martedì 27 aprile 2021

25 APRILE, poi 26...27....28

Anche quest'anno, come tutti gli anni, e doverosamente, si è celebrata il 25 aprile la festa della liberazione. Attenzione, della Liberazione, non della libertà. Quella, eventualmente ne fu la logica conseguenza e, purtroppo, ancora non del tutto conquistata. Come tutte le ricorrenze del passato, presenti e future, la giornata è passata attraverso i necessari rituali richiami storici, ma anche attraverso l'altrettanto immancabile retorica, che diventa inutile e addirittura irritante, quando non supportata da azioni coerenti e conseguenti. Perchè è su questo che vorrei argomentare qualcosa. Siamo tutti d'accordo che sia fondamentale la memoria storica, il ribadirne la verità contro negazionismi e revisionismi interessati, e farlo in una giornata particolare a questo dedicata. Quindi viva la Liberazione, viva la Costituzione, viva la Resistenza e guai a chi tocca il 25 aprile che tutto ciò celebra e ricorda. Ma non possiamo dimenticare che, dopo e prima del 25 aprile, ci siano altri 364 giorni. E che ci siano stati, ormai diversi decenni. Giorni e anni in cui troppo spesso si sono dimenticate e accantonate le motivazioni per cui si festeggia quel giorno. E non mi riferisco ai nostalgici e ai fascisti più o meno mascherati e interessati, ma ai tanti che proprio in quel giorno, in maniera ipocrita, non rinunciano al presenzialismo retorico e autoreferenziale in nome di un antifascismo, troppo spesso solo dichiarato e di facciata. Perchè, penso, si possa essere tutti d'accordo, nel dire che il fascismo più pericoloso non sia solo quello esibito e provocatorio del saluto romano e della simbologia collegata. Qiello di quattro imbecilli già condannati e valutati dalla storia. Molto più subdole e pericolosr sono le scelte e le politiche che permettano, giustifichino e accentuino odiose differenze sociali, razziali e di genere. Perchè, mi sembra chiaro, che sia proprio in questo clima che favorisce l'ingiustizia, il privilegio, la difesa palese di precisi interessi che trovino il loro habitat elettivo l'impotenza, la disperazione e la disaffezione che, facilmente possono trasformarsi in rabbia e rancore. Rabbia e rancore ancor più facilmente sfruttabili dai mestatori di professione. Non è neanche, estraneo a questo processo, l'abbandono fisico dei territori da parte dei partiti e della politica istituzionale, lasciando colpevolmente, praterie immense a disposizione di facili e pericolose speculazioni. Speculazioni in cui, tra l'altro, troppo spesso si intrecciano interessi della peggiore espressione politica e della criminalità più o meno organizzata. Altro aspetto colpevolmente sottovalutato e,anzi, quasi incentivato lasciando (intenzionalmente?) zone franche, non solo dal punto di vista territoriale ma anche della legalità. Quindi, arrivando rapidamente alla conclusione, l'antifascismo per essere reale, credibile e formativo per coscienze, soprattutto giovanili, non può che sposarsi a politiche di giustizia sociale. Di lotta, anche dura, alle disuguaglianze. Di impegno costante, continuo giornaliero che non lasci zone d'ombra. Che faccia dello spirito costituzionale il proprio faro con l'impegno per una rivoluzione progressiva, democratica e permanente che non affidi solo al ricordo e alla simbologia il proprio bagaglio di valori ideali. Capisco sia difficile e impegnativo, soprattutto se lo leghiamo alle logiche, agli errori e alle facili colpevoli letture politiche degli ultimi decenni. Ma credo sia non solo necessario, ma indispensabile farlo. Altrimenti il 25 aprile sarà sempre più solo una retorica giornata sempre meno avvertita e vissuta con la necessaria coscienza e consapevolezza dai più. VIVA IL 25 APRILE! VIVA LA RESISTENZA! VIVA LA COSTITUZIONE! MIZIO

lunedì 19 aprile 2021

DON ROBERTO E PASOLINI

Un paio d'anni fa circa, è morto Don Roberto Sardelli. Un nome che a molti non dirà molto ma che per altri, me compreso, ha rappresentato un mondo e un universo ancora non esplorato e compreso completamente. Don Roberto era un prete e sembra strano, che proprio io così lontano dalla religione costituita e dai suoi precetti, ma non alieno alle eterne domande sulla vita, i suoi perchè e il suo misterioso destino, ne possa parlare e ricordare in maniera così coinvolgente. Ma ho sempre preferito parlare e distinguere il sentimento religioso o la spiritualità, da qualsiasi forma di organizzazione costituita fatta di precetti, comandamenti e, soprattutto di esercizi di fede impossiili e improbabili. Don Roberto pur essendo nella Chiesa era a questa, paradossalmente estraneo ma ostinatamente presente come pietra di scandalo.Inviso e tenuto ai margini. Arrivando addirittura, per diversi anni, a togliergli la possibilità di praticare l'esercizio del sacerdozio. Proprio a causa del suo attenersi profondamente al messaggio originario e, praticamente unico, del Vangelo del Cristo. Stare dalla parte degli ultimi. E lui ci stava, non in modo caritatevole, non catechizzando e alimentando la speranza in un paradiso post mortem. Ma esercitando quello che sentiva come il suo compito principale. La difesa aprioristica e il cercare di far prendere loro coscienza. Don Roberto, in quei tempi di forte e marcato manicheismo ideologico e poitico, era sospettato e addirittura accusato, sia da vertici vaticani che da politici e media interessat, di essere comunista. Pur senza essere mai stato nè iscritto, nè militante, nè tantomeno diffusore di idee, stampa o altro riconducibile ad una propaganda per questo o quel partito o ideale. Ovviamente questo non voleva dire equidistanza o disinteresse qualunquista. Anzi il suo lavoro continuo, certosino, per certi versi estenuante era per fare in modo che i poveri potessero e dovessero appropriarsi della politica come strumento prima di comprensione, poi di liberazione. Lasciare la politica a lor signori, che pur definendola cosa sporca, si guardavano bene dal mollarne la gestione o dal cercare di renderla migliore (in questo aspetto dopo decenni siamo ancora lì se non peggio). Lui, essendo soprattutto una persona libera, aveva come referente principale e forse unico, la propria coscienza di cristiano. Forse di un cristiano senza chiesa e di un comunista senza partito. (Silone) Ma lo era e lo diventava (comunista) agli occhi dei borghesi benpensanti perchè urlava, non solo metaforicamente, contro l'ingiustizia, e non solo dal pulpito di una chiesa. Ma lo faceva dalle strade polverose o fangose dell'estrema periferia degradata di Roma. Lo diventava perchè non scacciava o emarginava i Rom. Ma cercava di comprenderne cultura e usanze per condividerle empaticamente. Lo era perchè aveva deciso di prendersi cura, sostenere e soprattutto tener loro la mano nell'ultimo viaggio. ai malati terminali di AIDS. Quei malati che, in quegli anni, paventando una nuova peste e appestati vittime di una punizione divina, venivano scacciai e abbandonati al loro destino lasciandoli morire da soli, vittime più dell'ignoranza che della malattia. Lo era soprattutto però, perchè nella sua Scuola 725, cui mi onoro di aver fatto parte come allievo, all'Acquedotto Felice, diede una coscienza e preparò una generazione di ragazzi. Ragazzi che nel crescere, sarebbero poi diventati protagonisti attivi nella società e non condannati preventivamente, non da un dio capriccioso, ma da una società cinica, ad occupare gli ultimissimi gradini della scala sociale. Tra questi c'è Chi lo ha fatto in politica. Chi nel sindacato, nei movimenti, nelle associazioni o nell'ambito lavorativo (alcuni sono diventati insegnanti). Ma tutti sicuramente, nella vita, nel rapporto col prossimo e con la società nel suo insieme. Un rapporto in cui la ricerca e difesa della giustizia non ha rappresentato solo un concetto astratto o una semplice enunciazione di principio. Ma una linea di confine netta e non modificabile tra bene e male. Linea di confine che quasi mai permetteva lo sconfinamento nell'altra, più comoda della convenienza opportunistica. Ragazzi i cui legami tra loro si sono nel tempo spesso allentati o addirittura (come nel mio caso) sfilacciati, ma mai provocando nell'intimo, un senso di distacco o allontanamento da quegli insegnamenti e da quell'esempio vivente. Al contrario, avvertendo spesso, un profondo senso d' inadeguatezza per non riuscire neanche lontanamente, ad emularne l'esempio. Ma mai facendo in modo di perdere la consapevolezza di aver fatto parte collettivamente e singolarmente, di un'esperienza sicuramente unica, e di aver potuto usufruire di un raro privilegio. Credo che il sentimento che sicuramente ci accomuni, oltre quello della comune estrazione sociale e dell'esperienza vissuta, sia proprio quel senso di appartenenza ad una ristretta privilegiata cerchia. Fatte le debite proporzioni ma senza tema di esagerare, trattasi di un sentimento abbastanza vicino a quello provato e vissuto da chiunque si sia trovato a stretto contatto con personalità di una grandezza non misurabile. Persone capaci di ergersi almeno di un palmo sopra la mediocrità e la supponenza imperante. Quelli che qualcuno non esita, a seconda dell' habitat, a chiamare santi, grandi anime o eroi. Personalità di diversa estrazione, formazione o rappresentanza religiosa, politica o sociale le cui gesta e le parole attraversano il tempo mantenendone intatto la grandezza e il valore. Ecco noi questa cosa non 'abbiamo sentita dire da qualcuno. Non ce l'ha dovuta raccontare nessuno. Non l'abbiamo letta sui libri. L'abbiamo vissuta, toccata. Ci abbiamo studiato, mangiato e lavorato insieme. A volte abbiamo anche discusso, criticato e anche dubitato. Inutile nasconderlo. L'hanno fatto in tanti molto più preparati e attrezzati di noi in situazioni sicuramente più facili, figuriamoci se non potessero farlo degli spocchiosi adolescenti di borgata, come eravamo. Ma, soprattutto l'abbiamo mantenuto vivo non solo nel ricordo e nelle celebrazioni, ma nel vissuto, con risultati spesso non esaltanti e decisamente criticabili ma mai, grazie a quel seme che lui ha gettato in noi, superando quel sottile confine tra bene e male cui accennavo prima. Quel confine che traccia in maniera invisibile ma determinante, l'appartenenza non solo e non tanto alle brave o cattive persone. Ma tra esseri umani coscienti, sensibili, vigili e attivi protagonisti consapevoli, rispetto l'apatia, il cieco risentimento e il conseguente insensibile menefreghismo cui si sarebbe potuto essere destinati da un potere tanto ingiusto quanto ottuso. Insomma, l'occhio e l'attenzione di Don Roberto verso gli ultimi e verso la loro rappresentazione pratica nelle borgate romane, non era la stessa di Pasolini. Il quale trovava nella fascinazione del brutto, sporco e cattivo motivo per suoi interessi che non solo stimolati da curiosità intellettuale o da sentimenti empatici, definirei più antropologici che sociologici. PPP non ne vedeva la grandezza potenziale, se non nella narrazione delle miserie, e non ne ricercava o auspicava il riscatto. Ne raccontava e ne ricercava le ombre e i paradossi. Ci si calava beandosi ed esaltandone gli aspetti più scandalosi e scandalizzanti. Esattamente il contrario di Don Robero la cui preoccupazione costante era propio quella di difendere, rispettare, minimizzare e mimetizzare gli aspetti di costume e quasi agiografici di quella condizione. Non dimentico la rabbia e la durezza con cui contestava chi si provava ad approcciarsi con quello spirito alla borgata e ai suoi abitanti. Riportandone e raccontandone su stampa e media l'immagine di un'umanità esclusivamente dolente e misera, oscurandone e delegittimandone, di fatto, potenzialità e speranze. Più o meno quello PPP veicolava e trasmetteva attraverso le sue opere e le sue frequentazioni. Opere che, seppur da sempre sono state prese a esempio e modello per denunce e rappresentazioni ulteriori, ne erano in realtà una semplice, seppur mirabile narrazione. Era il regista, lo scrittore, l'osservatore, l'intellettuale talmente posizionato in una dimensione altra, che nel raccontare in modo anche mirabile ne ricercava però, il paradosso e a rappresentazione scandalistica. Certificandone certamente e veicolandone più o meno fedelmente, l'esistenza. Ma senza traccia, impegno o mobilitazione per un suo superamento. La denuncia urlata dello scandalo e dell'ingiustizia, augurandosi quasi però, che il tutto rimanga tale e quale nei tempi e nei modi. Non indicando una via d'uscita e di riscatto, se non affidata alle piccole, meschine trovate o espedienti dei protagonisti delle sue opere, destinati quasi fatalmente, al fallimento. Per questi aspetti paralleli tra le due visioni ma non sovrapponibili a me piace paragonarli un pò alle differenze che possiamo trovare tra un quadro e una fotografia. Il soggetto è lo stesso, la sua rappresentazione e narrazione è però, sicuramente diversa già nel suo approccio iniziale, e ancor più nella sua realizzazione. Rendendo il loro paragone difficoltoso se non addirittura impossibile, proprio per le differenze motivazionali e pratiche presenti fin dalla scelta dela tecnica da usare rispetto il cosa andare a rappresentare. MIZIO

giovedì 15 aprile 2021

LA VITA E' UN MISTERO, LA MORTE NON SEMPRE

L'altro giorno mi sono vaccinato e quindi credo di poter tranquillamente non essere considerato complottista o negazionista, anzi. Però, bypassando tutto quello che riguarda il come dove e perchè del virus, e della conseguente pandemia, argomenti su cui invidio le certezze granitiche di molti, appartenenti e schierati in campi anche diversi, alcune riflessioni sembrano, però doverose. Perchè, ad esempio, dopo oltre un anno, a differenza di altri paesi simili, il numero dei decessi, da noi sia ancora inspiegabilmente e intollerabilmente troppo alto, sia in termini assoluti che percentuali? Credo sia legittimo, se non obbligatorio, da parte di chi ha responsabilità in materia, porsi delle domande e cominciare anche pensare se l'approccio, con cui ci si è confrontati con la pandemia finora, sia stato e sia ancora quello più idoneo. Visti i risultati si comincia legittimamente a dubitare che lo sia. Escludendo, al momento, quelle visioni utopiche e romantiche tra movimento hippy e new age, anche fascinose e potenzialmente valide, ma decisamente necessitanti di tempi storici lunghi per la loro permeabilità e presa di coscienza collettiva, rimane il lavorare se e come cambiare approccio. Cambiamento necessario per poter, almeno, ridurre nell'immediato, l'impatto più grave e pesante. Detto che, attualmente, solo la vaccinazione di massa, pur se tra legittimi dubbi e timori, sembra essere in grado di tirarci fuori, in tempi ragionevolmente brevi dalla fase critica , non può, però la sua risoluzione definitiva essere affidata solo a questa opzione. Visto che, tra l'altro,a fronte delle numerose varianti del virus potrebbe risultare meno efficace delle aspettative. Quindi, se all'inizio, a fronte di una situazione nuova e di un nemico al momento sconosciuto, ci si è mossi tra mille comprensibili tentativi emergenziali, dopo oltre un anno risulta inconcepibile che l'unico, o quasi, approccio con il virus sia rimasto quello, dimostratosi inefficace, della tachipirina e della vigile attesa. Attesa che, troppo spesso, si trasforma poi in ricovero in intensiva e successiva potenziale evoluzione nefasta. Si è colpevolmente, tolto alla medicina di prossimità (medici di base) la possibilità di autonomia e libertà di cura costringendo alla passività (che a molti non è dispiaciuta)e al rigido rispetto del protocollo. Tutto questo, nonostante, nel tempo, ci siano per fortuna e sempre più, esempi di approcci terapeutici tempestivi e diversi che portano ad abbattere enormemente il ricorso all'ospedalizzazione e i conseguenti minori decessi. E, non vogliamo, in questo ambito, considerare il benefico effetto sulle strutture ospedaliere e sulle altre patologie, attualmente meno “attenzionate” dal sistema sanitario (E' di oggi la notizia che nel Lazio sono sospesi tutti gli interventi non urgenti). Col nuovo governo, da questo punto di vista sembra non essere cambiato molto. E' cambiato il responsabile della gestione logistica più per questioni di opportunità (viste le ombre su alcune operazioni) che di cambio di passo vero e proprio. Il ministro è rimasto lo stesso e questo sembra confermare un giudizio, tutto sommato, positivo sulla gestione precedente. D'altra parte, riconosciamo che il ministro si è trovato calato all'improvviso, da uno stato di orgoglioso autocompiacimento per far parte di un governo, al doversi assumere responsabilità in una crisi epocale che mai, avrebbe pensato di dover affrontare neanche nei suoi peggiori incubi. Adesso però, dopo oltre un anno e con evidenze non smentibili che alcune cose siano state affrontate in modo errato, credo ci si debba assumere anche la responsabilità politica di mettere alle strette le risultanze delle certezze, che tali finora, non sono sembrate, dell'ISS e dei vari comitati tecnici. Nuovi protocolli più efficaci sono già attuati quotidianamente e con successo, da medici coraggiosi, responsabili disponibili e aperti. Medici, è bene prcisarlo, non negazionisti, non complottisti o no-vax. Per fortuna alcune regioni, autonomamente, cominciano a riconoscere la validità di tale approccio diverso e, non sarebbe male che anche il governo, nella sua interezza, si assumesse la responsabilità, se non altro, di sperimentarne la validità. Certo, per fare questo non c'è bisogno di effetti spot, ma di un'organizzazione della sanità pubblica che riscopra la sua funzione di prevenzione e cura capillare sul territorio. A cominciare dal mettere effettivamente e finalmente in piedi le USCA che, con assunzioni e fondi mirati, permettano di avere una rete diffusa di assistenza domiciliare dei malati di Covid. Per concludere, possiamo tranquillamente affermare che, a fronte delle cifre, forse non tutto è stato indovinato e fatto nel migliore dei modi. Diciamo che se possiamo riconoscere delle attenuanti, vista l'eccezionalità della situazione, quello che però, non si può e non si deve fare, è la sottovalutazione o mistificazione degli errori e il loro perpetuarsi per non smentirsi o riconoscere i limiti e gli errori commessi anche a livello politico, oltre che tecnico. Perchè, parliamoci chiaro, questa pandemia e i morti, hanno messo prima di tutto in crisi il modello di sanità pubblica, visto sempre più non come servizio ma come azienda con dolorosi tagli epocali. Azienda messa in concorrenza diretta con quella privata che, al contrario, è finanziata sempre più con soldi pubblici e con l'altrettanto penalizzante delega della sua gestione, alle regioni. Riconoscere questo vorrebbe dire ammettere il proprio fallimento in materia. E senza distinzioni percepibili tra destra e centrosinistra. Vorrebbe dire la fine dell'unico modello sociale che si sia in grado di immaginare nei diversi campi che si alternano e si contendono il potere. Il modello capitalista soprattutto nella sua ultima versione liberista e finanziaria. Modello in cui tutto, anche la vita umana è solo una questione economica. Si tratta, evidentemente, solo di stabilire dove fissare l'asticella che renda accettabile o giustificabile il numero delle morti. In Italia, attualmente, sembra essere fissata in alto. MIZIO