lunedì 30 gennaio 2012

IN DIFESA DELL' UNIVERSITA' PUBBLICA



Appello in difesa dell’Università pubblica, assediata ieri dal nichilismo gelminiano e oggi dai tecnocrati neoliberali di Mario Monti. “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. I prestiti d’onore servono solo a garantire ai capaci e meritevoli privi di mezzi un futuro di debiti. L’abolizione del valore legale del titolo di studio configura un’ università classista, se non razzista, che esclude capaci e meritevoli privi di mezzi dalle università di serie A. Solo l’Università pubblica, gratuita e di qualità può essere strumento di progresso, crescita, democrazia e perequazione sociale (gc). Adesioni qui.
Tasse studentesche più alte e abolizione del valore legale del titolo di studio non miglioreranno l’università pubblica italiana.
Approfittando dell’attenzione dell’opinione pubblica verso le “liberalizzazioni” di alcuni settori di attività del nostro Paese come strumento per una loro modernizzazione, in questi giorni è stata rilanciata – con l’adesione di un gruppo di docenti universitari – la proposta di abolire il valore legale del titolo di studio (valevole quindi come condizione di accesso ai concorsi per l’impiego pubblico) e di “liberalizzare” le tasse studentesche (già tra le più alte dell’Europa continentale, specie se in rapporto agli scarsi servizi disponibili ed ai livelli di reddito), affiancandovi un sistema di prestiti agli studenti, da restituire dopo l’ingresso nel mercato del lavoro.
Andando all’essenziale, alla base di queste proposte ci sono alcune idee che non ci sentiamo di condividere. La prima è che l’equità sociale delle opportunità di accesso alla formazione universitaria sarebbe ristabilita dal sistema dei prestiti. E’ evidente che si tratta di una finzione (se non di un inganno): un individuo ‘povero’ indebitato, oggi studente domani (forse) lavoratore, non è uguale a (ne’ libero quanto) un individuo ‘ricco’ senza debiti. Anche quando si sostiene che comunque tasse più alte e prestiti sarebbero un sistema più equo dell’attuale, distorto principalmente dall’evasione fiscale, si finisce per far scontare ai giovani, gravandoli precocemente di debiti, l’incapacità dello Stato nel riscuotere i tributi.
La creazione di un mercato dei titoli di studio, conseguente all’abolizione del loro valore legale, metterebbe poi, secondo i proponenti, le università in una sana concorrenza per la qualità. Anche in questo caso siamo di fronte ad una finzione (se non ad un inganno). Date le posizioni di partenza degli atenei, diseguali e caratterizzate da sottofinanziamento, l’unica concorrenza che scatterebbe fra Università sarebbe appunto per le risorse, con conseguente vantaggio dei gruppi di potere accademico, politico ed economico consolidati che invece, si suppone, dovrebbero essere il bersaglio delle politiche di liberalizzazione nel loro spirito più nobile. Il ‘valore legale’ tenderebbe semplicemente ad essere sostituito dal valore monetario necessario per conseguire il titolo di studio. Le due misure associate produrrebbero un effetto micidiale di stratificazione per censo delle Università, acuendo i già presenti dislivelli territoriali che caratterizzano il nostro sistema universitario nazionale. Abolire il valore legale del titolo di studio significa anche abbandonare l’obiettivo di uno standard nazionale di riferimento per la formazione universitaria: al contrario bisogna intervenire perché tutte le università finanziate dallo Stato rispettino tale standard. Anche l’accento (giustamente) posto sulla centralità del merito nella vita universitaria assumerebbe, alla luce di queste misure, un deciso sapore classista.
Queste proposte implicano quindi una decisa spinta alla privatizzazione di fatto dell’università pubblica e alla restrizione sociale dell’accesso. Accettarle significherebbe anche una resa istituzionale all’inefficienza pubblica in vari ambiti, come il controllo dell’evasione fiscale e della qualità dei servizi pubblici, e del reclutamento nell’impiego pubblico.
Per questo chiediamo alla classe politica che si riconosce nella nostra Costituzione Repubblicana e al Governo di rifiutarle, di non accettare scorciatoie fuorvianti ai problemi del finanziamento e del rilancio del sistema educativo e universitario pubblico, così come di altri ambiti preziosi della produzione culturale del Paese. L’università deve restare una istituzione pubblica centrale e deve riprendere a svolgere tutte le sue funzioni, in primis quella di fornire una formazione critica e qualificata, basata su didattica e ricerca libere, plurali e rigorose, con il più ampio accesso sociale agli studi e alle professioni della ricerca e della docenza. Per poter svolgere questo suo ruolo pubblico all’università non serve mettersi in vendita, ma servono politiche e risorse adeguate.
Gennaro Carotenuto

IN BOLIVIA NESSUNO VUOLE CIBO SPAZZATURA, McDONALD's CHIUDE



La notizia non è recentissima ma vale la pena tornarci al momento dell’uscita del documentario “Por qué quebró McDonald´s en Bolivia” (Perché McDonald’s è fallito in Bolivia) che ne spiega i motivi e del quale è possibile vedere un trailer qui.McDonald’s ha abbandonato gli ultimi otto “ristoranti” a La Paz, Cochabamba e Santa Cruz e lasciato la Bolivia. Di fronte al completo fallimento dell’ultima multimilionaria campagna pubblicitaria che tentava di rilanciare l’immagine della nota catena di cibo spazzatura, e ai molteplici tentativi di bolivianizzare sapori e ambienti, la soluzione intrapresa della multinazionale è stata la rinuncia completa a quel mercato. 
Finisce così dopo 14 anni la sempre traballante storia di Mc Donald’s negli altipiani andini. È il primo paese d’America che viene abbandonato dalla catena dopo dieci anni consecutivi di perdite. L’apertura nella seconda metà degli anni ‘90, piena notte neoliberale, vide appena sei mesi di bonanza, con code alle entrate e locali sempre pieni. Smaltita la novità i boliviani –anche per l’inadeguatezza dei prezzi in un paese dove il cibo resta molto economico- cominciarono a disinteressarsi totalmente al prodotto e indifferenti alle imponenti campagne di marketing.
Oggi in un documentario, “Por qué quebró McDonald´s en Bolivia” (Perché McDonald’s è fallito in Bolivia) molteplici interviste spiegano il perché McDonald’s ai boliviani non è mai piaciuto. Non spiega tutto la grande coscienza dell’impatto ambientale, sindacale, umano, verso il tema, in un paese dove i movimenti sociali esprimono la maggioranza di governo. McDonald’s, per capirci, non è rifiutato per motivi politici ma per più sedimentati motivi culturali. In sintesi l’ideologia del fast-food sarebbe l’antitesi della naturale cultura dello slow food boliviana, dove il tempo di preparazione, e la condivisione di questo, è tanto importante come l’atto del mangiare in sé. I boliviani, neanche i giovani, nei locali della catena non si sentirebbero a loro agio.
Evidentemente il caso boliviano non fa di per sé scuola. In altri paesi, come il Messico (il secondo per obesità al mondo dopo gli Stati Uniti) o il Venezuela, il cibo spazzatura, McDonald’s e non, continua a dominare. Sarebbero più di 1000 i McDonald’s in Messico, 480 in Brasile, quasi 200 in Argentina, 180 in Venezuela, un centinaio in Colombia, 55 in Cile, 20 in Perù (un numero più basso rispetto alla media di popolazione da far pensare ad una situazione preboliviana), 19 in Ecuador, altrettanti in Uruguay, 7 in Paraguay.
Nel mondo i “ristoranti” McDonald’s sono più di 25.000 dei quali oltre la metà negli Stati Uniti. In Italia sono circa 400 e almeno altri due paesi, l’Iran e l’Islanda, oltre alla Bolivia, sono stati abbandonati dalla catena in tempi e per motivi diversi. Il caso boliviano di scarsa appetibilità di un prodotto costruito per essere appetibile ben al di là di qualità e altre considerazioni sociali, è però unico. Il fatto che nel mondo della globalizzazione neoliberale, del pensiero unico e del consumo unico, uno dei simboli del totalitarismo mercatista chiuda per il semplice disinteresse di un popolo ad acquistare quel prodotto, è una buona notizia. 

LA LETTERA DELLA TROIKA CHE STRANGOLA LA GRECIA





Richieste due grandi privatizzazioni subito, licenziamenti di massa nel settore pubblico, enorme flessibilità del lavoro nel settore privato, un nuovo taglio di pensioni e stipendi e altre montagne di soldi per le banche

«Terra e acqua», come nell'antichità, ha chiesto ieri la troika (Fmi-Bce-Ue) per concedere il nuovo maxi prestito al governo tecnico di Lucas Papadimos, mentre ancora è in trattative con i creditori privati per il taglio del debito dei bot greci.

In dodici fitte pagine la troika ha avanzato dure condizioni alla Grecia per la concessione del secondo prestito (130 miliardi di euro), che suonano come un chiaro avvertimento per gli altri «maiali», i piigs della eurozona che aspettano un secondo prestito, come Portogallo e Irlanda, o i paesi che hanno problemi a finanziare i loro debiti, come Spagna, Italia e più a lungo il Belgio. 

La troika vuole due grandi privatizzazioni nel periodo breve, licenziamenti di massa nel settore pubblico, enorme flessibilità del lavoro nel settore privato, un nuovo taglio delle pensioni e degli stipendi e ancora montagne di soldi per le banche, esautorando lo stato da ogni decisione. Il sistema bancario sarà salvo con i prestiti che pagheranno i greci delle prossime generazioni, con il loro governo che prenderà in cambio solo azioni privilegiate, senza diritto di voto e di controllo sulle politiche dei banchieri. L'unica «concessione» della troika è la diminuzione del deficit per il 2012 (dell'1%) con tagli alla spesa pubblica e non con nuove tasse: il buco nero dei 2 miliardi per il 2011 sarà coperto con tagli alla spesa farmaceutica e alla difesa.

Ue, Bce e Fmi chiedono nello specifico 150mila licenziamenti o pensionamenti nel settore pubblico fino al 2015, un nuovo taglio delle pensioni integrative e dei salari, con la scomparsa di tredicesima e quattordicesima, l'abolizione del sistema della contrattazione del lavoro con la sepoltura dei contratti collettivi in cambio di contratti individuali privati o al massimo a livello di impresa, la diminuzione del salario minimo e l'abolizione dei contratti settoriali nelle banche, negli enti e nelle imprese statali e parastatali. Vogliono anche tasse più salate per i proprietari di case e l'aumento del 25% del valore nelle compravendite degli immobili. Impongono la flessibilità salariale più assoluta, la diminuzione dei contributi delle imprese al 5%, la liberalizzazione completa del settore dei trasporti stradali, delle farmacie, di notai e avvocati. 

Nel ricatto della troika c'è la volontà di «neutralizzare» il controllo politico della direzione delle entrate fiscali e delle dogane, con la creazione di una speciale segreteria generale e, per combattere la corruzione, pretende il cambio degli alti funzionari delle direzioni del fisco ogni due anni e la sostituzione dei funzionari che non raggiungono gli obbiettivi. 

Naturalmente il nuovo pesantissimo memorandum dovrà essere firmato dai leader dei tre partiti (il partito socialista Pasok, Nea Dimocratia di centrodestra e Laos di estrema destra) che sostengono il governo Papadimos di coalizione nazionale. Una «firma» che è diventata prassi anche in Grecia dopo l'esempio dei partiti di governo in Irlanda e Portogallo per assicurarsi i prestiti.

Il premier ha fretta di concludere la partita per il taglio del debito con i creditori privati per finire il prima possibile le trattative per il secondo maxi prestito, attraverso il massacro dei diritti dei lavoratori. La stessa fretta hanno anche Angela Merkel, l'Ue e il Fondo monetario internazionale visto che Portogallo e Irlanda aspettano con ansia in anticamera per seguire il triste destino della Grecia. C'è da credere tra la popolazione, dopo due anni di unitili sacrifici, montino ancora rabbia e indignazione destinate a sfociare in una nuova ondata di proteste. 

Basta guardare l'atmosfera che si respira ad Atene. Migliaia di cittadini in coda, mercoledì scorso, per accaparrarsi le 25 tonnellate di patate distribuite gratis dagli agricoltori di Boiotia-Thiva a piazza Syntagma. Migliaia di lavoratori della sanità che hanno preso d'assedio il ministero per protestare contro i tagli e lo sfasamento dei sistema sanitario pubblico. Una folla arrabbiata e triste come quella che ieri pomeriggio ha accompagnato il registra Theo Angelopoulos per il suo ultimo viaggio.
Argiris Panagopoulos
Fonte: www.ilmanifesto.it

SARDEGNA, PATTUMIERA DELLA NATO E DEL COMPLESSO MILITARE-INDUSTRIALE



Il suo paesaggio di cartolina attira i turisti più fortunati. Le stelle del jet set vengono a bagnare gli yacht lungo le sue coste paradisiache. Ma la Sardegna nasconde una realtà davvero triste.
Sui bordi incantati del Mediterraneo, dietro la cortina invisibile delle radiazioni nucleari emesse dopo l’utilizzo di armi all'uranio, c'è un immenso paesaggio desolato, pieno di segreti maligni. Piantiamo lo scenario. È in Sardegna. Un territorio della superficie pari a 35.000 ettari è stato affittato alle installazioni militari. Sull'isola si trovano poligoni di tiro (Perdasdefogu), tratti di mare per le esercitazioni (capo Teulada), poligoni per le esercitazioni aeree (capo Frasca), aeroporti militari (Decimomannu) e depositi di carburante (nel cuore di Cagliari, alimentati da una conduttura che attraversa la città), senza contare le varie caserme e sedi di comando militare (Aeronautica, Marina). Si tratta di infrastrutture delle forze armate italiane e della NATO.

 

Alcune cifre: il poligono di Salto di Quirra - Perdasdefogu (Sardegna orientale) di 12.700 ettari e il poligono di Teulada di 7.200 ettari sono i due poligoni italiani più estesi, mentre il poligono NATO di Capo Frasca (costa occidentale) è pari a 1.400 ettari. A questi si devono aggiungere l'ex base NATO sull’isola della Maddalena, per sempre inquinata. Durante le esercitazioni militari, viene vietata la navigazione e la pesca su una superficie marina superiore ai 20.000 chilometri quadrati, una superficie quasi uguale a quella della Sardegna.
Che cosa si scopre? La valle di Quirra, una delle zone più belle e ancora selvagge della Sardegna, è stata trasformata in una cassaforte di veleni a cielo aperto. Nel corso degli anni si è messo il coperchio sulla pentola delle "polveri di guerra" che ha decimato un numero di abitanti e di militari che vivevano e lavoravano nel poligono e nei villaggi limitrofi. Ma adesso, grazie a un Procuratore, Domenico Fiordalisi, che è determinato a dare voce alle lamentele delle numerose vittime, la verità comincia a venire alla superficie. I "segreti" vengono alla fine portati alla luce della giustizia.
Con l'accusa di "disastro ambientale", tre generali che sono stati al comando del poligono di Quirra, due tecnici e un ricercatore universitario sono accusati dal procuratore che sta indagando, da parecchi mesi, sui decessi per cancro di parecchi abitanti della zona di Quirra e sulle delle malformazioni dei neonati e del bestiame. Ci possiamo aspettare altri capi di accusa, visto il disastro ambientale e umano che, da anni, colpisce la Sardegna.
Tutto è iniziato nel 1956, quando il governo italiano decise di installare, nel bel mezzo di una zona di incomparabile bellezza - dove nascono le viti, il mirto, gli aranci e che termina con una spiaggia ancora risparmiata dalle costruzioni -, un poligono di tiro, un centro di sperimentazione per i missili, un teatro per gli "war games" a grandezza naturale e per la distruzione a cielo aperto di armi obsolete delle ultime guerre. Il poligono è affittato anche ad aziende di armamenti private, alla NATO e a vari eserciti di tutto il mondo, particolarmente a Israele. Durante gli anni, gli abitanti affermano di avere visto misteriosi camion, provenienti dall’”estero", che sono entrati nel poligono e qui hanno scaricato armamenti dismessi che hanno fatto poi esplodere a cielo aperto. Durante gli anni, le guardie forestali hanno potuto constatare le malattie dei pastori e del bestiame, le pecore che saltavano in aria sulle bombe ancora funzionanti, sparse ovunque nei campi e sulla spiaggia.
Le più importanti aziende di armamenti (Aérospatial, Orlikon-contraves, Finmeccanica) ancora prendono in affitto questo spazio naturale per eseguire le loro sperimentazioni al prezzo di un milione di euro al giorno, somma che viene versata direttamente allo stato italiano. Alla Sardegna restano i tumori e i bambini malformati. Quando si parla di 28 bambini che sono al momento malati e di 36 militari deceduti nella base, le autorità militari negano sempre la realtà, facendo sfoggio delle ricerche eseguite dalle università che hanno rilasciato i certificati di "correttezza ambientale".
Questi certificati non hanno convinto il Procuratore inquirente. Vista la gravità della situazione, ha pronunciato all'inizio dello scorso mese di novembre un’ipotesi di imputazione per falso in atto pubblico nei confronti delle persone responsabili di queste ricerche e al comandante della base che li ha "gestiti". Altri scienziati italiani “indipendenti” si sono messi a disposizione per eseguire proprie analisi sul posto. È già stata rinvenuta, nell'acqua e nel terreno, una grande quantità di torio, di tungsteno, di cesio, di arsenico, metalli pesanti che, con le parole di uno scienziato torinese, possono comparire solo grazie a una combustione a temperatura davvero elevata, come quella provocata dall'esplosione di armi all’uranio impoverito. Lo stesso scienziato ha rilevato tracce di uranio nelle ossa di un agnello morto per una malformazione genetica. Si stanno aspettando i risultati di analisi simili effettuate sui cadaveri riesumati di pastori deceduti per tumore.
A mano a mano che l'inchiesta avanza, le lingue si sciolgono. Alcuni veterinari hanno affermato, nel loro rapporto, che circa il 60% dei pastori che vive e custodisce il bestiame in prossimità o all’interno del poligono ha contratto vari tipi di tumore. Un militare, ora in pensione, ha testimoniato di fronte agli inquirenti che, nel corso degli anni, ha fatto esplodere circa 800 kg di esplosivi al giorno dopo aver scavato buche di 30 metri di diametro. Queste esplosioni rilasciavano nell'atmosfera nuvole nere e bianche che arrivavano fino ai villaggi vicini, spinte dal vento che soffia senza sosta. In queste buche andava a depositarsi l'acqua piovana che serviva per abbeverare il bestiame e che poi penetrava nelle falde acquifere sotterranee. Ha anche affermato che le esplosioni per distruggere gli armamenti si ripetevano per una ventina di giorni al mese, e questo per parecchi mesi consecutivi. Durante le esplosioni, lui e un suo collega dovevano rifugiarsi dentro ai camion. Questo collega è morto di tumore alcuni anni dopo. La stessa procedura ha avuto luogo a Capo Frasca (un campo per le esercitazioni ubicato più a sud). Si ritiene che ci sia un numero assai maggiore di militari e di lavoratori civili che sono deceduti a causa di tumori.
In base alle testimonianze, il Procuratore sta sempre più prendendo in considerazione l’ipotesi che la falda freatica che alimenta l’impianto dell’acqua potabile dei villaggi e delle città nei dintorni sia stata probabilmente contaminata. Un altro ex militare ha affermato che, tra il 1986 e il 2004, sono stati lanciati circa 1180 missili Milan (con l’ogiva al torio). Ogni giorno nuove testimonianze riportano notizie sempre più inquietanti che rendono manifesto un disastro dalle conseguenze probabilmente irreparabili da un punto di vista umano, e ancor più ambientale: per i geologi sarebbe impossibile ripristinare il terreno allo stato originario. Ma i militari e il Ministero italiano della Difesa continuano a negare. La salute delle persone costa cara, mentre gli armamenti portano invece soldi!
Tutte queste constatazioni dovrebbero essere collocate in una cornice più vasta, quella della militarizzazione del Mediterraneo da parte della NATO per fini strategici, dell'interesse finanziario del complesso militare-industriale, del deficit di democrazia (segreto di stato), del disprezzo delle popolazioni locali, del controllo della popolazione civile e più precisamente dei migranti, della corruzione, del disprezzo per l'ambiente naturale, della mancanza di una visione politica a lungo termine, della legge del profitto, dei preparativi attuali per le guerre future e per il mantenimento delle guerre attuali (Afghanistan). Argomenti che i movimenti per la pace non smettono di trattare… fino a quando? DI CARLA GOFFI E RIA VERJAUW
Mondialisation.ca


http://www.comedonchisciotte.org

venerdì 27 gennaio 2012

ITALIA FAR WEST DELLE TRIVELLAZIONI


Al fine di non fare milioni di regali ai petrolieri, il WWF sostiene la necessità di adeguare la normativa sull'estrazione di idrocarburi. Alla vigilia della manifestazione in Puglia per dire no alle trivellazioni in Adriatico, l'associazione presenta il dossier 'Milioni di regali - Italia: Far West delle trivelle'.

di WWF - 20 Gennaio 2012

trivellazioni
La nostra Penisola e le sue acque sono oggetto di una ricerca sovradimensionata di oro nero o di gas
Milioni di regali - Italia: Far West delle trivelle: è questa la denuncia e il titolo del dossier del WWF Italia che viene reso noto alla vigilia della manifestazione Più verde, meno nero che si svolge sabato 21 gennaio a Monopoli, che oltre a coinvolgere la Puglia, interessa i cittadini e le istituzioni di molte regioni del Meridione, ma non solo.
Il WWF saluta l’importante convergenza di intenti tra le amministrazioni e le comunità locali in difesa oggi del bene comune, costituito dal nostro patrimonio naturale che contribuisce alla ricchezza del Paese, per un futuro sostenibile, che abbia al centro le energie pulite e lo sviluppo eco-compatibile del turismo e della filiera agroalimentare.
Nel dossier del WWF si rileva che su 136 concessioni di coltivazione in terra di idrocarburi liquidi e gassosi attive in Italia nel 2010, solo 21 hanno pagato le royalty alle amministrazioni pubbliche italiane, su 70 coltivazioni a mare, solo 28 le hanno pagate. Su 59 società che nel 2010 operano in Italia solo 5 pagano le royalty (ENI, Shell, Edison, Gas Plus Italiana edENI/Mediterranea idrocarburi).
Grazie a questo amplissimo sistema di esenzioni, di aliquote sul prodotto e di canoni di concessione bassissimi ed una serie di agevolazioni e incentivi la nostra Penisola e le sue acque sono oggetto di una ricerca sovradimensionata di oro nero o di gas. Questo nonostante il petrolio, ad esempio, sia notoriamente poco e di scarsa qualità (la produzione italiana di petrolio equivale allo 0,1% del prodotto globale e il nostro Paese è al 49esimo posto tra i produttori).

Il petrolio è localizzato in territori densamente urbanizzati e nei nostri mari, vicino a coste e specchi d’acqua marina di alto pregio ambientale
Il petrolio inoltre è localizzato in territori densamente urbanizzati e nei nostri mari, vicino a coste e specchi d’acqua marina di alto pregio ambientale con il rischio che al momento in cui si verifichi un incidente, come è avvenuto nel golfo del Messico nell’aprile 2010, anche infinitamente meno grave, date le diversità, gli impatti per l’ambiente dureranno per decenni se non centinaia di anni con conseguenze teratogene, mutagene e cancerogene sugli esseri viventi.
Purtroppo la corsa all’oro nero non si ferma: se pensiamo che al 2011 sono 82 le istanze di permesso di ricerca e i permessi di ricerca di idrocarburi liquidi o gassosi in mare (74 dei quali nelle regioni del Centro-Sud, 39 nella sola Sicilia) presentati al Ministero dello Sviluppo economico. Sono invece 204 le istanze di ricerca e i permessi di ricerca in terra (89 al Nord pari al 44%, 61 al Sud, pari al 30% e 54 nel Centro Italia, pari al 26%; tra cui spiccano nelle diverse aree geografiche: le 52 tra istanze e permessi presentati in Emilia Romagna che vanta il primato del Nord, i 22 in Abruzzo, prima nel Centro, e i 27 nella già colonizzata Basilicata, che ha il primato del Mezzogiorno, seguita dalla Sicilia, con 16).
Ma il sistema Italia, denuncia il WWF nel suo dossier, garantisce maglie troppo larghe alle istanze e ai permessi di ricerca e di coltivazione di idrocarburi, con incomprensibili agevolazioni verso le coltivazioni marginali - di piccola entità - secondo il WWF, e non fa i conti con la ricchezza che deriva al Paese dal ricchissimopatrimonio naturalistico che l’Italia può vantare (il nostro Paese è primo in Europa per biodiversità), e con lo sviluppo sostenibile di settori quali il turismo e l’agroalimentare.
In Basilicata, che contribuisce per il 6% al fabbisogno nazionale di petrolio, il 60% del territorio è interessato da attività di ricerca e di coltivazione degli idrocarburi, il parco nazionale dell’Appennino lucano, Val D’Agri e Lagongerse è assediato dalle attività di perforazione con gravi conseguenze di inquinamento delle acque e del suolo e rischi per la salute della popolazione.
ricerca petrolio
Il sistema Italia garantisce maglie troppo larghe alle istanze e ai permessi di ricerca e di coltivazione di idrocarburi
Per quanto riguarda leattività in mare, c’è da ricordare che l’oro nero lo sta già avvelenando: il Mediterraneo, che costituisce lo 0,7% delle acque del globo ma da cui passa il 25% del traffico petrolifero mondiale, vanta il primato mondiale per la concentrazione di catrame in mare aperto (pelagico): 38 mg/m2 di 3 volte superiore a quello registrato nel Mar dei Sargassi, 10 mg/m2.
Non possiamo dissipare così il nostro patrimonio ambientale e la nostra salute, eppure le nostre leggi fanno dell’Italia uno dei Paesi in cui vigono le regole più vantaggiose per le aziende che ricercano ed estraggono gli idrocarburi.
Il WWF nel dossier ne fa una sintetica rassegna: 1. le prime 20 mila tonnellate di petrolio prodotte annualmente in terraferma e le prima 50 mila tonnellate di petrolio prodotte in mare, come i primi 25 milioni di smc di gas in terra e i primi 80 milioni di smc in mare sono esenti dal pagamento di aliquote allo Stato; 2. l’aliquota oscilla tra il 7% e il 4%, a seconda che si tratti di idrocarburi gassosi o liquidi estratti in mare, mentre in terraferma sale al 10% sia per gli idrocarburi liquidi che quelli gassosi, mentre la media delle aliquote applicate da altri Paesi al mondo oscilla tra il 20 e l’80% del valore del prodotto estratto; 3. anche le concessioni di coltivazione, sia pur adeguate nel tempo, partono, a valori 1996, dalle 5 mila lire a Kmq per i permessi i prospezione, alle 10 mila lire a Kmq per i permessi di ricerca, alle 80 mila lire a kmq per i permessi di coltivazione.
Ma non è finita qui e in occasione dell’Offshore Mediterranean Conference svoltasi a Ravenna nel 2004, non a caso viene menzionata la favorevole legislazione italiana per le compagnie petrolifere, dato l’ampio spettro di incentivi e agevolazioni: incentivi per le ricerche di prospezione e per la coltivazione dei cosiddetti giacimenti marginali; agevolazioni sul gasolio utilizzato nelle attività di ricerca e coltivazione di idrocarburi.
trivellazioni mare
Il WWF sostiene la necessità di regole rigorose in campo ambientale che facciano valere il principio di precauzione
Su tutti questi punti il WWF presenterà al Governo e al Parlamento un pacchetto di proposte che vanno dall’eliminazione delle esenzioni dal pagamento dell’aliquota, all’adeguamento al 50% dell’aliquota sul valore del prodotto, all’adeguamento del valore dei canoni annuali per i permessi di prospezione e di ricerca e per le concessioni di coltivazione.
Infine, per quanto riguarda la regolazione di questo settore dal punto di vista ambientale, il WWF valuta positivamente la presentazione in Parlamento della proposta di legge, approvata lo scorso agosto dal consiglio regionale della Puglia, che chiede di interdire nuove attività di prospezione, ricerca e coltivazione in Adriatico.
Il WWF, nel dossier segnala, la necessità di difendere l’importante modifica del Codice dell’ambiente voluta dal Parlamento nel giugno 2010 che introduce:
a) il divieto di prospezione, ricerca, coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare nelle aree tutelate dalla normativa italiana, comunitaria e nazionale (e quindi SIC e ZPS, aree umide protette dalla Convenzione di Ramsar, parchi terrestri e marini nazionali regionali) e in un raggio di 12 miglia da queste stesse aree (norma che pare messa a rischio proprio in questi giorni dal decreto Liberalizzazioni);
b) il divieto di prospezione, ricerca e coltivazione entro le cinque miglia dalle aree di base costiere (una linea continua che ricomprende i golfi e le insenature) in tutta la Penisola.
In conclusione è con regole rigorose in campo ambientale che facciano valere il principio di precauzione e una modifica sostanziale del regime fiscale ed economico del settore, che rispetti le regole di mercato della leale concorrenza, che secondo il WWF si può fare in modo che l’Italia non sia più un Far West per le trivelle.

LA CRISI, MONTI E IL RICATTO GENERAZIONALE



Ho due figli, entrambi in età scolare e al loro futuro tengo; non solo da quando Monti ci spiega un giorno si e l’altro pure che tutte le leggi da lui introdotte sono varate per i nostri figli e per “quelli che non sono ancora nati”; ci ho tenuto da sempre, da quando sono nati e mi sono accorto che la vita mi chiedeva di pensare, oltre che ai miei “antenati” anche alla mia “genitura”. In questo contemplo da sempre il fare delle rinunce per i figli, purché siano sostenibili nell’immediato e abbiano un senso e una motivazione vera, che realizzi un valore per loro.

Penso da anni a che cosa dovrei lasciare ai miei figli e, più in generale, alla loro generazione; quale sia il lascito che possa dare un significato alla mia esistenza, poiché queste ossa e questa carne non lasceranno traccia mentre invece il ricordo degli atti, qualche idea tramandata, qualche opera compiuta, qualche impercettibile cambiamento in meglio del mondo, forse qualche insegnamento, potrebbero continuare a esistere nel tempo.
Ho sempre creduto fermamente che le diverse generazioni che si susseguono debbano avere unaforte continuità di azioni; gli anziani nel preparare le fondamenta del mondo che sarà, i giovani nel costruire su quelle fondamenta, per realizzare un mondo migliore. Invece un conflitto che contrapponga le generazioni, implica una discontinuità nel processo di evoluzione che, invece, non dovrebbe mai arrestarsi. Avrei voluto perciò lasciare i miei figli in un progetto avviato dalla mia generazione nella direzione di una società più armonica e che loro si ricordassero di me come io mi ricordo dei miei genitori e dei miei nonni dei quali nessuno mi ha mai fatto pensare che fossero dei parassiti che pregiudicavano il mio futuro mentre io contribuivo alle loro pensioni con il mio lavoro.
Quindi mi riempie di grande tristezza vedere agitati presunti conflitti generazionali mettendo controartificialmente anziani e giovani e lasciando intendere che l’interesse degli uni vada contro quello degli altri e viceversa. In realtà, ci sono probabilmente altri interessi che si avvantaggeranno da questo eventuale conflitto, dividendo e indebolendo chi dovrebbe solidalmente respingere la dissoluzione dei valori che dovrebbero continuare a essere fondanti della società, quali la stabilità del lavoro, il diritto a un’esistenza che contempli anche un’adeguata fase di ritiro e, soprattutto, pari opportunità trasversali alle varie categorie, ai ceti e ai generi.
Questi valori sono comuni a uomini e donne, ad anziani e giovani; il suggerire che sia nell’interesse dei giovani lavoratori di oggi il mettere mano alla struttura dello stato sociale è un inganno; ciò consegnerà a loro una società peggiore, nella quale le regole del lavoro saranno peggiorate per gli anziani di oggi e per quelli di domani, per i lavoratori di oggi e per quelli di domani. O qualcuno crede che ritardare il pensionamento degli anziani di oggi, in un sistema previdenziale già stabile, possa servire a migliorare la previdenza dei futuri anziani? Qualcuno si illude che le risorse trattenute ai pensionandi di oggi verranno accantonate per migliorare le pensioni future anziché essere utilizzate a pagare nell’immediato debiti che lo stato ha contratto in tutt’altre aree? Chi crede che la stabilità dei posti di lavoro dei giovani possa essere agevolata dal rendere instabili quelli dei meno giovani? Forse che lo sviluppo si può perseguire per sostituzioni anziché per incrementi?
Qualsiasi possa essere l’esito di un conflitto intergenerazionale, potrebbe solo essere devastante e non ci farebbe uscire uscire dal tunnel nel quale sembriamo esserci cacciati nel mondo occidentale; si combatterebbe una “guerra” tra poveri sempre più poveri invece di mettere mano, possibilmente senza farlo in modo conflittuale, a una redistribuzione della ricchezza secondo i meriti e secondo necessità, distogliendola dalle speculazioni, dall’accumulo inoperoso e dall’occultamento, per destinarla a sostenere i consumi e gli imprenditori, giovani o anziani, che sviluppano tecnologie e processi produttivi moderni con l’obiettivo di creare ricchezza per sé e indirettamente anche per gli altri; in questo ambito tutti sarebebro disponibili a rinunce purché sostenibili, con ragioni ed effetti chiaramente esposti.

Sventolare futuri improbabili benefici per i pronipoti lasciando intendere che chi contesta oggi la natura e gli scopi dei sacrifici richiesti non ha a cuore il futuro dei giovani, propri figli o meno, non solo non ci farà progredire ma potrà solo scavare un solco tra padri, figli e nipoti; a vantaggio di chi? di Michele Carugi

mercoledì 25 gennaio 2012

BANCA DEL CIBO O CIBO PER LA BANCA?



OVVERO, COME CREARE IL PROBLEMA E ARRIVARE A SOLUZIONI OBBLIGATE !
(Il giochino è valido per qualsiasi altra attività che rivesta un'importanza economica)

Ogni volta che un qualche "vip" è visto mangiare un po’ di tofu, subito scrosciano gli applausi. Senz’altro si può affermare che le vecchie rockstar in cerca di mantener la linea o gli ex presidenti USA che hanno capito che c’è un nesso tra dieta e prevenzione dell’infarto, costituiscano un buon esempio da imitare, almeno che c’è chi ci tiene e ci pensa se non altro per sé (“We care”). Al di là di queste belle notizie però, la situazione alimentare moderna mondiale è alquanto seria. Le vendite oggi dei cibi "Bio" in Europa ammontano solo al 2% dei consumi UE (26 paesi). In pratica, 21 M di € contro ad esempio 24 M di € in merendine confezionate. La realtà è ben altra cosa, ed è che la grande industria alimentare è la causa numero uno dello squilibrio alimentare, in pratica della fame, nel mondo odierno. Vediamo ora come il capitalismo finanziario dei disastri tragga vantaggio solo per il denaro in se’ dalla produzione di alimenti scadenti, purché altamente industrializzati.

Chi non l’avesse ancora fatto, si legga il libro del 2007 di Naomi Klein “Shock Economy, l’ascesa del capitalismo dei disastri”. In esso l’Autrice sostiene che fenomeni sociali straordinari come la guerra in Iraq e disastri naturali come i grandi terremoti, alluvioni ecc. siano sempre un’opportunità usata dalla grande industria attraverso i politici al potere da lei sostenuti per far passare nuove leggi straordinarie che mai sarebbero state accettate in situazioni normali. Questa forma di opportunismo sociale di solito è altamente apprezzata negli ambienti finanziari in quanto produttiva di lauti guadagni. Per l’industria alimentare il disastro da tramutare in grandi profitti è la penuria alimentare che affligge il Pianeta. La scarsità di cibo è stata sventolata sotto i nostri occhi da almeno 40 anni (senza tener conto delle antiche predizioni, del tutto errate, da parte di Malthus e altri corvi di sciagura) ma è ora assai più vicina a realizzarsi ovunque, facendosi sentire tanto nei paesi “in via di sviluppo” quanto in quelli sviluppati, cioè da noi.

Una delle strategie del capitalismo dei disastri è quella di attendere che i problemi si manifestino in tutta la loro gravità prima di passare all’azione. Infatti, non ci sarebbe sufficiente reazione emotiva per far passare misure in loro favore senza l’urgenza del disastro, e quindi mancherebbero i guadagni colossali. Pertanto si va dal “preoccupante” al “problematico” prima di arrivare a “disastro” nel loro linguaggio echeggiato da stampa e televisioni. L’Escalation di termini conduce a una serie di misure d’emergenza spacciate per soluzioni – non c’è tempo, bisogna agire in fretta! Proprio quando c’è bisogno di studiare in dettaglio e di tanta moderazione, si agisce in fretta e furia.

Primo esempio: L’impoverimento dei contadini. I piccoli agricoltori a regime famigliare o simile in tutto il Pianeta non possono tenere prezzi che reggano la concorrenza con quelli dell’agricoltura aziendale industrializzata, di grande scala e altamente meccanizzata. Per salvarsi hanno due possibilità: una è quella di produrre alimenti da export, esotici in nazioni più ricche, allo scopo di accrescere i guadagni. In Italia ciò vale soprattutto per il vino. La seconda possibilità è quella di coltivar cereali per bio-fuel ovvero, trasformarli in carburante per motori a scoppio. Le sole vendite di terreni agricoli in Africa dell’ultimo anno ammontano per un terzo a terreni destinati a questo tipo di raccolti. La Jatropha è una nuova pianta che viene promossa in Africa e Sud America come un aiuto per i piccoli coltivatori, produce olio facilmente convertibile in bio-fuel. La grande resa si trasforma però subito in consumi massicci di acqua e di pesticidi mentre i consorzi agrari vendono a vagonate semi di questa nuova “rivoluzione Verde” in paesi dove la fame è endemica, per cui diventa necessario importare cereali e alimentari dall’estero, sovente sotto forma di aiuti altre volte acquistati con maggiore debito. Indovinate chi paga, e indovinate chi ci guadagna.



Secondo esempio: l’aumento della popolazione. Avrete sentito dire che si proietta la crescita della popolazione mondiale oltre i 9 miliardi, secondo alcune stime, peraltro controverse e non certe, per la metà del presente secolo. Nove miliardi che ogni giorno si dovranno sedere da qualche parte a mangiare qualcosa. Anche questo problema è sempre stato rinviato al futuro fino a che non si presenta l’ennesima “crisi da aumento di popolazione”. La soluzione rapida e definitiva è alla portata: basta mettersi a produrre massicciamente cibi geneticamente modificati che resistono ai parassiti, usano solo certi pesticidi e dovrebbero aumentare la resa: chi si oppone agli OGM farà così la figura dell’ecologista sentimentale, egoista e senza cuore che per le sue fisime - “non scientificamente provate” direbbe Veronesi – causa la fame dei poveretti…Intanto Monsanto ci fa un figurone. Peccato che la realtà sia completamente un’altra.

Terzo: I crescenti prezzi agricoli alimentari. La risposta qui è scambiare quantità con qualità. Si forniscono alimenti scadenti ma di massa ai più poveri, sempre provenienti da cibi molto trattati e industrializzati. Troverete sempre abbondanza di fast-food nei quartieri bassi, macchinette distributrici nelle fabbriche, merendine/immondizia nelle scuole. Il fatto è che i pochi che lavorano duro devono mangiare con poco e velocemente, mentre chi non lavora ha bisogno di ridurre al massimo la spesa alimentare. Aggiungi la mancanza di cultura, gli slogan fasulli piantati ad arte dalla pubblicità ingannevole e dagli “esperti” televisivi prezzolati, ed ecco che la povertà nutritiva ha tutti i sostegni che necessita; i signori del fast-food sono maestri di cibi saporiti ed economici. I governi dal canto loro continueranno sempre a finanziare con aiuti di Stato carni, latte e pollame per rassicurare il grande pubblico con la presenza di alimenti familiari sulla tavola, anche se l’evidenza scientifica e dei fatti ha provato da tempo che questi consumi in eccesso siano malsani e apportatori di patologie degenerative. Lo continuano a fare perché l’industria alimentare li appoggia e finanzia completamente attraverso i finanziamenti alle campagne elettorali dei politici, e questo vale per tutti gli schieramenti e partiti indistintamente. Si sta già configurando infine una pseudo-Linea Verde nei fast-food per giovani ed ecologisti dilettanti, a base di banco delle insalate, burger alla soia OGM e ben presto avremo pannelli solari ed eliche eoliche vicino alla grande M a forma di tette appetitose simbolo di McDonald’s.





Quarto: Le riserve di pesce in esaurimento. Enormi navi-officina solcano i mari espellendone i piccoli pescherecci, esaurendo le scorte e massacrando le riserve di piccoli pesci in crescita col metodo della pesca di massa industrializzata. Su di esse il pescato è lavorato in catene di produzione fino al prodotto pronto surgelato magari anche precotto. Questa politica estrattiva produce immani squilibri ambientali e sprechi, con conseguente impoverimento del patrimonio ittico. Una seria politica di autocontrollo della pesca con metodi e calendari precisi permetterebbe di conservare il patrimonio di pesci in riproduzione, ma onde tenere altissimi i ricavi bisogna invece allarmare il pubblico con le false notizie per cui l’industria ha già pronta la nostra salvezza: il pesce OGM! Pronto su ogni tavola, le ultime pastoie e scrupoli dei tradizionalisti (oh come son lenti, questi antimodernisti e antiprogressisti, non vedete che il mondo ha fame e noi grandi forze del Progresso lo sfameremo?) cadono in fretta, tra poco FDA (Ministero dell’Agricoltura USA) approverà senza riserve. Avrete salmoni a crescita rapida, dimezzata come tempi e di maggiori dimensioni; magari poi lo scienziato del progresso inarrestabile penserà ad un nuovo modello di salmone con le zampe in modo da uscirsene dall’acqua da solo, così avremo pescatori in esubero a cui penserà la cassa integrazione mentre i salmoncini tutti in fila se ne entreranno nelle fabbriche automatizzate, sulle loro zampine. E’ un sogno, per ora, ma presto... Un maiale più umanizzato anche per farne organi simil-umani da trapiantare (mi raccomando anche la faccia, signori politici!) ed una capra da latte chimicamente simile a quello umano sono già in fase sperimentale avanzata. 

Aspettiamoci di vedere dei bimbi brucare l’erba nelle aiuole del giardino di casa, e bimbi molto, molto ubbidienti che si muovono tutti insieme, come un gregge… E’ importante che tutti coloro i quali nutrano una qualche preoccupazione per il futuro del pianeta, per la qualità di vita e di alimentazione umana non permettano a questi argomenti di scivolare nel dimenticatoio o nelle chiacchiere da bar o peggio nelle polemiche televisive. Si dovranno scoprire nuove maniere di comunicazione in modo anche di trasmettere al pubblico una nuova educazione alimentare non più fondata sul “mangiare di tutto un po’” perché in realtà l’industria decide quel “tutto” e lo incanala verso le sue precise scelte di profitto, facendoti poi credere che “si è sempre mangiato così”. Questa è la grande opportunità che ci sta dando la Grande Crisi in atto ora e per molto tempo ancora. Se no, a che servono le crisi, se non a riflettere? di Roberto Marrocchesi
http://www.altrogiornale.org

LA CRISI CHE VERRA'

La crisi che verrà

Alla fine degli anni Trenta, anche se la quota dell’industria italiana nel prodotto nazionale era leggermente superiore rispetto a quella dell’agricoltura, circa la metà della forza lavoro italiana era agricola e poco meno di un terzo era industriale. Il potenziale industriale totale del nostro Paese era inferiore a quello russo e ammontava a poco più del 20% di quello tedesco. Il prodotto nazionale lordo pro capite era superiore a quello russo, ma ammontava a meno del 50% di quello tedesco o britannico. E se in Germania l’analfabetismo era quasi del tutto scomparso, in Italia nel 1931 il tasso di analfabetismo era ancora del 20,9% tra i cittadini sopra i sei anni. Dopo la Grande Depressione del 1929, lo Stato però era diventato proprietario di gran parte dell’industria pesante, tanto che si trovavano in mani pubbliche il 75% della produzione di ghisa e il 45% di quella dell’acciaio, l’80% dei cantieri navali e il 90% del trasporto merci. L’Italia era cioè sulla strada per diventare una società industriale, anche se era ancora ben lungi dall’esserlo.¹
D’altronde, la Seconda guerra mondiale poté solo “frenare” il processo di modernizzazione del Paese, ma non annullare i progressi compiuti negli anni precedenti. Non a caso furono proprio le industrie statali e parastatali, insieme con le piccole e medie imprese, a guidare lo sviluppo italiano dopo la guerra. Uno sviluppo che nel giro di qualche lustro trasformò una società ancora in larga misura fondata sul settore primario in una società industriale avanzata.
Inoltre, è innegabile che l’Italia, pur essendo un Paese a sovranità limitata, sfruttando l’invidiabile posizione geografica e perfino la presenza di un forte partito comunista, seppe pure manovrare tra i due “blocchi” e “ritagliarsi” un certo spazio geopolitico, allo scopo di difendere l’interesse nazionale, anche se naturalmente vi erano “confini” che non potevano essere superati. Nondimeno, l’Italia rimaneva un Paese povero di materie prime, caratterizzato da una economia di trasformazione e quindi quasi completamente dipendente dall’estero. Una condizione che si era già dimostrata essere una delle cause della debolezza dell’Italia, sia nella Prima che nella Seconda guerra mondiale, al di là della impreparazione bellica e degli errori del regime fascista.
Pertanto, anche considerando che l’Italia non è mai stata una potenza militare, ci si poteva solo illudere di contare qualcosa nell’ambito della Nato, fatta eccezione per quanto concerneva la logistica (basi, installazioni, aeroporti, magazzini, depositi, centri di comunicazione etc.). Il che avrebbe dovuto indurre la classe dirigente italiana a rinunciare alla velleitaria idea di potere svolgere il ruolo di junior partner degli Stati Uniti e a adoperarsi sia per creare una forza militare europea, indipendente dalla Alleanza Atlantica, sia per dar vita ad un nuovo modello di difesa nazionale e popolare. Un compito non impossibile dopo il crollo dl Muro e la scomparsa del Patto di Varsavia. Il nostro Paese scelse invece di abolire, anziché “ri-formare”, il servizio di leva, grazie anche al fatto che l’intellighenzia italiana, che si è sempre vantata della propria ignoranza della storia e dei problemi militari, non comprese (o peggio ancora fece finta di non comprendere) che in tal modo si sarebbero vieppiù indeboliti il senso dello Stato e il senso di “appartenenza” degli italiani.
D’altra parte, l’incapacità dell’Unione europea di evitare la disintegrazione della Iugoslavia non solo mostrò chiaramente la fragilità politica dell’Europa, ma offrì agli Stati Uniti l’occasione di ristrutturare la Nato, di modo che a “decidere” – e di conseguenza a distinguere tra “amici e nemici”, a stabilire cioè chi fosse “il nemico dell’Europa”- fossero gli Stati Uniti (e solo gli Stati Uniti). Cosicché la Nato da organizzazione per la difesa (almeno “sulla carta”) del continente europeo divenne una organizzazione “al servizio” della politica di potenza statunitense. Sotto questo aspetto, si riconosceva implicitamente la totale sottomissione dell’Europa politica alla superpotenza nordamericana, senza nemmeno che l’opinione pubblica europea se ne accorgesse, dato che era convinta che la fine dell’Unione Sovietica avrebbe coinciso con l’inizio di nuova era di pace e prosperità.
Non sorprende perciò che negli stessi anni in cui si gettavano le fondamenta di “Eurolandia”, l’Italia sia stata travolta da una bufera giudiziaria (Mani Pulite), che spazzò via gran parte del “vecchio” e corrotto ceto politico democristiano e socialista, e quasi messa in ginocchio da uno tsunami finanziario, scatenato dalla finanza anglosassone e che si concluse con la svalutazione della nostra moneta, dopo una inutile e costosissima difesa della lira, da parte dell’allora Governatore della Banca d’Italia, Azeglio Ciampi.
Ciò permise all’oligarchia atlantista di sferrare un colpo letale al nostro Paese, costringendolo a svendere gran parte del patrimonio pubblico strategico al capitale privato, perlopiù straniero, al fine di ridurre il debito pubblico, come se quest’ultimo non fosse stato causato soprattutto dagli interessi che si dovevano pagare sul debito, dacché, nel 1981, la Banca d’Italia aveva divorziato dal Tesoro, costringendo lo Stato ad aumentare il tasso d’interesse per vendere i propri titoli ai privati (anche se solo a partire dalla metà degli anni Novanta il debito pubblico fu in larga misura “internazionalizzato”; una scelta che si è rivelata assai “infelice” con il passare degli anni e che fa dubitare della buonafede di chi la fece). Sicché, oggi il nostro Paese si trova quasi del tutto privo sia di quella “potenza” che aveva consentito ad Enrico Mattei di aprire nuove corsie geostrategiche, allo scopo di favorire la crescita dell’Italia in un’ottica geopolitica decisamente opposta a quella difesa dai circoli atlantisti, sia delle competenze politiche necessarie per contrastare efficacemente le decisioni di un’Unione europea diventata strumento del sistema finanziario occidentale.
Ma ancora più preoccupante è che la cosiddetta “seconda Repubblica” sia, in realtà, una sorta di “copertura” per l’azione di gruppi di potere che svolgono il ruolo di cinghia di trasmissione dei “mercati”. Al riguardo, è rilevante non tanto che la ricchezza si sia concentrata negli ultimi anni nelle mani di pochi (il 10-20% della popolazione), quanto piuttosto il fatto che si sia formata una oligarchia che non ha alcun interesse né a valorizzare l’apparato tecnico-produttivo in funzione di un potenziamento del settori strategici nazionali, né a rappresentare in modo adeguato e intelligente le piccole e medie imprese. Vale a dire quel tessuto produttivo estremamente articolato e differenziato che è una delle principali risorse del Paese, benché sia gravemente penalizzato dalla dissennata ed irrazionale politica di Equitalia (ammesso e non concesso che non sia una “politica calcolata”).
Peraltro, senza le “quinte colonne”, di destra e di sinistra, che si combattono per aggiudicarsi i favori della “manina d’oltreoceano”, ben difficilmente il nostro Paese si sarebbe ridotto a diventare terra di conquista per i “valvassori” tedeschi o i “valvassini” francesi. Comunque sia, tralasciando la questione di un europeismo assai male inteso (nel migliore dei casi), ma funzionale ad una tecnologia sociale capace di instaurare una specie di dittatura finanziaria, è indubbio che in Italia il processo di modernizzazione sia venuto progressivamente a identificarsi con un processo di “colonizzazione” che minaccia di vanificare decenni di lavoro, di lotte e di sacrifici del popolo italiano e che probabilmente costringerà l’Italia a svendere quel che ancora rimane del capitale strategico nazionale (Eni, Enel, Finmeccanica etc.).
Del resto, è palese che vi siano “centri di potere” che premono affinché “si adegui” l’intero sistema sociale e culturale italiano ai diktat dei “mercati”, anche promuovendo un individualismo consumistico e massificato (che è la “negazione” del singolo in quanto “individuo differenziato”) in un Paese come il nostro che non fino a molti anni fa, nonostante gli squilibri derivanti da un mutamento sociale tanto rapido quanto caotico, aveva saputo invece trarre profitto proprio dal fatto di non essere del tutto integrato nel “sistema occidentale”. Si spiega così (almeno in parte) lo stesso berlusconismo come fenomeno contraddittorio, in quanto espressione di un americanismo grossolano e superficiale e al tempo stesso come espressione, sia pure in forma distorta (e talora aberrante), di una cultura (popolare) assai diversa da quella angloamericana. Da qui pure le accuse di populismo e di “fascismo postmoderno” al centro-destra, non perché favorevole al processo di modernizzazione/”colonizzazione” del nostro Paese, bensì perché in un certo senso ritenuto un ostacolo a tale processo (come Monti sostenne in un editoriale del Corriere della Sera, poco prima di essere designato presidente del Consiglio dai “mercati”).²
Si può dunque affermare che la degenerazione del conflitto politico in una lotta tra bande mercenarie, il degrado istituzionale, l’inefficienza della pubblica amministrazione, l’assistenzialismo, il clientelismo, la corruzione, il declino del sistema educativo e dell’informazione e la progressiva decomposizione del tessuto sociale hanno consentito ai “mercati” di imporre un loro “governo”, al fine di completare l’opera di “colonizzazione” dell’Italia, in base a quanto si era “convenuto” nella famosa riunione a bordo del Britannia, non essendoci dubbi – e certo non ne avevano i partecipanti, indipendentemente da ogni “dietrologia” – su quale fosse il significato politico di quella riunione.
In questa prospettiva, il futuro del nostro Paese sembrerebbe già deciso, non essendoci né la volontà né la potenza per superare positivamente una crisi che è non solo economica, ma politica e culturale e che sembra ricacciare la Penisola al tempo di “o Franza o Spagna, purché se magna”. Tuttavia, com’è noto, si tratta di una crisi che concerne l’intera Europa e che è connessa al declino “relativo” degli Stati Uniti, di cui è parte costitutiva lo stesso sistema finanziario che, oltre ad aver causato una “selvaggia” redistribuzione della ricchezza verso l’alto e generato un’immensa “bolla speculativa”, agisce secondo una logica mondialista che ha di mira la subordinazione degli Stati nazionali ai “mercati”, ovvero alla élite che li controlla sotto il profilo politico e strategico.
Epperò è logico che l’attrito, l’eterogenesi dei fini, le lotte all’interno del gruppo dominante e tra i subdominanti, le scelte che inevitabilmente l’Europa dovrà fare per evitare di collassare e la necessità di confrontarsi con nuove “realtà geopolitiche” possano “interagire” in modo del tutto imprevedibile sia con la crisi dell’unipolarismo americano e la nuova dottrina strategica di Washington (imperniata su un “approccio indiretto”, che lascia ampi margini di azione ai gruppi subdominanti), sia con i difetti sempre più evidenti della “forma politica” degli Stati europei.
Per questo motivo, se da un lato si deve prendere atto che il “male” che affligge l’Italia ha ormai aggredito perfino i gangli vitali della Nazione, di modo che è assai improbabile che le non poche “energie” (non solo produttive) ancora presenti siano sfruttate, secondo un piano strategico coerente e di ampio respiro, da una classe dirigente degna di questo nome; dall’altro, si deve pure riconoscere che il sistema capitalistico occidentale non può avere la capacità di controllare tutti gli “effetti” della crisi, sebbene abbia provato di essere in grado di strutturasi in funzione del caos che esso stesso genera. Ancora più significativo però è che, sia pure lentamente si faccia strada la convinzione, che le istituzioni politiche liberali, soprattutto in mancanza di una autentica forza politica nazionalpopolare (o “socialista”), non possono non fare da tramite fra gli Stati Uniti e quei gruppi subdominanti i cui privilegi non potrebbero sussistere senza l’appoggio della potenza capitalistica predominante.
Si equivocherebbe, tuttavia, il senso del nostro articolo, che altro non vuol essere se non un’interpretazione (geo)politica del “nostro presente” alla luce di alcuni tratti distintivi della recente storia italiana, qualora non si tenesse conto che (come giustamente sostiene Alexsandr Dugin)³ che l’alternativa all’atlantismo e al liberalismo la si deve cercare non nel passato, qualunque esso sia, bensì nel futuro. Non nel senso che sia “destinata” a verificarsi, dato che è pacifico che non vi possa essere (solo) la categoria modale della necessità a fondamento dei processi storici. Ma il tramonto di una concezione deterministica della storia significa pure che non vi è alcuna necessità storica che consenta di escludere a priori che ancora una volta, come è accaduto sovente nella storia, quel che pareva essere “destinato” alla sconfitta, per un complesso di circostanze storiche e culturali, possa invece capovolgere la situazione a proprio vantaggio.
In relazione al tema che si è trattato, benché assai sinteticamente, in questo nostro scritto, ne consegue quindi che se il nostro Paese ha poca o nessuna possibilità di influire su tali circostanze, non è affatto impossibile che si producano delle condizioni che permettano di contrapporre alla “pre-potenza” dell’atlantismo ed ai “mercati sovrani” i diritti e la sovranità delle genti dell’Eurasia. Se così fosse però non sarebbe l’Economico, ma il Politico a “decidere”. Ed è questo forse l’unico motivo per cui, nonostante tutto, vale ancora la pena di continuare a lottare per un’Italia “diversa”. Di Fabio Falchi