venerdì 28 dicembre 2012

NUOVA DEMOCRAZIA: DIRITTIDOVERI DEL NUOVO MONDO



Ora l’inverno del nostro scontento

è reso estate gloriosa da questo sole di York,

e tutte le nuvole che incombevano minacciose sulla nostra casa

sono sepolte nel petto profondo dell’oceano.

Ora le nostre fonti sono cinte di ghirlande di vittoria,

le nostre armi malconce appese come trofei,

le nostre aspre sortite mutati in lieti incontri,

le nostre marce tremende in misure deliziose di danza.
Riccardo III



Arriverà anche quel momento e bisognerà pensare a
cosa costruire sulle macerie.

Questi dirittidoveri non abbisognano di spiegazioni e giustificazioni, sono intuizioni morali spontanee il cui significato e cogenza possono sfuggire solo a persone prive di empatia o introspezione. In un ipotetico consesso di civiltà della Via Lattea esemplificherebbero l’ethos umano, sarebbero il nostro biglietto da visita, qualcosa di cui essere orgogliosi.

Il dirittodovere alla giustizia sociale ed all’equità


Nella filosofia greca classica giustizia e senso della misura erano inestricabilmente connessi. Archita elogiava la giusta misura, che neutralizza “l’avido desiderio di avere sempre di più” (pleonexia). Eraclito, Anassimandro, Esiodo, Solone convenivano sul fatto che il fondamento della moralità umana sia la misura e la repressione dell’eccesso e che mutualità e giustizia sono le virtù che producono l’uguaglianza.

La giustizia non è semplice imparzialità o equità, presuppone uguaglianza nel rispetto, trascende le norme di legge: sei un mio pari, ti tratterò di conseguenza. La giustizia è qui intesa non come ideale ma come una prospettiva sul mondo. Sono in una posizione di privilegio rispetto alla tua, ma è un accidente, un caso del destino e quindi un mio eventuale senso di superiorità sarebbe del tutto ingiustificato.

Non c’è giustizia se manca il riconoscimento della comune umanità e il desiderio di riparare ad un’ingiustizia occorsa ad un altro come se l’avessimo subita in prima persona.

Per questo la civiltà contemporanea sta affondando e dalle sue ceneri non dovrà nascere una fenice, ossia un clone del presente, ma un mondo nuovo e diverso.

Tanto per cominciare si dovrebbero adottare misure di seria e rigorosa regolamentazione dei mercati, di tassazione delle transazioni finanziarie e di contrasto al fenomeno dei paradisi fiscali.

Secondo un rapporto realizzato da un ex capo economista di McKinsey, James Henry, sulla base dei dati della Banca dei Regolamenti Internazionali e del Fondo Monetario Internazionale, ed intitolato “Il prezzo dell’offshore rivisto”, fino al 2010 i patrimoni dei super-ricchi di tutto il mondo nascosti nei paradisi fiscali ammontano ad una cifra che potrebbe raggiungere i 32mila miliardi di dollari, pari ad una volta e mezza la somma del PIL americano e giapponese. Le 10 maggiori banche hanno messo da parte un quinto del totale, nel 2010, quasi triplicando il gruzzolo di 5 anni prima. Miracoli delle crisi globali. Le mancate entrate derivanti da questa elusione fiscale sono enormi. La ricchezza sottratta ai paesi in via di sviluppo (in primis alla Russia post-comunista) negli ultimi 40 anni sarebbe più che sufficiente a coprire il loro indebitamento con il resto del mondo, con effetti decisivi sui flussi migratori. Il rapporto precisa che “il problema è che i beni di queste nazioni sono controllati da un ristretto numero di persone mentre i governi ridistribuiscono i debiti sui cittadini ordinari”. La somma calcolata è così colossale da lasciar capire che la misura dell’ingiustizia sociale dei nostri tempi è “drammaticamente sottostimata”. Quasi la metà di queste ricchezze è posseduta da 92mila persone, ossia circa lo 0,001% della popolazione mondiale. Finora i politici si sono ben guardati dal prendere l’iniziativa contro questa vero e proprio crimine contro l’umanità. Del resto ben 68 parlamentari britannici controllano o sono partner finanziari di imprese uffici, conti correnti e sedi in vari paradisi fiscali (inchiesta del Guardian, 2012).

Anche la Tobin Tax, la cosiddetta “tassa Robin Hood”, continuamente evocata, non è mai stata approvata. Colpirebbe le compravendite borsistiche che, a differenza di quelle ordinarie (merci, beni e servizi sono sottoposti all’IVA o ad altre imposte), sono gratuite. Innumerevoli miliardi di dollari ed euro di fatturato non tassato. Negli Stati Uniti erano tassate fino alla seconda metà degli anni Sessanta, poi questa misura fu abolita dal successore di JFK, Lyndon Johnson. Curiosamente, è proprio dagli anni Settanta che il divario tra i redditi dell’1% e quelli del 99% della popolazione americana prima e occidentale poi ha cominciato a crescere in modo molto sostenuto. Una tassa di un semplice 1% risolverebbe la colossale crisi del debito sovrano americana.

Il dirittodovere alla libertà ed all’autonomia


La libertà è lo svincolamento da forze e circostanze che oggettificano l’umano, che impongono ad una persona la passività e prevedibilità della materia grezza. Gli oggetti hanno cause, i soggetti hanno motivazioni e ragioni complesse ed anche contraddittorie.

La libertà è la dimensione di apertura illimitata che consente all’essere umano di trascendere la finitezza. È una condizione d’esistenza indispensabile allo sviluppo della psiche e della coscienza. Essere libero, libero di essere onesto con me stesso, di pensare senza dovermi chiedere ogni volta cosa gli altri penseranno di me, di vivere pienamente ed abbondantemente.

Non c’è umanità senza libertà di scegliere, non esiste morale e maturazione spirituale se una persona non può essere libera di compiere il male. Quella persona sarebbe un’arancia meccanica, un congegno, non un essere vivente. Per questo nei campi di sterminio il suicidio e lo sciopero della fame erano proibiti e severamente puniti, anche se acceleravano la morte dei detenuti. Ogni atto di autodeterminazione era bandito.

In una democrazia che rispetto libertà ed autonomia, io conto, le mie decisioni possono fare la differenza, perché sono mie; non sono trascurabile, la mia volontà ha un peso. Mi si devono delle spiegazioni, posso esprimere il mio parere, posso contestare quello altrui, ho diritto di poter ascoltare il parere altrui, di prendere parte alla vita della comunità. In questo risiede la mia dignità, nel fatto che sono imprevedibile perfino a me stesso; sono solo parzialmente determinato dal mio corredo genetico e dal mio ambiente socio-culturale; c’è qualcosa in me che è unico e che è in larga misura inespresso.

Sono un progetto, un lavoro in corso, posso e debbo riflettere su chi sono, da dove vengo e dove voglio andare. Posso scegliere, mi creo e ricreo ogni giorno e non sono un prodotto, un manufatto, una merce, un burattino, un automa. Posso trovare il coraggio di essere me stesso, di vivere consapevolmente e sento che questo enorme beneficio vale per tutti gli altri, che vivrei meglio in una comunità in cui tutti potessero farlo, senza violare l’altrui diritto di poterlo fare. Una comunità di persone libere e responsabili che si sforzano di consentire agli altri di essere nelle condizioni di poter esprimere e migliorare se stesse, di non nascondersi a se stesse ed agli altri, di cambiare, di desistere e ricominciare da capo.

Non sono la proprietà di nessun altro, neppure della mia comunità, di una casta, della società, di una multinazionale, o dello Stato. Nessuno mi può trattare come un bambino o un animale domestico se sono un adulto e mi comporto come tale. Ci sono dei confini che non devono essere violati, ho dei diritti inalienabili che mi permettono di procedere nell’elaborazione del progetto di me stesso, assieme agli altri, coralmente. Mi pongo al servizio del prossimo ma non sono a disposizione degli altri per qualunque cosa, eccezion fatta per le persone che amo ed anche lì con dei distinguo.

Devo poter vivere a modo mio anche se le mie scelte sono impopolari e magari persino considerate aberranti, purché non leda il diritto altrui di fare lo stesso e non danneggi il mio prossimo (ma non certo la sua sensibilità, che è un arbitrio e come tale non merita rispetto a prescindere dalle circostanze e dalla persona).

Il dirittodovere alla tolleranza


È più facile essere tolleranti quando si è consapevoli della nostra finitezza, dei nostri difetti e della nostra ignoranza. La disposizione d’animo di chi ritiene di poter apprendere dal prossimo è il fondamento della tolleranza.

Il bisogno di convertire il prossimo al nostro punto di vista è invece alla radice dell’intolleranza. La persona tollerante è pronta ad includere nel principio di libertà l’altrui espressione anche di idee che personalmente ripudia.

Ciò non significa però che la tolleranza debba essere illimitata. Esistono dei principi fondamentali incastonati nelle nostre costituzioni che fanno sì che non si varchi mai quella soglia oltre la quale una democrazia non è più in grado di gestire un eccesso di pluralismo e sprofonda nell’anarchia, nell’anomia, nel caos.

Il dirittodovere alla democrazia ed all’uguaglianza


Democrazia è bello perché le decisioni sono più ragionate e precise, perché ci sono meno possibilità di lasciarci la pelle, perché c’è maggiore prosperità, perché una società democratica è tenuta a difendere i suoi assunti fondanti: l’essenziale dignità dell’essere umano; l’importanza di proteggere e coltivare la personalità dei cittadini in un clima di collaborazione e non di divisione (pluralità unitaria); l’eliminazione di privilegi basati su interpretazioni arbitrarie ed esagerate delle differenze tra esseri umani; l’idea che l’umanità possa migliorare; la convinzione che i profitti debbano essere ridistribuiti il più possibile tra tutti ed in tempi ragionevoli; il pari diritto dei cittadini di far sentire la propria voce su questioni delicate (coesistenza del maggior numero possibile di opinioni, o pluralismo) e di decidere autonomamente chi li debba rappresentare; la premessa che i cambiamenti sono normali, possono essere molto vantaggiosi e vanno realizzati tramite processi decisionali consensuali (spirito del compromesso, suffragio universale) e non con la prevaricazione e la forza bruta.

La democrazia è un ambiente in cui, idealmente, ciascuno, anche la persona più mediocre, ha qualcosa da esprimere che merita la nostra attenzione, ha valore di per sé e non in relazione ad un gruppo di appartenenza o riferimento, ed in cui nessuno ha la verità in tasca. Di qui l’obbligo di concedere spazi di sperimentazione per le coscienze. La società democratica è una grande scuola dove tutti sono alunni e maestri, dove tutti imparano insegnando ed insegnano imparando, dove è indispensabile essere curiosi, attenti e ricettivi e nel contempo difendere la propria indipendenza di giudizio; dove ciascuno deve fare la sua parte nel processo di democratizzazione delle relazioni umane, di rafforzamento del senso di uguaglianza tra le persone, di espansione della capacità di sospendere il nostro giudizio prima di aver ben compreso. Ascoltare, dibattere, partecipare, deliberare, acconsentire, mettere in discussione: solo così ogni singolo cittadino acquista valore, “peso”, diventa consapevole del suo ruolo nella società e nel mondo e dell’importanza del parere altrui.

Il dirittodovere alla fratellanza (convivialità)


Il più grave errore commesso dai rivoluzionari francesi è stato quello di trascurare la fraternité, sacrificata in nome della lotta alla controrivoluzione, all’edificazione di un’utopia in terra sfociata nel Terrore giacobino, alla volontà di schiacciare il movimento indipendentista ed anti-schiavista degli Haitiani, all’idea di una repubblica campanilista e uniforme nella sua volontà che stava tanto a cuore a Jean Jacques Rousseau ed ai suoi discepoli, Robespierre e Saint-Just.

Rousseau ci offre un esempio particolarmente efficace di come si possa ripudiare l’anelito alla fratellanza continuando però a credere di battersi per il bene dell’intera umanità.

Orfano di madre dalla nascita e di padre dall’età di 15 anni, senza fissa dimora, Rousseau conduce l’esistenza di un nomade, legandosi a chi lo ospita, specialmente a figure materne. È straniero in ogni luogo e patisce questa condizione di precarietà ed estrema vulnerabilità. È ossessionato dall’altrui generosità, eternamente sospettoso di ogni dono, delle motivazioni degli altri, fino al punto da rifiutarli, per paura del fardello dell’obbligo di reciprocità. L’ospitalità lo fa sentire alienato, un eterno straniero nel mondo. C’è in lui una forte ambivalenza: ne ha bisogno ma odia il senso di dipendenza. È ingrato verso le sue protettrici, senza l’assistenza e l’ospitalità delle quali sarebbe restato nell’anonimato e magari persino deceduto prematuramente. Finisce i suoi giorni come un eremita, prediligendo la compagnia del suo cane a quella degli altri esseri umani e quella dei libri alla compagnia di un amico. Preferisce il visitare all’essere visitato, si sente ostaggio, non ospite; rifiuta i doni per non doverli ricambiare.

Immanuel Kant è l’opposto di Rousseau. Per lui mangiare da solo è malsano, nocivo (ungesund), equivale alla morte del filosofo, che perde vivacità ed acutezza, non potendo avvalersi del contributo stimolante di un punto di vista alternativo, quello dell’ospite al suo desco. Il filosofo che consuma il suo pasto da solo diventa autarchico, auto-referenziato, si auto-consuma (il proprio cibo, come le proprie idee, a ciclo continuo), disperdendosi (sich selbst zehrt) in ragionamenti circolari, idee fisse, vicoli ciechi. Perde il suo vigore, la vivacità dell’intelletto (Munterkeit). L’ospitalità è invece apertura al resto del mondo, all’altro, è una messa in discussione di se stessi, una breccia nel proprio egoismo. Per questo Kant sente il bisogno di avere sempre degli invitati al pasto, a costo di domandare alla servitù di invitare un passante a sedersi al tavolo con lui. La compagnia conviviale deve essere eterogenea ed includere dei giovani, per variare la conversazione e renderla più giocosa. Il piacere deriva dalla presenza di commensali con interessi diversi dai nostri: “non mi attrae chi ha già ciò che possiedo, ma chi mi può dare ciò che mi manca”, spiega il filosofo di Königsberg.

Al contrario, Rousseau non sa gestire la diversità, ne è allergico, vorrebbe controllarla. Non ama mangiare con gli altri: mangia un boccone alternandolo con una pagina di libro. L’ospitante, nei suoi racconti, è incline al dispotismo, all’assimilazione cannibalistica dell’ospitato. Per questo muore da eremita, in preda alle allucinazioni, vittima del peso del matricidio, l’uccisione della madre, l’ospitante per eccellenza.

Il sentimento di fratellanza è quello dimostrato dal buon samaritano. Non viveva per compiere buone azioni – aveva sicuramente altre occupazioni, nella vita –, ma le faceva quando si presentava l’occasione. Non era l’amore a guidarlo, ma la compassione. La regola d’oro, infatti, si applica in egual misura alle persone che si amano o con le quali esiste un rapporto amicale o di intimità e familiarità ed agli sconosciuti, agli stranieri, agli immigrati. Lo straniero bisognoso d’aiuto non lo incomoda, non è più straniero, non è etnicamente/razzialmente differente, non è meno reale e meno degno di lui. Straniero, vicino, amico: non conta. Lo Stato salvaguarda i dirittidoveri, ma è il samaritanismo dei cittadini che deve supplire alla sua inevitabile e anche necessaria ed opportuna (in quanto lo stato è comunque coercitivo) assenza.

Nel 2009 Walt Staton, un programmatore elettronico dell’Arizona, è stato condannato ad un anno di libertà vigilata per aver lasciato brocche d’acqua con scritto “buena suerte” (buona fortuna) sul percorso attraversato dai chicanos che entrano clandestinamente negli Stati Uniti attraverso la frontiera con il Messico. Dava da bere agli assetati in un’area in cui negli ultimi vent’anni, sono morti come minimo 5mila immigrati illegali, in gran parte per disidratazione.

L’accusa: aver inquinato il parco naturale Buenos Aires National Wildlife Refuge.

Libertà, uguaglianza e fratellanza: o trionfano unite, o restano solo sulla carta.

Il dirittodovere all’ospitalità (cittadinanza mondiale e beni comuni)


Umberto Curi, storico e filosofo all’Università di Padova e Maria Chiara Pievatolo, filosofa politica all’Università di Pisa, ci aiutano a comprendere la dimensione politica e giuridica del principio di ospitalità (Curi, 2010; Pievatolo, 2011) che ha come suo insigne pioniere nientemeno che Immanuel Kant.

Kant concepisce un diritto cosmopolitico fondato su un principio cardine, quello, appunto, dell’ospitalità universale: “il diritto che uno straniero ha di non essere trattato come nemico a causa del suo arrivo nella terra di un altro”. Questo perché “originariamente, nessuno ha più diritto di un altro ad abitare una località della terra”. Anche per il filosofo di Königsberg siamo solo di passaggio su questo pianeta, la cui superficie sferica e finita fa sì che non possiamo evitare di incontrarci. Le nostre nascite sono del tutto accidentali, per quanto ne sappiamo. Siamo nati in un certo luogo piuttosto che in un altro e ciò non ci dà alcun diritto di reclamare un’area come nostra. Per lo stesso principio nessuno può rivendicare alcun titolo preferenziale a risiedere in un dato luogo piuttosto che in un altro. Se è vero, come è vero, che nessuno ha più diritto di un altro di essere titolare di una porzione di questo pianeta, poiché siamo tutti viaggiatori, allora la condizione originale dell’uomo è quella di una relazione aperta, di condivisione, che respinge ogni pretesa di esclusività. Il risiedere in un luogo, la delimitazione del proprio rifugio, santuario, riparo, non assegna alcun diritto di possesso. La superficie della terra e le sue risorse appartengono a tutti e a nessuno e non è pertanto  inquadrabile nella logica del diritto d’uso esclusivo e meno che meno della proprietà privata. Non esiste una terra promessa ed un popolo eletto destinato a dimorarvi. Lo straniero per Kant è ospite e lo si allontana solo se crea problemi, ma non se ciò comporta la sua rovina.

Kant parla di diritto alla visita, alla mobilità, in nome della socievolezza e del destino comune (siamo su una stessa barca e non è grande): “diritto di possesso comune della superficie della terra”. Esclude il possesso esclusivo: “l’inospitalità è contraria al diritto naturale”. Per questo il diritto cosmopolitico non è una “rappresentazione di menti esaltate”. L’evidenza del fatto che la superficie terrestre è un possesso comunitario di tutti gli esseri umani – con tutti i diritti fondamentali che ne conseguono – è rimasta un’ovvietà per la quasi interezza della storia umana, ma non lo era per gli europei che massacrarono i nativi americani proprio in virtù di un diritto proprietario e di sfruttamento delle risorse antitetico a quello indigeno. Gustavo Zagrebelsky ribadisce che dovrebbe ritornare ad essere un’ovvietà (Mauro/Zagrebelsky, 2011, pp. 101-102):

“L’idea dell’essere umano come animale stanziale, un animale che, come altri, ha il suo territorio e lo difende dalle intromissioni, deve essere un’idea del profondo…La terra, questa “aiuola che ci fa tanto feroci” (Par., XXII, 151) l’abbiamo divisa in tante parti e ce ne siamo impossessati, popolo per popolo, come cosa nostra, e ci pare normale, naturale, l’idea di straniero, di colui che passa o tenta di passare da un’aiuola all’altra turbando le sicurezze che riponiamo “in casa nostra”. Quante volte abbiamo sentito ripetere anche da noi, come se fosse ovvia e innocente, questa espressione!”

Kant simpatizza per una posizione analoga a quella dei nativi americani ed invoca il diritto di visita e di asilo, non certo il diritto di imporre con la forza la propria volontà alle altre nazioni, come facevano le potenze coloniali. L’ospitalità universale diventa uno dei pilastri imprescindibili per il conseguimento della pace perpetua, la “comunanza tra i popoli della Terra”, in un’epoca, la sua, in cui il pianeta si andava già globalizzando, tanto che: “si è arrivati a tal punto che la violazione di un diritto commessa in una parte del mondo viene sentita in tutte le altre parti”.

L’ospitalità dovrebbe precedere, fondare ed orientare il diritto.

La vera ospitalità deve superare la violenza intrinseca all’ospitalità, che risiede nella dipendenza dall’altro, interiorizzata, e che nasce con il concetto di proprietà. C’è un legame occulto, ma vibrante, tra il tuo e il mio, me e te: siamo ospiti di questo pianeta. Siamo provvisori, nomadi, votati alla scomparsa. Questo legame non ha nulla a che vedere con la pietà, ma piuttosto con il rispetto e la devozione per l’ospite, nel quale riconosco l’estraneità che alberga in me stesso: anch’io, come lui, nato e cresciuto per caso qui ed ora. Anche e soprattutto così si realizza la promessa della fratellanza, il terzo termine della triade rivoluzionaria francese.

Il dirittodovere alla dignità


L’idea di dignità umana – “ci sono cose che non si fanno agli esseri umani” – esisteva in nuce già tra i Cro-Magnon che, a differenza dei Neanderthal, mostravano una spiccata sensibilità nel trattamento dei cadaveri e pare si astenessero, in genere, dal cannibalismo.

È con Socrate – o, forse, prima di lui, con Pitagora – che si diffonde nell’Occidente il precetto che tutti gli esseri umani hanno un medesimo valore, pari dignità intrinseca, ossia il principio su cui si fondano lo stato di diritto, le carte costituzionali di tutti i paesi democratici, le convenzioni internazionali per la tutela dei diritti umani, insomma tutto ciò che ci separa dalla barbarie. Socrate è convinto che sopravvivere non sia sufficiente; occorre esserne degni e devono essere presenti quelle precondizioni essenziali senza le quali la vita non è tollerabile e perde il suo valore specifico, riducendosi ad un concetto astratto. Sopravvivere senza una coscienza integra è peggio che morire. La vita del corpo non è il valore precipuo. C’è un confine che molti esseri umani, come Socrate, non osano oltrepassare, ci sono azioni che queste persone non commetterebbero mai, indipendentemente dagli ordini che vengono loro impartiti o da quanto disperata sia la loro situazione. Questo perché sentono, istintivamente, che varcata quella linea, non potrebbero più tornare indietro, non ci sarebbe più un punto ulteriore dove marcare il confine del nec plus ultra (non oltre). Una tale azione, se compiuta, causerebbe un danno irreparabile dentro di loro, distruggerebbe qualcosa che vale più della loro stessa vita. Eseguito un certo comando, diventerebbe più difficile rifiutarsi di eseguirne altri, ancora più discutibili e riprovevoli.

La soddisfazione con cui persone dalla coscienza assopita si prestano ad ogni tipo di servizio corrisponde al patimento di chi quella coscienza ce l’ha ben desta e non si rassegna all’idea di eseguire certi ordini. Per questo Socrate affronta a testa alta un processo ingiusto, per insegnare a tutti che il valore etico fondativo delle nostre società è la dignità, non la forza, il giudizio di chi vince le elezioni, la presunta sovranità popolare incarnata nel capo.

Nuocere o tentare di rimuovere la dignità di qualcuno significa trattarlo come se fosse non completamente umano, uno strumento o una creatura subumana (Kateb 2011). L’essere umano è l’unico animale indeterminato, in quanto parzialmente non-naturale, cioè frutto dell’interazione di genoma, ambiente naturale ed ambiente culturale. Proprio nella sua indeterminazione, ossia nell’assenza di confini precisi, risiede la sua dignità intrinseca, che è il fondamento dei diritti umani (nonché il suo libero arbitrio e quindi il senso morale e di responsabilità). La sua fondamentale indefinitezza consente ad ogni singolo essere umano di essere migliorabile: ha un potenziale indeterminabile, inestimabile, appunto. È creativo, innovatore. Come aveva intuito Sartre, gli esseri umani sono sempre più di quel che credono di essere in ogni singolo istante della vita e se scelgono di negarlo, è per mala fede o falsa coscienza. Tale è la nostra condizione che ogni persona è unica ed individuata, non interscambiabile, anche quando non è interessata ad esserlo, senza però per questo essere esistenzialmente e moralmente superiore a chiunque altro.

 La specie umana è solo parzialmente naturale, rappresenta uno scarto rispetto alla natura. Questo la rende la più speciale tra le specie, ciascuna a suo modo speciale. L’umanità è la parte più interessante della natura, nel bene e nel male, l’unica che può aiutare la natura a riflettere su stessa. Per questa ragione, il prossimo passo dovrebbe essere quello di comprendere e rispettare la dignità dell’ambiente naturale e di chi vi dimora.

Una volta che questi principi saranno condivisi da una massa critica di europei e di ospiti di questo pianeta, l’Europa dei dirittidoveri, confederale, unione euro-mediterranea, costruita dal basso e non calata dall’alto, diventerà un modello per il mondo.
 (Caracciolo, 2010).

giovedì 27 dicembre 2012

LA FINE DEL MONDO DEI MAYA E' GIA'' QUI, BASTA VEDERLA


"Mi piace sviluppare la mia coscienza per capire perché sono vivo,
cos’è il mio corpo e cosa devo fare per cooperare con i disegni dell’universo.
Ogni secondo di vita è un regalo sublime.
Mi piace invecchiare perché il tempo dissolve il superfluo e conserva l’essenziale. (...)
Non mi piace che la religione sia nelle mani di uomini che disprezzano le donne.
Mi piace collaborare e non competere.
Mi piace scoprire in ogni essere quella gioia eterna che potremmo chiamare dio interiore.
Non mi piace l’arte che serve solo a celebrare il suo esecutore.
Mi piace l’arte che serve per guarire.."  Alejandro Jodorowsky


                                                                            
E così è arrivata la fine del mondo, tra lazzi e frizzi.
Magari c’è anche chi rimarrà deluso.
Anche perché la profezia dei Maya, nell’occidente europeo, non è stata mai presentata secondo la logica culturale dei Maya, bensì secondo l’interpretazione razionale eurocentrica basata sulla divinizzazione totemica del capitalismo mercantile.
Si è fatto credere alla gente, tra una battuta e l’altra, compresa la serie dei supermarpioni editorial-mediatici new age (Mondadori docet) i quali hanno approfittato della dabbenaggine di chi soffre per lucrarci sopra; un po’ come quelle bande di farabutti che nel tardo autunno del 1999 andavano in giro nel meridione Usa a spiegare a vecchietti impauriti che il 31 dicembre del 1999 la Terra sarebbe esplosa ma ci si poteva forse salvare se si firmava un certo documento e tanti tanti vecchietti ingenui accettarono per ritrovarsi poi, il 2 gennaio del 2000, con il rogito della loro unica proprietà cambiato a favore di anonimi. L’FBI ha impiegato circa 2 anni prima di riuscire ad accalappiarne (soltanto in Arizona e Alabama) circa 15.000, ma sembra che almeno altri 50 mila siano riusciti a farla franca. Con l’inevitabile rovina di altrettante famiglie.

La profezia dei Maya, per l’appunto, indica l’inizio della fine di gente come quella.

Si è già verificata, se è per questo.

La Terra si sta davvero spaccando in due.

Intendiamoci, non geologicamente o atmosfericamente.
Ma psicologicamente certo sì.
E noi fragili umani siamo, prima di ogni altra cosa, esserucci deboli e impauriti con una mente pensante (si fa per dire). Quindi la psicologia svolge un ruolo primario.

Nel continente dove i Maya hanno vissuto per centinaia e centinaia di anni prima di essere spazzati via nel censurato genocidio, da noi europei allestito e organizzato 500 anni fa, la loro profezia è stata invece interpretata secondo la loro cultura.
L’hanno condita in una pragmatica salsa californiana, un po’ alla Castaneda, con un pizzico di Jodorowsky e quell’invidiabile giovanilistico senso di aspirazione alla giustizia caratteristico delle civiltà giovani e spensierate.

L’hanno cioè trasformata in “auto-profezia”.

In tutto il continente sudamericano, dal Venezuela e dall’Ecuador fino al Polo Sud, hanno quindi stabilito che tale profezia era vera e accurata.

Quindi si è verificata.

Tradotto nel nostro linguaggio e sintetizzato ai minimi termini vuol dire “l’età del capitalismo durata 300 lunghi anni si è esaurita ed è finita all’alba del 21 dicembre del 2012”.

Perché laggiù, a 10 mila chilometri di distanza dalla nostra ricchissima Europa –ricchissima per l’oligarchia del privilegio che gestisce il potere- una quindicina di nazioni che complessivamente ammonta a 500/600 milioni individui, stanno in questo momento festeggiando l’avvenuta profezia dei Maya.

Loro si divertono in spiaggia, annunciando l’inizio lento ma inevitabile di una nuova era, mentre noi ci cucchiamo Monti, Berlusconi, Bersani, alla plebe italiota presentati come la novità alternativa e rigenerante sotto l’albero di Natale per il prossimo 2013.

Civiltà che vai, situazione che trovi.

Un mese fa, all’Onu, nel centro di New York, nella più totale censura mai verificata in occidente da quando esiste il web, a nome di 16 nazioni del Sudamerica (lo hanno eletto a maggioranza assoluta come loro ambasciatore) davanti a una esterefatta platea di ambasciatori, per lo più abituati a vedersela con minacce di guerra e di sterminio, bombe atomiche, genocidi annunciati, veti incrociati e strategie di mercato a fini economici, il presidente della Bolivia Evo Morales (qui in Europa considerato poco più di un fenomeno da baraccone) dichiarava davanti alla platea mondiale con il suo discorso: “

“Vorrei dire che, secondo il Calendario Maya il 21 dicembre segna la fine del non-tempo e l’inizio del tempo. È la fine del Macha e l’inizio del Pacha.  E’ la fine di egoismo e l’inizio della fratellanza.  E’ la fine dell’individualismo e l’inizio del collettivismo … il 21 dicembre di quest’anno avverrà perché è già iniziato. Nasce l’età di una nuoca consapevolezza collettiva e di una nuova coscienza umana al fine di costruire una società di giusti eguali.
Gli scienziati sanno molto bene che questo segna la fine di una vita antropocentrica e l’inizio di una vita biocentrica.  E’ la fine dell’ odio e l’inizio dell’amore. La fine della menzogna e l’inizio della verità. E’ la fine della tristezza e l’inizio di gioia.
È la fine della divisione e l’inizio dell’unità. ”
E poi anche il Ministro degli Esteri Boliviano ha aggiunto:
“Secondo il calendario Maya il 21 dicembre 2012 sarà la fine di una civiltà e l’inizio di un’altra che implica transizione spirituale verso una nuova coscienza cosmica.”

E poi ha aggiunto: “Vorrei ricordare che in data 15 ottobre 2012, proprio per rispettare l’avvicinamento di tale data, per il bene della nostra vita collettiva, abbiamo promulgato la “Legge quadro della Madre Terra e dello sviluppo integrale sostenibile per vivere bene”.

Come riportava e riferiva il Los Angeles Times, quotidiano della California, l’unico rappresentante mainstream che ha riferito sul discorso (divulgato poi su diversi siti e bloggers europei) La si può definire come una delle leggi ambientali più avanzate e radicali del mondo, poiché introduce una visione del mondo e della natura piuttosto diversa  da quella a cui siamo abituati e indica come deve essere perseguito lo sviluppo integrale al fine di vivere in armonia con la natura.
La Bolivia ha dimostrato una notevole lungimiranza e un grande coraggio adottando la Legge quadro,  scritta con il contributo delle associazioni di base e indigene, con cui sfida un sistema dominante che  ancora oggi concepisce la natura, l’ambiente e le persone come risorse da sfruttare e da piegare agli interessi economici.
Infatti questa legge, che segue la Legge dei Diritti della Madre Terra del 2010, sposta la visione del mondo da una concezione antropocentrica ad una olistica, che attribuisce alla Natura e agli esseri umani pari diritti: la natura diventa un soggetto giuridico in sé, introducendo un cambiamento notevole, perché sino ad ora gli unici soggetti giuridici presi in considerazione erano le persone fisiche, quelle giuridiche e lo Stato. A quest’ultimo viene affidato il compito di proteggere i diritti della Madre Terra.
La legge riprende i 14 principi già indicati nelle Legge dei Diritti della Madre Terra, tra cui la giustizia climatica, il rifiuto della mercificazione delle funzioni ambientali, la garanzia di rigenerazione e risanamento della natura, la solidarietà tra gli esseri umani, e ne definisce i concetti fondamentali. Successivamente la legge stabilisce 10 obiettivi fondamentali, tra cui la questione della sovranità alimentare, la definizione di  processi di produzione che non siano contaminanti e che rispettino la capacità di rigenerazione della Madre Terra, la democratizzazione dell’accesso alle risorse e ai mezzi di produzione, e indica come perseguirli.
Concetti fondamentali di questa legge sono quelli dei beni e degli interessi comuni. Si promuove l’utilizzo di strumenti di democrazia partecipativa e vengono creati strumenti ad hoc come il “Consiglio Plurinazionale per il Vivir bien in armonia e in equilibrio con la Madre Terra”, che dovrà elaborare le politiche ed i programmi di attuazione di questa Legge Quadro, nonché un fondo per il finanziamento e l’amministrazione per l’adattamento e mitigazione dei cambiamenti climatici.

E così, in quelle zone popolate da individui che noi europei, dall’alto dei nostri 3000 anni di civiltà imperiale, seguitiamo a considerare alla stregua di modesti selvaggi con ancora le piume in testa e idee balzane che non corrispondono alle cifre, dati, aliquote, spread e previsioni stabilite dai nostri grandi santoni guru laici, ebbene, laggiù oggi loro festeggiano la fine del mondo.
Il bello è che per loro è davvero finito. Altrimenti che auto-profezia sarebbe! 
Solo che in Europa, agli europei non l’hanno ancora spiegato.
Non sia mai si facessero venire dei grilli per la testa.
In compenso da noi si discute se Oscar Giannino ce la farà o meno; se ce la farà Antonio Ingroia; se Alessandro Sallusti otterrà la grazia; se è giusto oppure no andare in televisione a farsi intervistare e se Bersani andrà a letto con Vendola oppure con Casini e Monti oppure con tutti e tre, celebrando la quadri camerale: novità superba che preparano per la nostra nazione.
Si invertiranno i poli.
Noi resteremo al palo, se non incorporiamo la loro idea e la facciamo anche nostra, iniziando dal nostro interno individuale. 
Seguiteremo a discutere di cose inutili e alla fine, con un sospirone, diremo al compagno di tavola imbandita “Mah! Chi vivrà vedrà”.
Seguendo i Maya, invece, c’è chi comincia a dire, invece, sapendo ciò che sta dicendo: 
“Chi vedrà vivrà!”
E’ davvero tutto un altro dire.
Come suggerisce Jodorowsky, simpatico europeo, cerchiamo di essere artisti, ovvero: cerchiamo di guarire tutti insieme. Non vedo altra scelta.
 Buona fortuna.

di Sergio Di Cori Modigliani
















mercoledì 26 dicembre 2012

NATALE GRECO



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Atene. “Hungry but chic”. Affamati ma chic. Lo slogan campeggia sulla vetrina di uno dei negozi semivuoti di Ermou, la via del Corso di Atene. Non sembra una scelta memorabile. E non solo perché il negozio continua a licenziare e non paga da luglio parecchi dipendenti. Questo, i passanti potrebbero anche ignorarlo. Il fatto è che nei dintorni c’è ben poco da essere chic. Su Ermou si aggirano innumerevoli mendicanti. Nelle strade laterali i senzatetto si stendono sotto i portici dietro barriere di cartone. La guerra, in Grecia, non si è fermata con le feste. I negozi chiudono uno dietro l’altro. Locali un tempo pieni si svuotano. Nei grandi magazzini gli inservienti sono immobili come custodi di un museo. Preferirebbero essere occupati. Sanno cosa li aspetta se i consumi non riprendono a crescere. Fuori, infatti, si soffre. Nelle scuole, i bambini malnutriti svengono. Negli ospedali mancano i farmaci. Di fronte alle mense cittadine si allungano code serpentine. Segni di vera ripresa non arrivano. E nessuno crede che il peggio sia già arrivato.
Eppure c’è qualcosa di nuovo in questo Natale greco. Una specie di fibrillazione finora sconosciuta a fine anno. Me lo spiega in poche frasi un vecchio pensionato che vive con meno di 500 euro al mese. Sta seduto in piazza Kodzia, la mattina in cui dopo giorni di gelo il sole alza le temperature quasi a 20 gradi e improvvisamente i mercati natalizi più popolari si riempiono di folla brulicante, un ciondolio di pacchi e pacchetti, sfrigolare di carta da regali. Sta lì fermo da ore, impassibile e beato. “Ah, questa sì che è vita” mormora “Non trova che Atene sia la città più bella del mondo? Con questo sole. L’aria delle montagne e del mare. Niente di meglio per accogliere i miei nipoti. Perché tutti quanti aspettiamo chi torna, adesso”. Eccola qui, la novità. Il vecchio Athanasios ha tre nipoti che lavorano sparsi per l’Europa del nord. E sono poche le famiglie che non contano qualche giovane esponente della nuova generazione di “migranti”. Così la festa più importante in Grecia, la Pasqua, passa quasi in secondo piano.
“A Natale tutti tornano” mi racconta Anna Keitologou, 26 anni, un fratello in Inghilterra. “Perché si  assecondano i ritmi dei paesi protestanti”. Così le case si preparano a festeggiare i ritorni nella migliore e più antica tradizione elladica, quella che diede il nome al dolore (algos) del ritorno (nostos): la nostalgia. Anna ha cinque amiche strette, di cui quattro sono partite. L’unica rimasta non è pagata da settembre ma si rifiuta di lasciare la Grecia. “I nostri genitori ci dicono di andare. Pochissimi trattengono i figli”. Lei stessa partirà. Destinazione Amsterdam. Per ora studia nell’ottima e selettiva scuola statale delle Belle Arti, dove però non c’è più nulla tranne i professori (dimezzati): né carta, né matite, né altri strumenti. Guadagna facendo tatuaggi e si paga i 190 euro mensili di affitto nel suo monolocale da 15 metri quadri. Di cui è felicissima. Ha un piccolo terrazzo da cui si vede il Partenone. Lì, al sole, prepara i regali per il fratello. Regali simbolici. Non compreranno quasi nulla, in famiglia. Si spenderà soltanto per la cena del 24 e il pranzo del 25.
Per il resto ci si arrangia. Mercati e mercatini a bassissimo prezzo aprono ovunque, dalle piazze alle metropolitane. Mentre le aree dello shopping tradizionale hanno aspetti desolanti. Anche nelle zone più ricche. Dimitris Vlissides, psichiatra, primario all’ospedale di Voula, mi accompagna a Glyfada, sul mare, poco lontano dalle stanze in cui riceve pazienti inserendoli in liste sempre più lunghe (personale dimezzato: attese reduplicate, da una settimana a un mese almeno). Le ville dei più ricchi sono come bunker sorvegliati da guardie private e enormi masse di filo spinato sulle mura protettive, quasi fossero zone militarizzate, ma i negozi ancora aperti, scintillanti di luminarie natalizie, sono deserti. Vlissides ha visto decrescere il suo stipendio del 38 per cento. Oggi guadagna 2000 euro al mese. “E sono primario da ventisette anni. Lei immagina qual è la differenza rispetto ai miei colleghi europei? Figuriamoci se mi metto a fare grandi regali. Qualcosa ai miei figli, certo. Però il mio vero contributo sará in cucina”. Festeggiare tutti insieme: il rito del simposio. Anche Vlissides ha un figlio in Inghilterra, ma nel suo caso il ragazzo ci è nato e cresciuto perché lui stesso aveva cercato lavoro lì prima di trovarlo in patria. “Non bisogna esagerare con il vittimismo. Partire è un bene. Apre la mente. Scuote dalle certezze”.
Alcune certezze che da psichiatra esperto mette in dubbio riguardano un altro tipo di fuga particolarmente di moda negli ultimi tempi in Grecia, la fuga da tutti i problemi, quella definitiva. Secondo i dati sono 3124 i suicidi negli ultimi tre anni. “Ma io credo che sia cambiata soprattutto la percezione dell’atto in sé. Non lo si considera più esecrabile, la condanna della chiesa pesa meno e dunque i dati sono più credibili che in passato”. Vlissides tossisce il suo raffreddore nelle stanze gelide dello studio dove riceve. “Lo stato non paga più il riscaldamento” dice ma preferisce cambiare argomento. E già si sfrega le mani spiegandomi la sua versione del maiale al forno. “Il tacchino non è parte della nostra tradizione”.
Si festeggerà comprando questo – cibo e bevande – non molto altro. Neppure i generi di estremo lusso. “È una favola quella secondo cui i grandi ricchi spendono con una specie di ostentazione” racconta Eleftheria Tseliou, proprietaria della galleria d’arte Batagianni, una delle più importanti di Kolonaki, il quartiere ricco del centro “Da noi le vendite si sono dimezzate. Per il resto, si guardi intorno, basta fare due passi qui fuori. Io però sono ottimista. Lavorando bene ne usciremo meglio”. È un’idea che hanno anche altri, anche chi è meno ottimista. Ci penso passando dalla via Condotti di Kolonaki, Patriarhi Ioachim, alla popolare Ipokratous, nel quartiere accanto, ancora segnato da recenti scontri nella ricorrenza della morte di Grigoropoulos, quindicenne ucciso nel 2008 da un poliziotto. La via è zeppa di negozi di mille generi, cianfrusaglie, antiquari, modellismo, miniaturisti. Su tutti però svettano munifici rivenditori di libri usati. Qui i negozianti confermano un dato sorprendente. Il giro di libri usati è in crescita. Molti svuotano case e svendono volumi di pregio. Molti vengono a comprarne: più poveri di prima ma anche più numerosi. Forse sono quelli che non possono più permettersi le novità? O magari i recenti disoccupati che hanno più tempo per leggere? Fatto sta che, unici in Europa, qui i lettori sembrano crescere. Altro che chic. Il futuro qui non lo costruirà la moda. Del resto, già duemilacinquecento anni fa lo spiegavano così: per produrre si deve studiare, per studiare occorre il tempo libero. Ecco perché la parola “scuola” in greco antico significava apparentemente tutt’altro. Scholé. Ossia ozio. - Matteo Nucci

http://www.minimaetmoralia.it

lunedì 24 dicembre 2012

TUTTI SANNO MA TUTTI ZITTI




Da qualche giorno sui giornali, nei tg, nei talk show televisivi, la domanda che tutti si stanno ponendo è: "Cosa succederà ora che riscende, per l'ennesima volta, in campo Berlusconi?", "Il Pd come si comporterà? Riuscirà a vincere ma soprattutto a governare il Paese?", "Quale sarà il ruolo di Mario Monti nel prossimo futuro?" e ancora "I mercati come si comporteranno ora, come valuteranno il sistema Italia?".

Tutte domande legittime, per carità, per capire quello che sta succedendo nello scenario pre-elettorale che si sta delineando.

Peccato che siano domande lontane anni luce dai problemi veri. I problemi di lavoratori, cassintegrati, disoccupati, studenti, famiglie che non possono più permettersi una settimana di ferie lontano da casa (dal 39,8% al 46,6%, dal 2010 al 2011), che non hanno potuto riscaldare adeguatamente l'abitazione (dall'11,2% al 17,9%, in riferimento sempre allo stesso periodo), che non riescono a sostenere spese impreviste di 800 euro (dal 33,3% al 38,5%) o che, se volessero, non potrebbero permettersi un pasto proteico adeguato ogni due giorni (dal 6,7% al 12,3%).

Ma andiamo con ordine.. Stando ai dati forniti dall'Istat nel suo rapporto sui redditi e le condizioni di vita, pubblicato lunedì scorso, nel 2011 il quadro delle condizioni di reddito e di vita in Italia risulta alquanto allarmante.

Il primo dato grave che risalta subito da questa analisi riassume in sé la situazione: nel 2011 il 28,4% delle persone residenti in Italia è a rischio di povertà o esclusione sociale, secondo la definizione adottata nell'ambito della strategia Europa 2020. Rispetto al 2010 l'indicatore cresce di 2,6 punti percentuali a causa dall'aumento della quota di persone a rischio di povertà (dal 18,2% al 19,6%) e di quelle che soffrono di severa deprivazione (dal 6,9% all'11,1%).

E' da tener presente che la strategia Europa 2020 è stata messa in campo dalla Commissione Europea proponendosi degli obiettivi importantissimi, come si capisce dalle parole del Presidente della Commissione Europea, Jose Manuel Barroso: "La strategia Europa 2020 punta a rilanciare l'economia dell'UE nel prossimo decennio. In un mondo che cambia l'UE si propone di diventare un'economia intelligente, sostenibile e solidale. Queste tre priorità che si rafforzano a vicenda intendono aiutare l'UE e gli Stati membri a conseguire elevati livelli di occupazione, produttività e coesione sociale. In pratica, l'Unione si è posta cinque ambiziosi obiettivi - in materia di occupazione, innovazione, istruzione, integrazione sociale e clima/energia - da raggiungere entro il 2020.."

A questo la Sora Lella saggiamente risponderebbe: "Annamo bene.. proprio bene!"

Ma andiamo avanti con un'altra carrellata di dati. Il rischio di povertà o esclusione sociale è più elevato rispetto a quello medio europeo (24,2%), soprattutto per la componente della severa deprivazione (11,1% contro una media dell'8,8%) e del rischio di povertà (19,6% contro 16,9%).

Il 19,4% delle persone residenti nel Mezzogiorno è gravemente deprivato, valore più che doppio rispetto al Centro (7,5%) e triplo rispetto al Nord (6,4%). Nel Sud l'8,5% delle persone senza alcun sintomo di deprivazione nel 2010 diventa gravemente deprivato nel 2011, contro appena l'1,7% nel Nord e il 3% nel Centro, aggiunge l'Istat.

Dati che si commentano da soli.

Vorremmo sottolineare un termine che forse non è perfettamente comprensibile e che viene ripetuto più volte nell'analisi fornita dall'Istat: che cosa vuol dire vivere in condizioni di severa deprivazione?

Rispondiamo citando la definizione data sempre dall'ineguagliabile strategia Europa 2020: questo indicatore descrive la situazione di persone che non possono permettersi beni considerati essenziali per condurre una vita dignitosa in Europa. Esso riflette sia la distribuzione di risorse all'interno di un paese sia le differenze negli standard di vita e nel prodotto interno lordo (PIL) pro capite in tutta Europa.

Aprite gli occhi e le orecchie perché qui si parla di beni essenziali! Non parliamo più dei servizi sociali come scuola, università, sanità, trasporti, fondamentali per una vita dignitosa, oggi sempre più devastati dalle politiche di austerità e di tagli indiscriminati. Si sta parlando dell'impossibilità per buona parte delle famiglie del nostro paese (e in particolare del Mezzogiorno) di mettere a tavola un pasto dignitoso o di permettersi di riscaldare la propria casa!

A tutto ciò bisogna aggiungere due dati ulteriori.

Il primo è quello che ha messo in luce lo stesso Enrico Giovannini, presidente dell'istituto di statistica, intervenuto a 'L'economia prima di tutto' su RadioUno: "I dati, già allarmanti, sul rischio povertà diffusi dall' Istat sono destinati a peggiorare nel corso dell'anno. Quei dati, non tengono conto ancora della difficile situazione del 2012", quindi le cifre sulla situazione della povertà in Italia peggioreranno.

Quindi la fotografia fatta dall' Istat è già ampiamente sbiadita rispetto alla realtà, visto che, in un anno di recessione come è stato il 2012, le condizioni di vita della classe lavoratrice italiana sono ulteriormente peggiorate.

E poi il secondo dato, fornito ieri da Bankitalia, che chiude il cerchio e ci fa capire come stanno effettivamente le cose in questo Paese e non solo. La crisi aumenta la disuguaglianza tra le classi sociali, alla fine del 2010 la metà più povera delle famiglie italiane deteneva il 9,4% della ricchezza complessiva, mentre il 10% più ricco aveva da solo ben il 45,9%. Il dato è contenuto nel Supplemento al Bollettino statistico della Banca d'Italia, secondo cui «la distribuzione della ricchezza è caratterizzata da un elevato grado di concentrazione: molte famiglie detengono livelli modesti o nulli di ricchezza; all'opposto, poche famiglie dispongono di una ricchezza elevata».

Ma come? Non stavamo scivolando tutti nel baratro, tanto da scomodare personalità del calibro di Mario Monti? Com'è che in un paese come il nostro, che è all'ottavo posto per Prodotto Interno Lordo nella classifiche di Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale, la maggior parte delle famiglie viva sulla soglia della povertà?

E' evidente che la ricchezza a livello mondiale sia concentrata sempre nelle mani di pochi, e che nonostante la crisi questa disuguaglianza si sia accentuata sempre più.

In Italia, ad esempio, la diseguaglianza del reddito ha registrato un andamento ad U: in diminuzione dalla metà degli anni '70 fino alla fine degli anni '80, quando si godevano i frutti di decenni di lotte della classe lavoratrice; in aumento negli anni ‘90, con un andamento stazionario dai primi anni 2000 in poi.

La diffusione di forme contrattuali flessibili, la concorrenza dei paesi emergenti, e la bassissima dinamica della produttività hanno probabilmente spinto verso l'aumento della diseguaglianza negli anni '90.

Siamo un paese molto ineguale. Abbiamo poveri che sono (relativamente) più poveri di quelli di altri paesi e ricchi che sono più ricchi (relativamente) rispetto ad altri paesi.

Questa è la fotografia del nostro paese nel 2011 che ci deve far riflettere ma non deprimere, anzi è giunto il momento di impiegare le nostre energie per rialzare la testa. Le politiche di tutti i governi di centro destra, di centro sinistra o tecnici che fossero, sono state tutte a scapito della classe lavoratrice e i dati che abbiamo provato ad illustrare ne sono l'ennesima riprova. E anche l'anti-berlusconismo a chiacchiere senza vere politiche che intacchino chi detiene davvero la ricchezza nel nostro paese non ci servono proprio a niente.

D'altronde per dirla con Brecht: "Per chi sta in alto discorrere di mangiare è cosa bassa. Si capisce: hanno già mangiato."

MERRY CHRISTMAS


sabato 22 dicembre 2012

E’ LA FINE DEL MONDO QUANDO…







Questi ultimi giorni passati in trepida e goliardica attesa della fine del mondo hanno fatto passare in secondo ordine molte altre questioni e soprattutto la consapevolezza che la fine del mondo (almeno di questo mondo che conosciamo) è già iniziata da tempo e non accenna a fermarsi, anzi, negli ultimi tempi ha subito una decisa accelerazione.

I giovani precari o disoccupati che non hanno ragione di sperare in un futuro a breve e medio termine migliore, la fine del mondo già la vivono tutti i giorni.

La si vive tutti i giorni in quelle famiglie in cui il magro reddito imposto dalle scelte criminali politiche e d economiche di questi governi burattini, non riescono neanche a garantire un’adeguata assistenza e istruzione ai propri figli.

La si vive tra gli i disperati di ogni razza e colore che tentano in tutti modi di beneficiare di briciole di apparente benessere.

La si vive tutti i giorni là dove le regole e le leggi vengono stravolte in nome del profitto e si schiavizzano esseri umani  ad un impegno lavorativo sempre più oppressivo e gravoso. Trasformando le persone in automi che vivono solo di due fasi: lavoro e riposo in funzione del lavoro.

La si vive là dove non hanno più valore l’arte, il pensiero, la cultura che non siano immediatamente trasformabili in profitto.

La si vive tutti i giorni nelle migliaia di specie animali e vegetali che spariscono in silenzio dalla faccia della Terra, inaridendo di vita foreste, savane, oceani.

La si vive là dove la meritocrazia sbandierata come metro di promozione sociale, riguarda esclusivamente chi ha l’unico merito di nascere al posto giusto al momento giusto.

La si vive in quei paesi dove l’unica merce veramente abbondante è la fame e la disperazione.

La si vive tutti i giorni negli occhi delle donne maltrattate, violentate e uccise per onore o viltà. Negli occhi dei bambini che non vedranno mai la maggiore età.

Nel teatrino triste e patetico della politica che si esibisce quotidianamente nelle TV, sulla stampa con il corollario di un pubblico prezzolato per applaudire, invece che lavorare per il bene comune.

In casa nostra quando ci chiudiamo dentro, ritenendo che siano altri a doverci pensare.

MIZIO

venerdì 21 dicembre 2012

RISVEGLIARSI DAL RISVEGLIO


Ex consigliere per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, membro della Commissione Trilaterale (v. post correlati), e giovane politologo di ottantacinque anni. Stiamo parlando di Zbigniew Brzezinski, il quale per la seconda volta in meno di tre anni (v. correlati) ha pensato bene di esternare in pubblico le proprie preoccupazioni in merito al cosiddetto 'risveglio globale', questa 'contingenza inattesa' che starebbe ostacolando la realizzazione del Nuovo Ordine Mondiale©. Insomma ha rispolverato un discorso datato 2010 e lo ha riproposto presso il Forum Europeo per le Nuove Idee (EFNI). Che volete farci, lui è fatto così: originale, spontaneo e sportivo.


Ha battuto il dito sul microfono per sentire se funzionasse e poi ha detto cose del tipo: "La presa di consapevolezza collettiva ed i social network sono una minaccia per lo sviluppo dell’agenda globale. Un movimento mondiale di resistenza populista sta minacciando di fare deragliare la transizione verso un nuovo ordine mondiale."
Questo bis fa cadere l'ipotesi che la sparata di tre anni fa fosse ascrivibile alla demenza senile, e conferma la idea che dietro il refrain si celi la solita strategia comunicativa finalizzata a fregare gli ingenui. Il risveglio a cui Brzezinski si riferisce - infatti - è dotato di corna, muso, coda e pezzature marroni. E' il risveglio confezionato da Hollywood attraverso film ottimamente congegnati. Suscitato da provocazioni politiche plateali come la goffa simulazione di un attentato terroristico contro le torri gemelle, o la motivazione auto-sconfessata delle fantomatiche armi di distruzione di massa, oppure il salvataggio del sistema bancario fautore della crisi, a discapito dei popoli incolpevoli. E' il risveglio indotto con la produzione, distribuzione e promozione di documentari main-stream dal piglio antagonistico (v. correlati). E' il risveglio sobillato da organizzazioni prezzolate come Optor (v. post correlati) e da movimenti sedicenti egualitari che al primo intoppo tradiscono i vizi intrinseci di qualsiasi organizzazione umana: settarismo, verticismo e conseguente strumentabilità (v. post correlati). E' il risveglio che perfino la televisione negli anni scorsi ha servito su un piatto d'argento con trasmissioni come Alcatraz e canali come Current.


Il risveglio a cui Brzezinski si riferisce è stato progettato dal Potere, ed evocandolo, in realtà Brzezinski non fa che indicare il percorso verso il nuovo assetto socio-politico perseguito dai burattinai. La diffusione del risveglio e della indignazione è andata ampliandosi in maniera direttamente proporzionale alle forzature con cui negli ultimi anni il Potere ha operato affinché lo status quo scadesse nella mostruosa caricatura di se stesso. Il motivo è presto detto. I burattinai in questa fase nutrono interesse affinché più gente possibile - ognuno sulla base del proprio livello di comprensione - sviluppi un senso di repulsione nei confronti della attuale società, e prenda atto di essere stata ingannata e/o soggiogata. Solo in questo modo, la gente 'risvegliata' e/o 'indignata' sarà pronta ad abbracciare un cambiamento che stravolga 'dal basso' lo attuale status quo.
E' una delle poche regole che il sistema si è dato: qualsiasi stravolgimento politico, economico e sociale progettato nella stanza dei bottoni deve essere percepito come una tendenza scaturita o perlomeno avallata dal basso (v. correlati). Per inciso, credo sia esattamente ciò che sta accadendo con la ricandidatura del Cavaliere con la benedizione finanziaria degli stessi poteri che un anno fa lo defenestrarono. Motivo? Forse  hanno bisogno di fornire una legittimazione popolare alla continuazione delle politiche iniziate quest'anno. Se Berlusconi si candida, poi propone la restaurazione della sovranità monetaria, poi spara a zero sullo spread, poi promette il taglio delle tasse e dopo tutto ciò perde le elezioni, l'opinione pubblica registrerà la cosa come un implicito mandato popolare affinché nella prossima legislatura si completi la grande opera iniziata dai 'tecnici.'

Tornando in argomento, sarà proprio quel profondo cambiamento apparentemente scaturito dal basso a tradursi in una dittatura iper-centralistica mascherata (poteva essere altrimenti?) da democrazia a partecipazione sempre più diretta. Il Potere sta agendo affinché la massa reclami discontinuità rispetto al recente passato. Ancora una volta si cambierà tutto affinché nulla cambi, e sarà la gente stessa a migrare di propria iniziativa verso una società che si rivelerà ancora più misera, soggiogata ed ipocrita di quella attuale.

Il vero risveglio consiste nello sviluppare un pensiero individuale e dunque smettere di supportare il sistema nelle sue infinite incarnazioni, ad esempio sottraendosi al lavaggio del cervello mediatico. Il vero risveglio è un fatto individuale. Il concetto stesso di risveglio collettivo è una contraddizione in termini, a meno di non voler tirare in ballo salti quantici e Satya Yuga. Per queste ragioni forse faremmo meglio a restare con i piedi per terra e riconsiderare la provenienza degli input che ci hanno condotti a ciò che Brzezinski definisce 'risveglio collettivo.'

Personalmente ho condiviso gli ideali progressisti per un lungo periodo della mia vita. Poi ho aperto gli occhi. In un mondo perfetto il cambiamento migliorerebbe la vita della collettività ... ma - un momento - questo non è affatto un mondo perfetto; è dominato dal potere economico e dalle azioni di chi è privo di scrupoli. In un mondo simile è improbabile che il cambiamento sia usato per migliorare le vite dei tanti, mentre è probabile che accada l'esatto opposto, se la cosa comporti un vantaggio per i pochi. Ciò che da sempre spacciano per 'cambiamento' non ha niente a che vedere con un processo spontaneo e democratico. Non è altro che l'agenda del Potere venduta alla collettività sotto forma di tendenza popolare, con l'ausilio di elaborate campagne di persuasione culturale, politica e mediatica.

In altre parole, specie di questi tempi, la vera sovversione politica coincide con il conservatorismo, mentre il 'risveglio' falsamente paventato da Brzezinski, promosso dai media main-stream - e incarnato dai motti emozionanti e utopistici sbandierati dalla gran parte dei nuovi movimenti popolari non è che l'ennesimo colpo di sperone con cui il burattinaio sprona la massa a dirigersi nella direzione prestabilita.  di Viator

FATE CRESCERE I VOSTRI BAMBINI COME I PRIMITIVI




In uno dei miei soggiorni in Nuova Guinea ho incontrato un giovanotto di nome Enu la cui storia sul momento mi ha molto colpito: Enu era cresciuto in una regione dove l’allevamento dei bambini è estremamente repressivo e i piccoli sono soggetti a pesanti incarichi e gravati da sensi di colpa. Compiuti i cinque anni, Enu ne aveva abbastanza di quello stile di vita: ha lasciato i suoi genitori, la maggior parte dei suoi familiari e si è trasferito presso un’altra tribù, in un altro villaggio, dove alcuni parenti erano disposti a prendersi cura di lui. Lì Enu si è ritrovato in una società adottiva nella quale si allevavano i bambini in maniera estremamente permissiva, all’opposto di quanto accadeva nella sua società natale. I bambini piccoli erano considerati responsabili delle loro azioni e potevano perciò fare qualsiasi cosa gli venisse in mente.

Per esempio, se un bambino piccolo giocava accanto al fuoco, nessuno interveniva. Di conseguenza, molti adulti in quella società presentavano segni di ustioni sul corpo, a testimoniare il comportamento nell’infanzia.

Entrambi questi stili educativi sarebbero respinti con avversione nelle società industriali occidentali di oggi. Eppure la permissività della società adottiva di Enu non è eccezionale rispetto ai parametri delle società di cacciatori-raccoglitori, molte delle quali considerano i bambini piccoli individui autonomi, i cui desideri non dovrebbero essere mai repressi, e ai quali si consente quindi di giocare con oggetti pericolosi come coltelli appuntiti, pentole bollenti e fuoco.

Mi sono ritrovato a riflettere molto sui popoli della Nuova Guinea con i quali ho lavorato negli ultimi 49 anni, come pure sui commenti degli occidentali che hanno vissuto per anni nelle società di clan di cacciatori-raccoglitori, osservando in che modo crescano i loro bambini. Insieme agli altri occidentali anche io sono molto colpito dalla sicurezza emotiva, dalla fiducia in sé, dalla curiosità e dall’autonomia dei membri delle società su piccola scala, non soltanto quando sono ormai adulti, ma già da bambini. Vediamo che i popoli di società anche piccolissime trascorrono molto più tempo a parlare tra loro di quanto facciamo noi e non ne trascorrono affatto in forme di intrattenimento passivo subito da mezzi come televisione, videogiochi e libri. In particolare siamo molto colpiti dal precoce sviluppo delle competenze sociali nei bambini. Queste sono qualità che la maggior parte di noi ammira, qualità che vorremmo vedere nei nostri stessi figli, mentre di fatto noi scoraggiamo lo sviluppo di queste qualità suddividendo i bambini per età, dando loro voti, dicendo loro continuamente che cosa debbano fare. Le crisi di identità adolescenziali che tormentano i teenager americani non esistono presso i giovani dei clan di cacciatori-raccoglitori. Gli occidentali che hanno avuto la possibilità di vivere presso di loro e in altre società su piccola scala ipotizzano che queste qualità ammirevoli si sviluppino proprio in conseguenza delle modalità con le quali si allevano i bambini: nello specifico, con incessanti rassicurazioni e stimoli, con un lungo periodo di allattamento, lasciando dormire per molti anni i piccoli accanto ai genitori, con una molteplicità di modelli sociali di allevamento dei bambini più estesa grazie all’alloparenting (“genitorialità diffusa”, in virtù della quale qualsiasi adulto della comunità si sente responsabile e assume all’occorrenza il ruolo di genitore, NdT), con molti più stimoli sociali trasmessi dal contatto fisico continuo e dalla vicinanza di chi presta loro cure, con tempestivi interventi di chi li alleva quando piangono, e meno punizioni corporali possibili.

Nelle moderne società industriali di oggi, tendiamo a seguire lo schema della lepre-antilope: la madre o qualcun altro in certi casi prende il neonato in braccio e lo tiene giusto il tempo di alimentarlo e giocare con lui, ma non lo tiene con sé di continuo. Il neonato trascorre gran parte del tempo durante il giorno in una culla o in un box e di notte dorme da solo, spesso in una stanza diversa da quella dei genitori. In ogni caso probabilmente abbiamo seguito il nostro modello ancestrale dei grandi primati per quasi tutta la lunga storia del genere umano, fino a circa un paio di millenni fa. Gli studi sugli odierni cacciatori-raccoglitori invece dimostrano che per tutta la giornata un neonato è tenuto quasi costantemente in braccio a contatto della madre o di chi se ne occupa. Quando la madre cammina, il neonato è collocato in appositi dispositivi di trasporto, come fasce e corde in Nuova Guinea, e alle quali legarli nelle zone settentrionali temperate. La maggior parte delle tribù di cacciatori-raccoglitori, specialmente nei climi temperati, presenta un contatto a pelle costante tra il neonato e chi se ne prende cura. (...) Per molti di noi la sola idea di legare un bambino a una tavola rigida fissata sulla schiena o di fasciare un neonato è orribile, o per lo meno lo è stata fino a quando in tempi recenti è ritornata in voga l’abitudine delle fasce. Il concetto di libertà personale per noi significa moltissimo e una tavola rigida o le fasce indubbiamente limitano la libertà personale di un neonato. Siamo propensi infatti a dare per scontato che una tavola rigida o le fasce ritardino lo sviluppo del bambino infliggendogli oltre tutto un duraturo danno psicologico. In realtà, tra i bambini navajo che nei primi mesi di vita sono tenuti legati a questo tipo di tavole e quelli che non lo sono stati, e tra i bambini navajo tenuti legati alle tavole rigide e i bambini angloamericani non sono state riscontrate differenze nella personalità o nelle capacità motorie, e neppure dal punto di vista dell’età alla quale si inizia a camminare autonomamente. (...) Nelle società su piccola scala gli alloparent sono davvero importanti in qualità di fornitori integrativi di nutrimento e di protezione. Da qui gli studi che in tutto il mondo concordano nel dimostrare che la presenza della “genitorialità diffusa” migliora le probabilità del bambino di sopravvivere. Ma gli alloparent sono importanti anche dal punto di vista psicologico, in quanto costituiscono modelli sociali e influenze sociali al di là dei genitori veri e propri. (...) Di quanta libertà o incoraggiamento devono godere i bambini per esplorare il loro ambiente? I bambini possono fare qualcosa di pericoloso, in previsione del fatto che devono imparare dai loro stessi errori? Oppure i genitori sono protettivi nei confronti della sicurezza dei propri figli e impediscono loro di esplorare e li allontanano qualora inizino a fare qualcosa di pericoloso?

La risposta a questi interrogativi varia da una società all’altra. In ogni caso, volendo generalizzare possiamo dire che l’autonomia dell’individuo, perfino in tenera età, è un ideale tenuto molto più in considerazione nelle tribù di cacciatori-raccoglitori rispetto alle società statali, nelle quali lo stato ritiene di avere un interesse precipuo nei bambini, e non vuole che si facciano male facendo ciò che vogliono e proibisce di conseguenza ai genitori di lasciare che un bambino si faccia male. (...) Naturalmente, non sto dicendo che dovremmo imitare in tutto e per tutto le modalità di allevamento dei bambini da parte delle società di cacciatori-raccoglitori. Non raccomando di tornare a pratiche di infanticidio selettivo tipiche di quelle società, con alti rischi di mortalità alla nascita, né di lasciar giocare i bambini più piccoli con coltelli o correre il rischio concreto di lasciare che si ustionino. Anche altre caratteristiche dell’infanzia presso i cacciatori-raccoglitori – quali il permissivismo del gioco a sfondo sessuale – ci risultano imbarazzanti, anche se sarebbe difficile dimostrare che siano veramente dannosi per i bambini. Tuttavia altre modalità sono ormai adottate da cittadini di società statali, ma ad alcuni di noi risultano anch’esse imbarazzanti, per esempio lasciar dormire i bambini piccoli nello stesso letto dei genitori, allattarli fino all’età di tre o quattro anni, evitare ogni punizione corporale.

Eppure alcune modalità di allevamento dei bambini delle società di cacciatori-raccoglitori potrebbero essere adatte alle nostre moderne società statali. Per noi è del tutto fattibile portare in giro i bambini in posizione verticale e rivolti verso la direzione in cui si procede invece che in posizione orizzontale all’interno di una carrozzina, o anche in posizione verticale ma rivolti verso la direzione opposta a quella in cui si procede all’interno di un marsupio. Potremmo anche rispondere tempestivamente e coerentemente al pianto di un bambino, come pure praticare in modo più allargato la genitorialità diffusa e cercare di creare un maggiore contatto fisico tra i neonati e coloro che gli prestano cure e assistenza. Potremmo incoraggiare i bambini a inventare da soli i giochi da fare invece che scoraggiarli di continuo e fornire loro incessantemente i cosiddetti complicati giochi educativi. Potremmo organizzare gruppi di gioco con bambini di varie età, invece di gruppi di gioco di coetanei, e infine potremmo esaltare al massimo la libertà di un bambino di esplorare, purché sia sicuro farlo.

Ma le nostre impressioni di maggiore sicurezza, autonomia e competenze sociali adulte nelle società su piccola scala potrebbero per l’appunto essere soltanto impressioni: sono difficili da quantificare e dimostrare. Anche qualora tali impressioni corrispondano alla realtà, è difficile stabilire se siano il risultato diretto di un lungo periodo di allattamento, della genitorialità diffusa e così via. Come minimo, tuttavia, possiamo affermare che le pratiche di allevamento della prole da parte dei cacciatori-raccoglitori che ci paiono così estranee non sono poi disastrose, e non producono popolazioni di sociopatici evidenti. Anzi, esse creano individui capaci di affrontare le grandi sfide e i grandi pericoli pur continuando a godere della vita. Lo stile di vita dei cacciatori-raccoglitori ha funzionato più o meno in modo tollerabile per quasi centomila anni di storia del genere umano. Tutti nel mondo sono stati cacciatori-raccoglitori fino a quando circa undicimila anni fa non si scoprì l’agricoltura, e nessuno ha vissuto sotto un governo statale fino a 5.400 anni fa. Converrà pertanto tenere nella giusta considerazione le lezioni che possiamo apprendere da tutti questi esperimenti di allevamento della prole durati per un periodo così lungo.

Jared Diamond