzione del dollaro come moneta di riferimento (a scapito della sterlina) e la sua convertibilità con l'oro, in modo che fosse garantita da un bene materiale universalmente riconosciuto. Ovviamente tutte le altre valute nazionali dovevano adeguarsi a questo parametro di riferimento. Suddetto sistema dava la possibilità di regolare la convertibilità delle singole valute nazionali con un sistema di cambio che non permettesse grandi oscillazioni. Ciò consentì alle economie più deboli di emergere e in l'Italia si assistette, com'è noto, al grande boom economico.
Ben presto però gli Stati Uniti cominciarono a non rispettare i patti di stabilità della convertibilità della loro moneta con l’oro. Infatti solo dopo due decadi le riserve auree dello stato americano erano arrivate ad un quinto della moneta circolante. In questo contesto l' amministrazione Nixon decise con un atto unilaterale, il 15 agosto del 1971, di sopprimere la convertibilità dell’oro in dollari, decretando così la caduta di uno dei pilastri di Bretton Woods; ciò permise all'apparato industriale e multinazionale americano di agire con maggiore libertà nell'economia mondiale.
Le conseguenze di questo atto sono ben spiegate dall'analisi di Noam Chomsky:
Gli accordi di Bretton Woods miravano a controllare il flusso dei capitali. Nel secondo dopoguerra, quando Stati Uniti e Gran Bretagna hanno creato questo sistema, c’era un gran desiderio di democrazia. Il sistema doveva preservare gli ideali sociali democratici, in sostanza lo Stato previdenziale. Per farlo occorreva controllare i movimenti di capitali. Se li si lascia andare liberamente da un paese all’altro, arriva il giorno in cui le istituzioni finanziarie sono in grado di determinare la politica degli Stati. Costituiscono quello che viene chiamato “Parlamento Virtuale”: senza avere un’esistenza reale, sono in grado di incidere sulla politica degli Stati con la minaccia di ritirare i capitali e con altre manipolazioni finanziarie.[...] Così in tutto il mondo, si assiste da allora a un declino del servizio pubblico, alla stagnazione o al calo dei salari, al deterioramento delle condizioni di lavoro, all’aumento delle ore lavorative.” (1)
Questo evento fu probabilmente origine delle liberalizzazioni, che sotto l'egida di una  maggior efficienza, produsse innumerevoli cambiamenti specialmente nello stato italiano. Difatti a partire dagli anni 80 si diede avvio ad una crescente privatizzazione delle imprese pubbliche e le prime smobilitazioni furono quelle riguardanti le banche. Dal 1936 esse conservavano un assetto di separatezza tra istituti bancari e industria costituendo anche l' importante funzione di controllo dell'economia privata e delle banche ad indirizzo commerciale e privatistico. La smobilitazione della Banca d' Italia avviene precisamente nel 1981 quando, a seguito del mancato rispetto degli accordi di Bretton Woods,  il paese rientra nella sfera di influenza del Fondo Monetario Internazionale, promotrice di una politica scellerata contrassegnata da una riduzione della spesa pubblica e  dalla apertura delle frontiere per la circolazione dei capitali.(2).

In tal contesto la banca nazionale italiana viene nettamente separata dal tesoro, ministero adibito al controllo pubblico della moneta e in questo modo i tassi di sconto non sono più decisi dallo Stato ma dalle leggi di mercato. Siffatto evento sarà propedeutico alla trasformazione della Banca in società per azioni (SPA) nella seconda metà degli anni '90 e il successivo abbandono della moneta Italiana a favore dell'euro.

Dalla fine degli anni '80 comincia lo smantellamento dei beni pubblici maggiori, considerati dei carrozzoni insostenibili per l' economia comune, che faranno rientrare (seppur nel breve periodo) consistenti somme di capitale, anche se, venduti a prezzi di ribasso. Infatti la motivazione principale di tale atto era l'enorme esposizione statale verso il debito pubblico. Per i proponenti vi sarebbe stata una maggiore liberalizzazione, con la possibilità per diversi gruppi imprenditoriali di partecipare all'acquisto di imprese, determinando una conseguente diminuzione dei prezzi. Con tale favola si lasciava intendere come i piccoli imprenditori potessero essere parte attiva all'acquisto ma  la promessa non ebbe gli effetti sperati. Se è pur vero che nel breve periodo, a seguito delle dismissioni, vi siano state entrate piuttosto consistenti , nel medio periodo invece non si rilevarono significativi incrementi. Anzi, a seguito di un rincaro dei prezzi, i servizi apportati sono continuamente e inesorabilmente peggiorati mentre le assunzioni hanno assunto l'aspetto di  una chimera irraggiungibile.

Quest'effetto, è stato provocato dall'instaurarsi di regimi monopolistici o al massimo oligopolistici non interessati a recitare una parte di reale concorrenza. Un rapporto del ministero dell'economia e della finanza del 2006 dimostrava un inesorabile fallacia della prospettiva paventata dalle liberalizzazioni come panacea di tutti i mali. La propaganda dei minori costi si scontra poi con i dati ufficiali del ministero:

2002      2003          2004        2005         2006

Aumento tariffe

+0,1      +0,9           +0,9         +1,5          +1,6

Aumento beni e servizi liberalizzati

 +3,8     +3,6           +2,6        +2,0           +1,9

Prezzi al consumo 

 +2,5      +2,7        +2,2        +1,9           +2,1 2  (3).

Anche la Corte dei Conti, in uno dei rapporti annuali redatto nel 2010, ha evidenziato come tali denazionalizzazioni abbiano prodotto, oltre che uno svuotamento delle casse sociali, un' aumento dei prezzi in numerosi settori come le tariffe legate all' acqua, al gas, alla luce e ai pedaggi autostradali (3).

Il progetto, approvato dal consiglio dei ministri il 30 dicembre del 1992, prevedeva lo smantellamento di storici cartelli pubblici dell'impresa italiana; tra questi basti citare fra gli altri, IRI, ENI, ENEL, IMI, BNL, INA, autostrade e il complesso dell'industria siderurgica. La seconda fase invece prevedeva, ancor'oggi in fase d' attuazione, la dismissione di importanti settori di interesse pubblico: ferrovie, sanità, previdenza sociale, gas luce e per ultima l' acqua. L’ ultimo atto approntato dal governo Berlusconi riguarda proprio il settore delle municipalizzate proprietarie delle condotte acquifere, che, col decreto Ronchi approvato alla camera il 19 dicembre 2009, hanno intaccato uno dei settori di maggior importanza per il bene comune, fortunatamente abrogato grazie al recente referendum popolare (4).

Analizzando la situazione industriale delle imprese pubbliche nel lungo periodo si nota, come fino agli anni settanta (quando è decaduta l' economia legata ai parametri di Bretton Woods) queste potevano vantare un esposizione al debito pubblico poco rilevante. Tal ipotesi è sostenutua da questo grafico:

In esso è possibile notare l' impennata del debito subito dopo gli anni 70 e la minore incidenza prima di tale periodo.
Altresì l'assunto di mobilitare un azionariato diffuso tra i piccoli risparmiatori non regge di fronte alla logica dei fatti. In realtà solo un terzo delle proprietà rientra in questo contesto.

Per inciso la propaganda riguardante il debito pubblico statale, non ha riscontri nei fatti; realtà produttive come l' IMI che poterono vantare un' attivo perdurante da almeno 60 anni furono svendute svuotando così le casse statali di importanti entrate (5). L' IMI svolgeva un' importante funzione sociale. Se durante la guerra si è adoperata nel finanziare e nel riattivare l' economie distrutte del mondo, in cooperazione con altre realtà mondiali, nel dopoguerra è stato finanziatore delle grandi industrie, piccole e medie imprese e  sostegno, sotto forma di prestiti, alla vacillante economia del mezzogiorno. Questa realtà, oltre a garantire un indotto considerevole per l' economia pubblica italiana, dava lavoro a moltissime famiglie.

In quel caldo periodo contrassegnato dalla vicenda di “mani pulite” si consolidarono eventi di rivoluzionari in grado di ribaltare la scena politica. Alcuni politici elevatisi alla ribalta nazionale, come il due volte premier Prodi, decretarono assieme a speculatori internazionali il destino dell' Italia. E' poco nota la vicissitudine assurta agli onori della cronaca come l’affaire Britannia, dal nome del panfilo, sede della riunione di capi di stato, economisti e capitalisti  dove, a largo delle coste siciliane il 2 giugno del 1992, si decretò la fine dello stato sociale e l’ avvio alle privatizzazioni. Oltre a Prodi, c' erano personaggi del calibro di Mario Draghi e Ciampi, rappresentanti di famiglie molto influenti come i Warburg, banche d' affari come Barclays e Goldman Sachs.

La storia dai contenuti spesso frammentari si é esplicitata soprattutto grazie a fonti indirette. Difatti gli organi di stampa ufficiali l'hanno si menzionata ma rivelando ben poco, specificandola tuttalpiù come un fenomeno avvolto da un alone di mistero.

Tangibilmente, inerente alla vicenda, vi sono state interrogazioni parlamentari di personalità congiunte agli schieramenti più disparati, sia di destra sia di sinistra, così come parlamentari legati alla vecchia DC. Tali appelli improntati a gettar luce su vicende d'essenziale interesse pubblico, rimasero sempre inascoltati dalla controparte governativa e contrassegnarono ciò che sarebbe diventata la condotta del potere da li a poco.

Anche negli ultimi anni la vicenda è stata riabilitata dal vituperato Brunetta che, in un convegno del Pdl a Cortina D' Ampezzo, esterna le seguenti affermazioni:
"Ve lo ricordate il Britannia? Se non ve lo ricordate", dice Brunetta, "ve lo ricordo io. Il Britannia è una nave, appartenuta già alla casa reale inglese, che navigò davanti alle coste italiane [...], ospitando dentro banchieri, grand commis dello Stato, esponenti vari della burocrazia... in cui si svolse un lungo seminario, durato un paio di giorni, in cui si trassero le linee della svendita delle aziende di stato italiane".

Non è da meno l' autorevole opinione di Sergio Romano che nel 2009, attraverso Il corriere della sera, rende manifesto il suo pensiero legato alla vicenda:
“La crociera fu breve e pittoresca, con una orchestrina della Royal Navy che suonava canzoni nostalgiche degli anni Trenta e un lancio di paracadutisti da aerei britannici che si staccarono in volo da un incrociatore e scesero come stelle filanti intorno al panfilo di Sua Maestà. Fu anche utile? È difficile fare i conti. Ma non c’è privatizzazione italiana degli anni seguenti in cui la finanza anglo-americana non abbia svolto un ruolo importante.”
Verso Mario Draghi, altro personaggio dei poteri finanziari anglo- americani e attuale governatore della Banca d' Italia, si scagliò contro uno di quei personaggi della prima repubblica discusso per vicende spesso oscure della storia italiana: Francesco Cossiga. Egli dichiarò in diretta televisiva, di fronte ad un esterrefatto Luca Giurato,riguardo a Draghi “Un vile. Un vile affarista”, (ha detto Cossiga riferendosi ad una sua eventuale nomina a premier) “Non si può nominare presidente del Consiglio dei ministri chi è stato socio della Goldman & Sachs, grande banca d’affari americana. E male, molto male - ha aggiunto - io feci ad appoggiarne, quasi ad imporne la candidatura a Silvio Berlusconi; male molto male. È il liquidatore, dopo la famosa crociera sul Britannia, dell’industria pubblica, la svendita dell’industria pubblica italiana quando era direttore generale del Tesoro. Immaginati - ha concluso Cossiga - cosa farebbe da Presidente del Consiglio: svenderebbe quel che rimane, Finmeccanica, l’Enel, l’Eni”.

Queste parole scioccanti inducono a pensare come, sotto un apparente piano di salvataggio dei governi tecnici, vi fosse una strategia ben precisa condotta a svendere pezzi dell'Italia nelle mani di pochi speculatori.
La cosiddetta prima repubblica che tanto scalpore suscitò con la vicenda giudiziaria legata alle tangenti, è stata soppiantata nella sua fase iniziale, dai cosiddetti “governi tecnici.”

Da quell'incontro nel panfilo inglese diventarono protagonisti della scena politica principalmente personaggi italiani compiacenti ai poteri forti della finanza internazionale. Chi malediva la prima Repubblica come il male assoluto non si rese conto che, con tutte le malefatte, quei personaggi possedevano un senso dello stato e delle istituzioni che i politici successivi non poterono vantare.
Per questo il 1992 è stato uno degli anni peggiori per la storia dell'Italia e purtroppo solo adesso cominciamo a prenderne coscienza. Infatti con "mani pulite" che portò alla ribalta Di Pietro, su l' onda del coinvolgimento emotivo, gran parte della comunità civile si illuse che un nuovo corso politico e sociale potesse esserci.

Come abbiamo visto c' era chi, sfruttando la suggestione di quel periodo, ordiva un piano malefico per indebolire l'Italia dalle sue proprietà pubbliche. Non solo, il governo guidato dall'ex governatore della Banca d' Italia Carlo Azeglio Ciampi, rappresentante del mondo finanziario internazionale, (che come abbiamo visto spingevano per le liberalizzazioni dei beni pubblici) ebbe la brillante idea di sottoscrivere il cosiddetto “protocollo” assieme alle tre sigle sindacali di maggior rilievo, decretando la fine della scala mobile e instaurando la pratica della concertazione. Il risultato fu che la paga base non venivano adeguate in maniera automatica, su base annuale, ma grazie agli accordi sottoscritti da CGIL CISL UIL, una tantum.

Gli strascichi relativi a questa vicenda si sono propagati anche sul piano dialettico,con un stravolgimento del significato della parola. Nel tempo si è sviluppato un repertorio oratorio da far impallidire Orwell, autore del celebre romanzo 1984. Oramai è prassi sentire pronunciare frasi paradigmatiche, di questa paradossale situazione, quali “aumentare la produttività” che nella neo- lingua odierna significa dovete lavorare di più e meglio,“ tagliare la spesa pubblica” che nell'accezione moderna è: sempre meno servizi e conseguente riduzione dei diritti.

Fonti
1.  Www.Movisol.org
2.http://www.homolaicus.com/storia/oro/bretton_woods.htm
3.Fonte: Ministero dell’Economia e delle Finanze, L’economia italiana nel 2006, pag.35
4.Http//:www.economiaefinanza.it/cortedeiconti.html
5.http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Italia/2009/11/acqua-privatizzazione-decreto-ronchi.shtml
 6. Libro bianco sulle privatizzazioni, Ministero del Tesoro, del bilancio e della programmazione economica, 2001, pag. 32.
http://www.vocidallastrada.com

VENTI DI GUERRA



 “Se cade l’euro cade l’Europa. Nessuno prenda per garantiti altri 50 anni di pace in Europa
Angela Merkel




Questa frase è passata quasi inosservata nell'ultima riunione dell'UE. Ma che avrà voluto dire?

MIZIO

POMODORI E BROCCOLI BREVETTATI COME AUTO DI LUSSO


Pomodori, patate, broccoli, ogni altro alimento. Oggi li comprate al negozio, al mercatino sotto casa, al supermarket. Dovrete sempre continuare a farlo per nutrirvi, ovviamente, ma in un futuro prossimo potrà costare più caro a voi consumatori e ancor più caro ai produttori, perché le grandi multinazionali dell'agroalimentare brevettano all'Epo (European patents office, ufficio europeo dei brevetti, sede Monaco di Baviera) queste produzioni, e quindi in sostanza se ne assicurano l'esclusiva. Contro questa pratica, incompatibile con normative e leggi della stessa Ue, si terrà a Monaco una manifestazione internazionale.
Il brevetto per strappare al resto del mondo l'esclusiva della patata, del pomodoro, del broccolo, della bistecca, secondo le associazioni di difesa della natura e della materia vivente come Equivita in Italia, è ormai una strategia portata avanti a carte scoperte da multinazionali come Monsanto, Dupont, Syngenta, Bayer, Basf solo per citare alcune tra le più potenti. Domani appunto l'Ufficio europeo dei brevetti annullerà il ricorso contro il brevetto sul broccolo (EP10698199), e in quel giorno è convocata la manifestazione davanti alla sua sede nella capitale bavarese. Poi seguirà il brevetto sul pomodoro (EP1211926). In altre parole, per spiegare tutto ai profani: chi vorrà coltivare pomodori dovrà pagare ogni anno al detentore del brevetto, cioè a una multinazionale, una royalty, un diritto di brevetto. Cioè coltivare broccoli o pomodori, materia vivente e patrimonio alimentare comune dell'umanità, verrà equiparato a produrre una bella Bmw o Mercedes, cioè ovviamente diritto esclusivo del produttore d'auto, e dei suoi team di ingegneri, ricercatori e operai che hanno sviluppato l'auto messa poi in vendita.
Un pomodoro o un broccolo come un'auto di lusso, ti saluto consumatore e cittadino. La produzione indipendente di verdure di cui l'umanità si nutre da millenni verrà quasi equiparata all'attività di chi, come le industrie cinesi controllate dal sistema totalitario al potere a Pechino, produce e vende copie spudorate di auto, treni ad alta velocità o aerei i cui originali sono stati costosamente studiati, elaborati, sperimentati e prodotti nel mondo libero, dall'Europa al Nord America, dal Giappone alla Corea del Sud.
Conseguenza: agricoltori e allevatori, soprattutto nel terzo mondo ma anche da noi in Europa, rischieranno di andare in rovina, e molti di loro ci andranno davvero, mentre non andranno in rovina le industrie di proprietà del partito-Stato cinese che copiano i prodotti originali dell'industria europea, giapponese, nordamericana, sudcoreana. Paradossale ma rischiamo proprio questo. E i consumatori pagheranno il conto col carovita, quindi peggio che comprare una copia cinese a buon mercato di un prodotto europeo. Le decisioni dell'Epo, notano le organizzazioni di difesa della natura e della materia vivente, contraddicono l'articolo 53b della convenzione europea dei brevetti e l'articolo 4 della direttiva europea sulla brevettabilità del vivente.
Sembra linguaggio ostico da addetti ai lavori, ma tradotto in pratica significa che le multinazionali non avranno più solo in mano i brevetti esclusivi del cibo transgenico, bensì anche del cibo tout court. È una strada strisciante verso la cancellazione della sovranità alimentare degli Stati e delle economie e la privatizzazione della materia vivente. Se brevetti il broccolo o il pomodoro, detto in soldoni, l'agricoltore ovunque nel mondo dovrà pagarti ogni anno i diritti, con pesanti conseguenze per la sua sopravvivenza economica e per il prezzo al consumo. Come ha detto Kerstin Lanje di Misereor, "in tempi in cui quasi due miliardi di persone soffrono la fame è semplicemente immorale far crescere i prezzi degli alimenti creando monopoli dei brevetti". di Edoardo Capuano

RIVOLTA IL DEBITO

Inefficacia delle forme di lotta in assenza di solidarietà e diritto all'insolvenza





Il movimento di protesta si è diffuso durante l’anno 2011, e ha cercato di opporsi all’attacco finanziario contro la società. Ma le dimostrazioni pacifiche non sono riuscite a cambiare il programma di azione della Banca centrale europea, dato che i parlamenti nazionali sono ostaggi delle regole di Maastricht, degli automatismi finanziari che funzionano come costituzione materiale dell’Unione. La dimostrazione pacifica è efficace nel contesto della democrazia, ma la democrazia è finita dal momento che automatismi tecno finanziari hanno preso il posto della decisione politica. Se occorreva una prova definitiva del carattere illusorio di ogni discorso sull’alternativa democratica, l’esperienza di governo di Barack Obama ce l’ha fornita.

Nessun potere democratico può nulla, nessuna alternativa è possibile nella sfera dell’azione democratica, dal momento che le decisioni sono già prese, incorporate nei dispositivi di connessione informatica, finanziaria e psichica.
La violenza è esplosa allora in alcuni momenti. Le quattro notti di rabbia delle periferie inglesi, le rivolte violente di Roma e Atene, hanno mostrato la possibilità che la protesta sociale diventi aggressiva. Ma anche la violenza è incapace di cambiare il corso delle cose. Bruciare una banca è totalmente inutile, dato che il potere finanziario non è negli edifici fisici bancari, ma nella connessione astratta tra numeri, algoritmi e informazioni. Perciò se vogliamo trovare forme di azione che siano capaci di affrontare la forma attuale del potere dobbiamo partire dalla coscienza che il lavoro cognitivo è la principale forza produttiva capace di creare gli automatismi tecno linguistici che rendono possibile la speculazione finanziaria. Seguendo l’esempio di Wikileaks dobbiamo organizzare un processo di lungo periodo di smantellamento e riscrittura degli automatismi tecno linguistici che creano le condizioni della schiavitù.
La soggettività sociale sembra debole e frammentaria, di fronte all’assalto finanziario. Trenta anni di precarizzazione del lavoro e di competizione hanno distrutto il tessuto stesso della solidarietà sociale e reso fragile la capacità psichica di condividere il tempo, le cose e il respiro. La virtualizzazione della comunicazione sociale ha eroso l’empatia tra corpi umani. Il problema della solidarietà è sempre stato cruciale in ogni processo di lotta e di cambiamento sociale. L’autonomia si fonda sulla capacità di condividere la vita quotidiana e di riconoscere che quel che è buono per me è buono per te, e quel che è cattivo per me è cattivo per te. La solidarietà è difficile da costruire ora, che il lavoro è stato trasformato in una distesa di celle temporali ricombinante, e di conseguenza il processo di soggettivazione è divenuto frammentario, an-empatico e debole. La solidarietà non ha nulla a che vedere con un sentimento altruista di sacrificio. In termini materialisti la solidarietà non è una faccenda che riguarda te, ma una faccenda che riguarda me. Allo stesso modo l’amore non è altruismo, ma piacere di condividere il respiro e lo spazio dell’altro. L’amore è capacità di godere di me stesso grazie alla tua presenza, ai tuoi occhi.
Per questo la solidarietà si fonda sulla prossimità territoriale dei corpi sociali, e non si può costruire solidarietà tra frammenti di tempo, e le rivolte inglesi e italiane, come l’acampadaspagnola si debbono considerare come delle forme di riattivazione psico-affettiva del corpo sociale, come un tentativo di attivare una relazione vivente tra il corpo sociale e l’intelletto generale. Solo quando l’intelletto generale sarà capace di riconnettersi con il corpo sociale saremo in grado di cominciare il processo di effettiva autonomizzazione dalla presa del capitalismo finanziario.
Diritto all’insolvenza
Un nuovo concetto sta emergendo dalle nebbie della presente situazione: diritto all’insolvenza. Non pagheremo il debito.
I paesi europei sono stati obbligati a accettare il ricatto del debito, ma la gente rifiuta l’idea di dover pagare per un debito che non ha assunto.
L’antropologo David Graeber nel suo libro Debt the first 5ooo years, (Melville house, 2011), e il filosofo Maurizio Lazzarato in La fabrique de l’homme endetté (editions Amsterdam, 2011) hanno cominciato una riflessione sulla genesi culturale della nozione di debito, e sulle implicazioni psichiche del senso di colpa che quella nozione comporta. E Federico Campagna scrive nel suo saggio Recurring Dreams: The red heart of Fascism:
“L’ultima volta ci ha messo decenni per venire alla luce. Prima ci fu la guerra, poi, quando la guerra finì, ci fu il debito, e tutti i legami che vengono col debito. Era il tempo dell’industrializzazione, della modernità, e tutto accadeva su scala di massa. Impoverimento di massa, disoccupazione di massa, iperinflazione, iperpopulismo. Le nazioni cadevano sotto il peso di quello che i marxisti chiamavano contraddizioni, mentre i capitalisti si aggrappavano al bordo dei loro cilindri e tutti aspettavano che il cielo cadesse sulla terra. L’aria divenne elettrica, le piazze si riempirono, gli alberi si trasformarono in bandiere e bastoni. Era il tempo fra le due guerre e nella profondità del corpo sociale il nazismo era ancora nascosto, liquido e montante, calmo come un feto.”
“Questa volta tutto sta accadendo quasi esattamente nello stesso modo, solo un po’ out-of-sync, come succede coi sogni ricorrenti. Ancora una volta l’equilibrio del potere nel mondo sta spostandosi. Il vecchio impero sta annegando, malinconicamente e i nuovi poteri stanno affrettandosi nella corsa verso l’egemonia. Come prima le loro atletiche grida sono quelle potenti della modernità: crescita! Crescita! Crescita”.
Il peso del debito ossessiona l’immaginazione del futuro, come già accadde negli anni Venti in Germania, e l’Unione, che un tempo era una promessa di prosperità e di pace sta diventando un ricatto e una minaccia. In risposta il movimento ha lanciato lo slogan: “Non pagheremo il debito”.
Per il momento queste parole sono illusorie, perché in effetti lo stiamo già pagando: il sistema educativo è tagliato, impoverito, privatizzato, posti di lavoro cancellati, e così via.
Ma quelle parole intendono cambiare la percezione sociale del debito, e creare una coscienza della sua arbitrarietà e illegittimità morale. Il diritto all’insolvenza emerge come una nuova parola chiave e un nuovo concetto carico di implicazioni filosofiche. Il concetto di insolvenza non implica soltanto il rifiuto di pagare il debito finanziario ma in maniera sottile implica il rifiuto di sottomettere la potenza vivente delle forze sociali al dominio formale del codice economico.
Il paradosso
Rivendicare il diritto all’insolvenza implica una messa in questione del rapporto tra la forma capitalista (intesa come Gestalt, come forma della percezione) e la potenza produttiva concreta delle forze sociali, particolarmente la potenza dell’intelletto generale. La forma capitalista non è solo un insieme di regole e di funzioni economiche, ma anche l’interiorizzazione di un certo numero di limitazioni, di automatismi psichici, di regole di compatibilità. Cerchiamo di pensare per un attimo che l’intera semiotizzazione finanziaria della vita europea scompaia, cerchiamo di pensare che a un tratto smettiamo di organizzare la vita quotidiana in termini di denaro e di debito. Nulla cambierebbe nella potenzialità utile e concreta della società, nei contenuti della conoscenza, nelle nostre competenze e capacità produttive.
Questo dovremmo fare: immaginare e rendere possibile la liberazione della potenzialità vivente dell’intelletto generale in termini di disincagliamento dalla Gestalt capitalistica, automatismo psichico che governa la vita quotidiana.
Insolvenza significa non riconoscere il codice economico del capitalismo come traduzione della vita reale, come semiotizzazione della potenza e della ricchezza sociale.
La capacità produttiva concretamente utile del corpo sociale è costretta ad accettare l’impoverimento in cambio di nulla. La forza concreta del lavoro produttivo viene sottomessa al compito improduttivo e distruttivo di rifinanziare il sistema finanziario fallimentare. Se potessimo paradossalmente cancellare ogni segno della semiotizzazione finanziaria nulla cambierebbe nel funzionamento sociale, nulla nella capacità intellettuale di concepire e realizzare. Il comunismo non ha bisogno di essere chiamato dal ventre del futuro, esso è qui, nel nostro essere, nella vita immanente dei saperi comuni. Ma la situazione è paradossale, contemporaneamente entusiasmante e disperante. Il capitalismo non è mai stato così prossimo al collasso finale, ma la solidarietà sociale non è mai stata così lontana dall’esperienza quotidiana.
Dobbiamo partire da questo paradosso per costruire un processo post-politico di disincagliamento del possibile dall’esistente.
Franco Berardi "Bifo"

http://www.comedonchisciotte.org

L’ITALIA E’ UNA FRANA….

 




Come ogni anno è arrivato l’autunno, e, come ogni anno, arrivano anche le piogge, evento non raro e non imprevedibile. E, come succede, ormai, da molti anni, porzioni sempre più vaste e numerose del territorio, vanno sott’acqua, o, meglio, sotto fango, non risparmiando nessuna regione, dalla “avanzata” Padania. all’arretrato Mezzogiorno, dalle  città ai monti e alle coste.
Se, per quanto riguarda l’intensità delle piogge (effettivamente aumentata e concentrata in periodi più brevi negli ultimi anni) la responsabilità dell’Italia è pari e condivisa  con quasi tutti i paesi mondiali per l’insano modello di sviluppo adottato  con grandi cambiamenti planetari e climatici, per le sue gravi e tragiche conseguenze, la responsabilità è tutta nostra. Il laissez faire (interessato e ignorante), tipico dei nostri amministratori pubblici , difetto adottato a sistema in cambio di qualche voto in più, ha avuto effetti devastanti sul territorio. Abusivismo straripante e tollerato, cementificazione selvaggia e irresponsabile, ignoranza totale dei ritmi e delle forze naturali, gestione miope e irresponsabile dei bacini idrici, che non hanno bisogno di commissari e commissioni (con relativi emolumenti) ma di essere lasciati in pace alle proprie caratteristiche naturali. Se si permette la costruzione di edifici nell’alveo dei fiumi, se si asfaltano porzioni sempre più ampie di territorio montano e di pianura impedendo ai terreni di operare nella loro naturale funzione di spugna per l’assorbimento delle acque, e facendo passare queste come opere necessarie allo sviluppo e alla valorizzazione del territorio, il risultato non può certo essere diverso.


Chiunque faccia un giro nel nostro (ex) Bel Paese, non può non notare che l’urbanizzazione selvaggia e senza regole la fa da padrona, dagli orrendi palazzoni costruiti , in molte località, fin sulla battigia del mare, alle strade di penetrazione montane che rendono fruibili e appetibili territori
un tempo raggiungibili solo a piedi, la cementificazione e la regimentazione dei fiumi e torrenti che, in caso di forti piogge, si trasformano in autostrade per l’acqua che, chiusa e senza possibilità di esondare nei terreni circostanti urbanizzati, si abbatte con violenza inaudita su tutto ciò che incontra.
La grande ricchezza dell’Italia è ed è sempre stata il patrimonio artistico e quello naturale paesaggistico. Bene, vedendo ciò che è accaduto e continua ad accadere periodicamente possiamo dire che l’abbiamo dilapidato e continuiamo a farlo (vedi anche i recenti e ripetuti crolli a Pompei), il tutto per un guadagno immediato e speculativo di pochi furbi approfittatori.
Ovviamente tutto ciò, considerando la nostra storia non ha insegnato e continua a non insegnare nulla, difatti si continuano a varare macro e micro piani di “sviluppo del territorio” ( vedi ultimo piano casa della Regione Lazio); sono in cantiere in tutta Italia progetti per la costruzione di decine di nuovi porti turistici che, se va bene, modificheranno le correnti marine con conseguente erosione di spiagge e coste con danni che ricadranno su tutta la collettività in termini di fruizione del bene ed economici per i continui ripascimenti della spiagge. Solo nel Lazio sono previsti aumenti per diecimila nuovi posti barca con ampliamento e/o costruzione di nuovi porti: Anzio, Fiumara Grande, Rio Martino, “Marina di Cicerone” a Formia,,S.Felice Circeo, Ventotene e Capo dell’Acqua a Ponza.


In Sardegna il piano di privatizzazione delle coste prosegue imperterrito: proseguendo sul modello Costa Smeralda, lo Stato e la Regione svendono a cifre ridicole interi tratti di costa che diventeranno off limits per i residenti e i meno abbienti che, si dovranno accontentare di sbirciare da fuori lussuose residenze immerse nel verde della macchia mediterranea a un passo dallo splendido mare sardo. Salvo poi  dover intervenire con mezzi e uomini della protezione civile e dei vigili del fuoco (pagati dalla collettività) quando, gli incendi estivi minacceranno le suddette case.

Valcanale (Bg).

 Vogliamo, poi parlare degli  impianti sciistici realizzati sugli Appennini anche a quote relativamente  basse con corposi contributi pubblici e utilizzati, quando va bene, per 20-30 giorni l’anno, con annessi Chalet” alpini” e strade che hanno cancellato per sempre secolari boschi di faggi, cerri, olmi e carpini. Senza considerare l’annoso e mai risolto problema dei rifiuti che, dopo la Campania e Napoli rischia di travolgere Roma e il Lazio, in quanto alla preventivata (da anni) chiusura di Malagrotta per dicembre prossimo, non si è riusciti a far niente di meglio che riproporre altre discariche “provvisorie”, rimandando sine die la risoluzione del problema.


Per carità di patria non entro nel merito delle ultime scelte governative in fatto di difesa ambientale, essendo una lunga e dolorosa lista di tagli a un settore che già agonizzava di suo.
Rimediare a questo stato di cose è difficile, forse impossibile, ma abbiamo il dovere morale di provarci per rispetto al nostro paese, ai nostri figli e nipoti e a noi stessi. Cominciamo a fare meno i furbi, lottiamo per ogni singolo metro di territorio minacciato, rifuggiamo dal turismo di massa e irrispettoso favorendo un turismo di conoscenza e salvaguardia, valutiamo i nostri rappresentanti anche per il loro impegno nelle lotte e non solo per le loro promesse, e infine non rinunciamo a cambiare questa società basata sullo strapotere finanziario. Un solo ettaro del nostro paese che scompare sotto il cemento, non avrà mai un risarcimento adeguato al suo reale valore, fosse anche di milioni di euro.

Mizio

lunedì 24 ottobre 2011

E' TEMPO DI NON PERDERE TEMPO




Nel 1981 il ministro del Tesoro, Nino Andreatta, inviò una lettera al Governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, in cui riconosceva alla nostra banca centrale di non avere più l’obbligo di acquistare, emettendo valuta, i titoli del debito pubblico non collocati sul mercato. La classe politica italiana rinunciava così alla sovranità monetaria, in apparenza per ragioni tecniche, ovvero per ridurre l’inflazione, in realtà – dato che era impossibile diminuire, negli anni Ottanta, la spesa pubblica senza sfasciare il sistema sociale (sarebbe stato come se un’automobile lanciata a 200km/h avesse dovuto fare all’improvviso una inversione ad “U”) – quello a cui si mirava era un cambiamento di strategia, che attribuisse al “mercato” il ruolo di giudice supremo dell’operato economico e politico dello Stato. Di fatto, si erano poste le basi, senza che quasi nessuno se ne rendesse conto, per avviare un processo di “involuzione” politica e culturale che avrebbe consentito, dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la liquidazione per via giudiziaria del vecchio ceto politico, di svendere il patrimonio pubblico e strategico del Paese, dato che la conseguenza del divorzio tra Tesoro e Bankitalia fu una crescita abnorme del debito pubblico, che all’inizio degli anni Novanta era incompatibile con l’ingresso dell’Italia nella futura Eurozona. Sicché fu facile – in specie dopo che Ciampi ebbe a dilapidare le nostre riserve valutarie per difendere, senza riuscirvi, la lira da un attacco dei mercati finanziari “pilotati” da George Soros – convincere l’opinione pubblica che era necessario tagliare e (s)vendere per elminare il debito. Nondimeno, come ormai sanno tutti, anche se vi furono avanzi primari (cioè al netto degli interessi) di centinaia di migliaia di miliardi di lire, nulla di ciò si ottenne, anche a causa dell’aumento dei tassi d’interesse (aumento che anche oggi è in grado di far fallire qualsiasi manovra e di vanificare qualsiasi sacrificio). In compenso, il Paese, seguendo il “nuovo corso” della politica (quella che, per chiarezza ed economia di linguaggio, si potrebbe denominare la “politica del Britannia”) non solo scelse di privarsi quasi del tutto dei suoi “mezzi strategici”, allorquando ne avrebbe avuto più bisogno, ma pure di “internazionalizzare” il proprio debito, che, anche dopo i “Bot people” degli anni Ottanta, era nelle mani di famiglie e banche o istituti finanziari italiani (secondo dati di Bankitalia, fino alla metà degli anni Novanta, poco meno del 50% era detenuto da famiglie italiane, mentre oggi circa la metà è posseduto da stranieri).


Scelte decisive, ma che sono rimaste “in secondo piano”, dato che tutta l’attenzione era (ed è ancora rivolta) a sua “Emittenza”, ai suoi intrallazzi e ai suoi conflitti di interessi, mentre il più grande partito comunista dell’Europa occidentale portava a termine la sua lunga marcia nelle istituzioni, senza la benché minima capacità e volontà di analizzare criticamente i motivi del fallimento del “socialismo reale”, ma pronto a candidarsi, con l’appoggio di ampi settori della magistratura, a governare il Paese, per conto dei poteri forti nazionali e “internazionali” , garantendo pace sociale, almeno per qualche lustro, sia pure in cambio del “perdono” per il proprio passato. L’effetto, anche per l’eterogenesi dei fini, è stato quello di trasformare l’Italia in un territorio in cui si combatte da circa due decenni una guerra tra vere e proprie bande di mercenari al servizio dello straniero. Una guerra i cui danni e le cui devastanti conseguenze potrebbero in un non lontano futuro essere paragonati a quelli della tristemente nota guerra gotica, che “infiniti agli italiani mali addusse”. Anche perché nel frattempo si sono originati fenomeni d’imbarbarimento in ogni ambito della vita pubblica: un degrado sociale, culturale, istituzionale e morale, che – ed è ancora più grave – viene pure considerato da molti quasi del tutto “normale”, vuoi per il diffondersi tra tutti i ceti sociali di un cinismo e di un individualismo ripugnanti, vuoi perché si sono distrutte le basi di un sistema educativo che avrebbe avuto bisogno sì di essere cambiato, ma per formare una nuova classe dirigente e un’opinione pubblica degne di questo nome, anziché per copiare (tra l’altro male) modelli stranieri, senza preoccuparsi nemmeno di difendere la propria identità culturale, lasciando che sparisse quella cultura politica, o meglio quel sapere strategico e quell’intelligenza critica senza i quali, soprattutto per un Paese europeo, nessuno sviluppo è possibile. Si tengano presenti inoltre la “fuga” di migliaia di giovani ricercatori, la mancanza di materie prime, la debolezza militare, il pressappochismo e la tradizionale furbizia dalle gambe corte che contrassegnano la vita pubblica della Penisola e allora, sommando il tutto al degrado generale, si comprende perché non passa giorno senza che gli “alleati” ci diano sonori ceffoni, con il beneplacito di un’opposizione che non avendo alcun programma alternativo né alcuna idea di autentico rinnovamento sociale e politico altro non sa fare che essere l’altoparlante dei “mercati”.

Ciononostante, sarebbe errato pensare che una élite capace non sarebbe in grado di far leva sui punti di forza del Paese, che indubbiamente ci sono ancora, se è vero che anche ricerche scientifiche, che usano metodi che non favoriscono certo l’Italia, mostrano che il problema italiano non sono gli “input”, bensì “l’output”. Vale a dire che la “struttura” è ancora integra e forte, non solo quella economica e produttiva, ma anche quella, per così dire, “antropologica”. Ciò che manca è la capacità politico-strategica di trasformare questi “input” in un disegno strategico coerente, di medio-lungo termine, tale da coinvolgere l’intera comunità nazionale. Comprendere questo, equivale allora a comprendere che la questione del debito sovrano potrebbe diventare l’occasione per rimettere in discussione, non solo la politica italiana, ma anche quella europea, che si è già rivelata fallimentare.

Epperò è proprio la storia recente del nostro Paese a provare che non deve (né può) essere l’Economico a guidare il Politico, come pensa Mario Monti, ma che è vero proprio l’opposto. Se oggi l’Italia ha perso gran parte delle proprie risorse strategiche (umane e non) lo si deve, è vero, al fatto che mentre l’opinione pubblica faceva il tifo per la destra o per la sinistra, entrambi gli schieramenti attuavano (o non ostacolavano) il programma dei tecnocrati “sedicenti” europeisti, ma anche e soprattutto al fatto che, rimasta una sola superpotenza, quest’ultima cercava di ridisegnare gli equilibri mondiali in funzione degli interessi dell’oligarchia finanziaria atlantista, mutando la lotta politica nel nostro Paese in uno scontro tra fazioni disposte a tutto pur di assicurarsi i favori della “manina d’oltreoceano”, nonostante che per l’Italia (e, in verità, per l’Europa) fosse giunto il tempo di gettar via le stampelle “prestate” dal potente alleato e di muoversi con le proprie gambe, prima che Washington potesse usarle come bastoni per stabilire un nuovo ordine mondiale. Perciò, fallito il tentativo di imporre un modello unipolare e passati alla geopolitica del caos, non stupisce che ancora una volta l’Economico “mascheri” l’azione strategica (quindi politica, anche se si tratta di politica mistificata e mistificante) dei “mercati” e di conseguenza della potenza capitalistica predominante e dei suoi sicari. Quel che oggi si chiede ai Paesi europei è la definitiva rinuncia al Politico; rinuncia che invece è la prima causa, insieme con il mutamento degli equilibri geopolitici a livello planetario, della crisi finanziaria ed economica che attanaglia l’Occidente. Non è quindi la crisi dell’Italia che rischia di far affondare l’Europa, bensì è la crisi (geo)politica di questa Ue che rischia di far affondare l’Europa intera.

D’altronde, affermare che in Italia – e a fortiori in Europa – vi sono gli “input” necessari per implementare una strategia di sviluppo capace di risolvere in radice il problema dei debiti sovrani e, in generale, della crisi economica non è naturalmente sufficiente per trovare una terapia efficace. Si può però rammentare che non a caso, nell’antica Atene, Solone, eletto arconte con poteri straordinari per eliminare un pericoloso focolaio di rivolta che minacciava di degenerare in guerra civile, conducendo alla rovina la Città, decise di annullare i debiti dei poveri verso i più abbienti  (in particolare le ipoteche che gravavano su molte terre) e di riscattare a spese dello Stato molti cittadini che erano stati ridotti in schiavitù per debiti, per poi procedere ad un riforma dell’ordinamento istituzionale della polis. Quel che rileva non è tanto il modo in cui Solone risolse il problema dell’indebitamento dei cittadini non abbienti, quanto piuttosto che egli ritenne che fosse impossibile conservare la “salute della città” senza un’azione politica che ne mutasse la forma (le istituzioni) per salvarne la sostanza (il legame comunitario) e, sotto questo aspetto, nonostante la differenza delle condizioni storiche, la lezione di Solone è ancora valida.

Peraltro, l’analisi geopolitica della cosiddetta “seconda Repubblica” mostra chiaramente come alcune scelte di “natura tecnica”, anche ammesso e non concesso che siano prese in perfetta buonafede, interagiscano con la politica mondiale, rivelandosi spesso, con il passare degli anni, le decisioni politiche che contano. Muatatis mutandis, l’Ue si trova in una situazione analoga a quella dell’Italia all’inizo degli anni Novanta. E coloro che vogliono affidare tutto il potere alla Bce, sono perlopiù proprio coloro che sono i massimi responsabili dei guai finanziari (e non solo finanziari) dell’Italia. Purtuttavia, adesso sono coinvolti tutti i Paesi europei e specialmente la Germania, il cui “nanismo” politico è perfino più preoccupante della ottusità e della miseria intellettuale dei politici italiani, mentre ora più che mai si dovrebbe badare non solo a quello che potrebbe succedere se l’Italia dovesse cadere, bensì a quello che succederà se l’Europa non saprà affrontare politicamente questa crisi, senza lasciarsi condizionare dal “debito” nei confronti dei “liberatori”, dacché questo “debito”, se veramente c’era (ed è assai dubbio), è stato pagato per intero e con gli interessi.



Pare lecito pertanto concludere che – anche se spaccare vetrine e incendiare automobili, indipendentemente da ogni altra considerazione, è il modo migliore per inimicarsi chi potrebbe, dovrebbe e forse vorrebbe cambiare lo “stato delle cose”, ovvero una parte di quei ceti medi che sono i primi pagare il costo della crisi, e ben poco si può sperare da chi ha voluto o approvato l’aggressione della Nato alla Libia – i tempi sarebbero maturi per una rifondazione dell’Unione europea, anzi non ci sarebbe da perdere tempo. Purtroppo però si deve anche ammettere che non sembra siano “politicamente maturi” gli uomini cui sono affidate le sorti dell’Europa, benché ciò non implichi che si debbano condividere le loro scelte o essere loro complici. Comunque sia, i prossimi mesi, con ogni probabilità, ci diranno se vi sono perlomeno politici europei che, pur non avendo la testa tra le nuvole, sono capaci di guardare “oltre la linea”. Il che, casomai si dovesse verificare, certamente non sarebbe una rivoluzione geopolitica, ma potrebbe essere la premessa di qualcosa di simile. di Fabio Falchi



sabato 22 ottobre 2011

A PROPOSITO DELLA VIOLENZA...




Tante cose sono state dette e scritte sulla violenza, dopo i recenti,fatti di Roma, da parte di tutti è emersa la ferma e dura condanna di quegli atti, (a cui mi associo). Ma se il problema è la violenza in quanto tale, allora da parte degli stessi personaggi mi aspetto la stessa indignazione e la stessa determinazione nel condannare altre e, ben più eclatanti forme di violenza.Le varie guerre umanitarie che abbiamo esportato nel mondo, degli ultimi anni, sono state forse forme di pacifismo militante combattute con rami di ulivo e voli di colombe? Si dirà: "Ma lì è in gioco la libertà e la sicurezza internazionale!".Perchè, quando è in gioco la vita e i diritti di milioni di persone (soprattutto giovani) grazie alle speculazioni di un sistema malato che si tenta di curare con una medicina che rischia di far morire l'ammalato, non sono, forse, in discussione uguali principi di libertà, democrazia e sicurezza? E' forse meno violento un sistema che, permette di ridurre le persone in uno stato tale di disperazione tale da portarle, spesso, al suicidio? (Vedere le statistiche di questi ultimi anni di liberismo economico, centinaia di vittime del sistema e migliaia di persone coinvolte in drammi familiari e sociali). O forse dobbiamo ritenere e subire la validità del concetto che i diritti e i principi sono variabili in base a chi li sostiene? Io personalmente ritengo sempre che le migliori forme di lotta siano quelle che coinvolgono milioni di persone ed espresse in maniera non violenta, ma sono, altresì convinto che, nelle cosiddette "società democratiche" gli spazi di libertà vanno drammaticamente restringendosi, andando di pari passo con la perdita dei diritti lavorativi, e si può, quindi, capire che chi, ritenendo (spesso a ragione) di non avere altre possibilità, manifesti la propria voglia di cambiamento e
frustrazione in forme violente


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D'altra parte lo stesso Mahatma Ghandi, fautore e massima espressione della non violenza, in determinate situazioni non la escludeva e non la condannava a prescindere: "It is better to be violent, if there is violence in our hearts, than to put on the cloak of non-violence to cover impotence. Violence is any day preferable to impotence. There is hope for a violent man to become non-violent. There is no such hope for the impotent".
(Trad" E' meglio essere violenti, se c'è violenza nel nostro cuore,piuttosto che indossare il mantello della non violenza per coprire l'impotenza. La violenza è un giorno qualsiasi preferibile all'impotenza. C'è speranza per un uomo violento di diventare non violento. Non c'è speranza per l'impotente.")
No alla violenza, ma no anche a condanne acritiche che valutano solo gli effetti ma ignorano completamente le cause e, proponendo solo ulteriori restringimenti di libertà e repressivi, ne rappresentano il miglior terreno di coltura per il loro ripetersi.


MIZIO