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martedì 10 ottobre 2023
COMUNITA'...MA DE CHE?
In relazione ad ogni avvenimento più o meno grave che accade in qualche parte del mondo nelle dichiarazioni sia dei media, che dei politici si fa un costante riferimento alla cosiddetta Comunità Internazionale. Una Comunità che, a seconda delle circostanze, condanna, solidarizza o appoggia Tizio o Caio. Ma tradotto in soldoni chi e cosa è questa Comunità Internazionale?
Logica vorrebbe che tale entità sia rappresentata dal consesso internazionale più ampio possibile che si conosca, l'ONU. E che, conseguentemente, sia l'opinione espressa da tale istituzione o perlomeno, dalla maggioranza dei partecipanti. Però, leggendo anche molto superficialmente le notizie in merito, veniamo a scoprire che la stragrande maggioranza delle risoluzioni ONU approvate, sono rimaste lettera morta. Non hanno quasi mai, minimamente rappresentato un vincolo tale da condizionare o risolvere le questioni in oggetto. E pensiamo, tanto per non fare nomi e rimanere alla cronaca, alla questione palestinese e anche alla guerra in Ucraina.
All'ONU sono state votate risoluzioni, anche a grande maggioranza, esattamente contrarie e contrastanti con quelle che ci raccontano, espresse dalla Comunità Internazionale.
Quindi appare chiaro che la cosiddetta comunità è un concetto veicolato e valevole solo in alcuni paesi e porzioni del pianeta. Concetto che risale ad una presunzione di superiorità che, se già molto discutibile nei secoli scorsi, oggi appare totalmente fuori da ogni contesto e logica. Sembrano questioni di lana caprina, a fronte dei drammi e delle tragedie odierne. Ma è proprio dalla sottovalutazione dei linguaggi e dai messaggi meno esibiti, che passano i condizionamenti e e le distorsioni nelle letture degli accadimenti. Le stesse distorsioni e condizionamenti che i poteri, in ogni angolo del mondo, hanno sempre usato per distrarre e tenere divisi e sfruttabili interi popoli.
MIZIO
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sabato 23 luglio 2016
LA PAURA CI FA DEBOLI!
Il
primo atto da fare è prendere atto che qualcosa è cambiato e pure rapidamente.
Tutto ciò che era stato costruito dalle generazioni precedenti (in particolare
nei paesi occidentali) in materia di democrazia, difesa del più debole, di
inclusione sociale è stato prima messo in discussione, e poi progressivamente
spazzato via. L'arma ideologica utilizzata, quella della globalizzazione
economica e della speculazione finanziaria, ha messo in competizione i
disperati di tutto il mondo in nome del profitto. Operazione non calata dal
cielo, nè scritta nel destino dell'umanità. Ma scelta consapevole di una lobby,
questa si globale, che fa dell'adorazione del profitto e dell'esercizio del
potere assoluto (in questo caso finanziario) la propria religione da servire e
onorare con i propri sacerdoti. Imprenditori, politici, economisti, giornalisti
e prezzolati di tutte le risme.
I
conflitti, anche se non combattuti con le armi (ma non mancano assolutamente
neanche quelli, anzi) stimolano e motivano ovviamente reazioni da parte
sopratutto di chi coltivai lo stesso disegno egemonico (sia pur con matrice
apparentemente diversa) e preparano il terreno per uno scontro di potere.
Liberismo
economico e fondamentalismo islamico alla fin fine sono più simili di quanto si
possa credere. Entrambi puntano all'annichilimento dell'essere umano e della
sua libertà. Da una parte si utilizzano mezzi più "democraticamente
accettabili" e "puliti", dall'altra si bypassano i passaggi
intermedi per arrivare direttamente al risultato finale.
L'angoscia
e l'impoverimento di centinaia di milioni di disperati creati da questo sistema
sono il substrato ideale per chi, invece, molto più semplicemente, ne
indirizza, utilizzando la religione come molla, la rabbia e la disperazione
contro i suoi simboli e i suoi rappresentanti.
Il
terrorismo finanziario ed economico miete le sue vittime facendole morire
lentamente, togliendo loro speranza e alimentando l'angoscia per il domani. (E
solo chi ha vissuto questi sentimenti può capire l'abisso di paura e
disperazione in cui si precipita e da cui, spesso, se ne esce con soluzioni
estreme).
L'altro
è, per certi aspetti, di più facile comprensione, puntando a mietere
direttamente vittime inconsapevoli e spargere terrore diffuso ponendo, tra
l'altro le basi per altrettante reazioni rabbiose, razziste e xenofobe.
E'
un ginepraio da cui non è facile nè scontato che se ne possa uscire, ma che,
comunque, ci mette di fronte la domanda che da sempre accompagna i periodi di
forte tensione e apparentemente insolubili: Che fare?
Ovviamente,
non sono assolutamente in grado di offrire risposte, ma credo che già
riconoscere la stessa impronta egemonica in entrambe le componenti prese in
considerazione, possa essere un passo avanti. Passo che ci porta inesorabilmente
a quello successivo, il riconoscimento che tutta l'umanità è sotto attacco
inconsapevolmente (di cui una parte con le armi) e che limitarsi alle condanne
estemporanee non risolve e non aiuta la comprensione.
Abbiamo
fortemente urgenza di una terza via. Quelle del secolo scorso appaiono oggi,
non certamente sbagliate, ma sicuramente insufficienti a offrire risposte che
non siano settoriali. Potrebbero diventare una buona base se innervate e
arricchite dalle visioni forse utopiche ma necessarie dei movimenti no-global
del nuovo millennio. Rivedere i rapporti tra capitale e lavoro è necessario ma
è altrettanto necessario farlo all'interno di una visione che veda la
salvaguardia del pianeta e dell'umanità tutta. Quindi lotta ai fondamentalismi
di qualsiasi genere siano essi finanziari, politici o religiosi. Impegno per il
perseguimento e l'allargamento delle coscienze che vanno sottratte al populismo
e alla rabbia. La redistribuzione di beni e diritti all'interno di un
riequilibro complessivo dell'economia e dell'utilizzo delle risorse naturali,
deve essere la linea guida di qualsiasi forza, partito o movimento che voglia
sfuggire a questa logica fuorviante di scontro fra civiltà.
Ci
vogliono paurosi e rancorosi, riproviamo ad essere protagonisti e propositivi.
Ad
maiora
MIZIO
lunedì 4 luglio 2016
VITTIME SI, MA QUALI?
Cordoglio infinito per le vittime e condanna senza
appello per chi e' autore di tali efferati attacchi terroristici. Nessuna
giustificazione o comprensione ma il tentativo di capire va fatto al di fuori
di semplici letture in cui ci sono semplicemente il noi e il loro. Noi i buoni,
ingenui, comprensivi. Loro i cattivi, bruti, fanatici e pazzi sanguinari. Se
devo pensare ad un accostamento tra vittime non posso fare a meno di pensare ai
milioni di lavoratori impegnati nella lavorazione del tessile in Bangladesh.
Costretti, minori e non, a lavorare in condizione di semischiavitu' per le
aziende del settore tessile in gran parte occidentali. Anche gli italiani,
vittime, erano imprenditori del tessile, a Dacca per lavoro. Immagino, quindi,
per contratti e commesse tese al minor costo e al massimo profitto. Non sarà
quindi la globalizzazione, lo sfruttamento, un'economia cinica in cui impera il
"pecunia non olet" a rappresentare il substrato in cui trovano
spiegazione e habitat anche le efferatezze più disumane? Siamo sicuri che i
carnefici siano solo quelli che ammazzano con le armi e non, anche, coloro che
delegano il lavoro sporco di sfruttamento e disumano per il proprio interesse?
Il mondo è talmente complesso che è estremamente difficile tracciare un confine
netto tra vittime e carnefici e nessuno può dirsi estraneo e innocente a
priori. È un mondo da cambiare in profondità, non bastano piccoli ritocchi di
maquillage. Cominciamo da noi, dall'Italia, dall'Europa.

Ad maiora
venerdì 9 gennaio 2015
TERZANI SCRIVE A ORIANA FALLACI
IL SULTANO E S. FRANCESCO
Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri gia' grande e tu proponesti di scambiarci delle "Lettere da due mondi diversi": io dalla Cina dell'immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall'America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma e' in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l'impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo.
Ti scrivo anche - e pubblicamente per questo - per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. La' morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana - la ragione; il meglio del cuore - la compassione.
Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. "Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia", scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all'indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui uso' di quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dell'umanita', un'opera che sembra essere ancora di un'inquietante attualita'.
Pensare quel che pensi e scriverlo e' un tuo diritto. Il problema e' pero' che, grazie alla tua notorieta', la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta.
Il nostro di ora e' un momento di straordinaria importanza. L'orrore indicibile e' appena cominciato, ma e' ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. E un momento anche di enorme responsabilita' perche' certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti piu' bassi, ad aizzare la bestia dell'odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecita' delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l'uccidere. "Conquistare le passioni mi pare di gran lunga piu' difficile che conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me", scriveva nel 1925 quella bell'anima di Gandhi. Ed aggiungeva: "Finche' l'uomo non si mettera' di sua volonta' all'ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sara' per lui alcuna salvezza".
E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non e' nella tua rabbia accalorata, ne' nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela piu' accettabile, "Liberta' duratura".
O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo e' mondo non c'e' stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sara' nemmeno questa.
Quel che ci sta succedendo e' nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. E una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d'aver davanti prima dell'11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilita' di nulla, tanto meno all'inevitabilita' della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta.
Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre piu' tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor piu' determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor piu' terribile violenza - ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguira' necessariamente una loro ancora piu' orribile e poi un'altra nostra e cosi' via.
Perche' non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari "intelligente", di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui.
Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologiche - Stati Uniti in testa - d'impegnarsi solennemente con tutta l'umanita' a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilita'. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale - di per se' un'arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l'orrore indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta. In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates bis Mozart (L'arte di non essere governati: l'etica politica da Socrate a Mozart). L'autore e' Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all'Universita' di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff e' che la politica, nella sua espressione piu' nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici piu' profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all'uomo la necessita' di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civilta'.
Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino - un marchio che e' anche una protezione -, lo condanna all'esilio dove quello fonda la prima citta'. La vendetta non e' degli uomini, spetta a Dio.
Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell'uomo occidentale perche' col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro e' servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilita' della violenza che non raggiunge mai il suo fine.
Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e cosi', attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore.
A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle "Tigri Tamil", votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di "Hamas" che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po' di pieta' sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull'isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l'Imperatore. I kamikaze mi interessano perche' vorrei capire che cosa li rende cosi' disposti a quell'innaturale atto che e' il suicidio e che cosa potrebbe fermarli.
Quelli di noi a cui i figli - fortunatamente - sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l'ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio.
Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perche' io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolvera' uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali.
Niente nella storia umana e' semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c'e' raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, e' il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell'evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L'attacco alle Torri Gemelle e' uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non e' l'atto di "una guerra di religione" degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non e' neppure "un attacco alla liberta' ed alla democrazia occidentale", come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell'Universita' di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse da' di questa storia una interpretazione completamente diversa. "Gli assassini suicidi dell'11 settembre non hanno attaccato l'America: hanno attaccato la politica estera americana", scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri - l'ultimo, Blowback, contraccolpo, uscito l'anno scorso (in Italia edito da Garzanti, ndr) ha del profetico - si tratterebbe appunto di un ennesimo "contraccolpo" al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell'Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l'elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi.
Il "contraccolpo" dell'attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall'installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l'Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell'Islam. Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana "a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico".
Cosi' si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati.
Esatta o meno che sia l'analisi di Chalmers Johnson, e' evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c'e', a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi "amici", qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa e' stata la trappola.
L'occasione per uscirne e' ora.
Perche' non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perche' non studiamo davvero, come avremmo potuto gia' fare da una ventina d'anni, tutte le possibili fonti alternative di energia?
Ci eviteremmo cosi' d'essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre piu' disastrosi "contraccolpi" che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta.
Magari salviamo cosi' anche l'Alaska che proprio un paio di mesi fa e' stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche - tutti lo sanno - sono fra i petrolieri.
A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull'Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese e' legato al fatto d'essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell'Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l'India e da li' nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall'Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli "orribili" talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si e' impegnata col Turkmenistan a costruire quell'oleodotto attraverso l'Afghanistan.
E dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessita' di proteggere la liberta' e la democrazia, l'imminente attacco contro l'Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti. E per questo che nell'America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell'industria petrolifera con quelli dell'industria bellica - combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington - finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all'interno del paese, in ragione dell'emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie liberta' che rendono l'America cosi' particolare.
Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l'aggettivo "codardi", usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, cosi' come la censura di certi programmi e l'allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni. L'aver diviso il mondo in maniera - mi pare - "talebana", fra "quelli che stanno con noi e quelli contro di noi", crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l'America ha gia' sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro.
Il tuo attacco, Oriana - anche a colpi di sputo - alle "cicale" ed agli intellettuali "del dubbio" va in quello stesso senso. Dubitare e' una funzione essenziale del pensiero; il dubbio e' il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste e' come volere togliere l'aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d'aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande.
In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace. Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo "ufficiale" della politica e dell'establishment mediatico, c'e' stata una disperante corsa alla ortodossia. E come se l'America ci mettesse gia' paura. Capita cosi' di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan e' un importante simbolo di quell'America che per due volte ci ha salvato. Ma non c'era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam?
Per i politici - me ne rendo conto - e' un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor piu' l'angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civilta' combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici.
Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente.
Ma questo ci impone anche grandi responsabilita' come quella, non facile, di andare dietro alla verita' e di dedicarci soprattutto "a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia", come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America.
Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che e' complicato. Ma non si puo' esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunita' di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi.
Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori? Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa e' l'Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l'arabo, oltre ai tanti che gia' studiano l'inglese e magari il giapponese?
Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente e', come capita da noi, console ad Adelaide in Australia.
Mi frulla in testa una frase di Toynbee: "Le opere di artisti e letterati hanno vita piu' lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno piu' in la' degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di piu' di tutti gli altri messi assieme".
Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per "gli altri", per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provo' una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufrago' e lui si salvo' a malapena. Ci provo' una seconda volta, ma si ammalo' prima di arrivare e torno' indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l'assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati ("vide il male ed il peccato"), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraverso' le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c'era ancora la Cnn - era il 1219 - perche' sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell'incontro. Certo fu particolarissimo perche', dopo una chiacchierata che probabilmente ando' avanti nella notte, al mattino il Sultano lascio' che San Francesco tornasse, incolume, all'accampamento dei crociati.
Mi diverte pensare che l'uno disse all'altro le sue ragioni, che San Francesco parlo' di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d'accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: "Ama il prossimo tuo come te stesso". Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressivita' e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia.
Ma oggi? Non fermarla puo' voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo all'orrore dell'olocausto atomico pose una bella domanda: "La sindrome da fine del mondo, l'alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l'uomo piu' umano?". A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere "No".
Ma non possiamo rinunciare alla speranza.
"Mi dica, che cosa spinge l'uomo alla guerra?", chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. "E possibile dirigere l'evoluzione psichica dell'uomo in modo che egli diventi piu' capace di resistere alla psicosi dell'odio e della distruzione?" Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c'era da sperare: l'influsso di due fattori - un atteggiamento piu' civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura - avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire.
Giusto in tempo la morte risparmio' a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale.
Non li risparmio' invece ad Einstein, che divenne pero' sempre piu' convinto della necessita' del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all'umanita' un ultimo appello per la sua sopravvivenza:
"Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto".
Per difendersi, Oriana, non c'e' bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c'e' bisogno d'ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni.
M'e' sempre piaciuta nei Jataka, le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha gia' i poteri della preveggenza, "vede" che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell'acqua ad affogare per salvare gli altri.
Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della liberta' di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell'incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocita' commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden?
"Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate", scrive in questi giorni dall'India agli americani, ovviamente a mo' di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose: una come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile dell'esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse si'.
L'immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del "nemico" da abbattere e' il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell'Afghanistan, ordina l'attacco alle Torri Gemelle; e' l'ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; e' il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo pero' accettare che per altri il "terrorista" possa essere l'uomo d'affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui e' piu' conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci piu' i campi per far crescere il riso, muoiono di fame?
Questo non e' relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, puo' esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sara' difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare.
I governi occidentali oggi sono uniti nell'essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti.
Molto meno convinti pero' sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio e' diffuso cosi' come e' diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra.
"Dateci qualcosa di piu' carino del capitalismo", diceva il cartello di un dimostrante in Germania.
"Un mondo giusto non e' mai NATO", c'era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Gia'. Un mondo "piu' giusto" e' forse quel che noi tutti, ora piu' che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalita' ed ispirato ad un po' piu' di moralita'.
La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perche' ora tornano comodi, e' solo l'ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi.
Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalita' internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese piu' reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato ne' il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia, ne' il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche. L'interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l'utilita' del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sara' presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i "lavoretti sporchi" di liquidare qua e la' nel mondo le persone che la Cia stessa mettera' sulla sua lista nera.
Eppure un giorno la politica dovra' ricongiungersi con l'etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze.
A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa citta' mi fa male e mi intristisce. Tutto e' cambiato, tutto e' involgarito. Ma la colpa non e' dell'Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una citta' bottegaia, prostituita al turismo! E successo dappertutto. Firenze era bella quando era piu' piccola e piu' povera. Ora e' un obbrobrio, ma non perche' i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perche' i filippini si riuniscono il giovedi' in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione.
E cosi' perche' anche Firenze s'e' "globalizzata", perche' non ha resistito all'assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato.
Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso e' scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch'io non mi ci ritrovo piu'.
Per questo sto, anch'io ritirato, in una sorta di baita nell'Himalaya indiana dinanzi alle piu' divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, li' maestose ed immobili, simbolo della piu' grande stabilita', eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo.
La natura e' una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto piu' grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono piu'. Guarda un filo d'erba al vento e sentiti come lui. Ti passera' anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace.
Perche' se quella non e' dentro di noi non sara' mai da nessuna parte.
Tiziano Terzani
domenica 9 novembre 2014
IL MURO DEL RIMPIANTO?
Il
9 Novembre segna il 25esimo anniversario della caduta del muro di Berlino. Lo
stravagante trambusto e' cominciato da mesi a Berlino. Da parte degli USA
possiamo aspettarci tutti i cliché da Guerra Fredda circa la lotta del Mondo
Libero contro la Tirannia Comunista che verranno tirati in ballo insieme alla
solita favola del come il muro sia venuto in essere: Nel 1961, i comunisti di
Berlino Est costruirono un muro per impedire ai loro cittadini oppressi di
scappare a Berlino Ovest e alla libertà. Perché? Perché ai comunisti non piace
che la gente sia libera e impari la “verità”. Che altro tipo di ragione poteva
esserci?
Prima
di tutto, prima della costruzione del muro nel 1961, migliaia di tedeschi
dell'est si recavano a ovest per lavoro ogni giorno e poi rientravano in casa
alla sera. Molti altri andavano avanti e indietro per fare delle compere o per
altre ragioni. Per cui chiaramente non erano trattenuti ad est contro la
propria volontà. Ma allora perché e' stato costruito il muro? C'erano due
ragioni principali:
1)
L'occidente stava molestando la Germania Est con una vigorosa campagna di
reclutamento di professionisti e di lavoratori specializzati che si erano
formati a spese del governo comunista. Questo alla fine ha provocato una seria
crisi lavorativa e produttiva nell'est. Come indicazione di questo, il New York
Times segnalava nel 1963: “Berlino Ovest ha sofferto economicamente dalla
costruzione del muro con la perdita di circa 60,000 lavoratori specializzati
che ogni giorno si recavano dalle loro case di Berlino Est ai loro posti di
lavoro di Berlino Ovest.”
Bisogna
notare che nel 1999, USA Today scriveva: “Quando e' caduto il muro di Berlino
[1989], i tedeschi dell'est s'immaginavano una vita di libertà ove i beni di
consumo erano in abbondanza e i tempi di difficoltà passati per sempre. Dieci
anni più tardi, un rimarcabile 51% afferma che erano più felici con il
comunismo.” E sondaggi precedenti indicavano una percentuale di persone che
esprimevano un tale sentimento ancora più alta, perché in questi dieci anni
molti di coloro che si ricordavano in un modo più chiaro la vita nella Germania
dell'Est erano morti. Anche se, dieci anni ancora più tardi, nel 2009, il
Washington Post affermava: “Gli occidentali [di Berlino] dicono che non ne
possono più della tendenza dei loro omologhi orientali di essere fissati con la
nostalgia dei tempi comunisti.”
E'
stato nel periodo dopo la riunificazione che e' nato un nuovo proverbio russo
ed europeo orientale: “Tutto quello che i comunisti hanno detto sul comunismo
e' una bugia, ma tutto quello che hanno detto sul capitalismo si e' rivelato
vero.”
Si
deve anche notare che la divisione della Germania in due stati nel 1949 – dando
inizio a 40 anni di Guerra Fredda – e' stata una decisione americana e non
sovietica.
2)
Durante gli anni '50, gli americani promotori della guerra fredda nella
Germania Occidentale hanno dato il via ad una cruda campagna di sabotaggio e di
sovversione contro la Germania Orientale con l'obbiettivo di scompaginare
l'assetto economico ed amministrativo del paese. La CIA ed altri servizi USA di
intelligence e militari avevano reclutato, equipaggiato, addestrato e
finanziato gruppi di attivisti tedeschi ed individui, dell'ovest e dell'est,
per compiere azioni nello spettro tra la delinquenza giovanile fino al
terrorismo. Qualsiasi cosa che rendesse la vita difficile per il popolo della
Germania Orientale e indebolisse il suo supporto al governo. Qualsiasi cosa
facesse sembrare i “commies” come dei cattivi.
E'
stato un progetto notevole. Gli Stati Uniti e i loro agenti usarono degli
esplosivi, incendi dolosi, cortocircuiti ed altri metodi per danneggiare
centrali elettriche, cantieri navali, canali, banchine, edifici pubblici,
distributori di benzina, trasporti pubblici, ponti etc. Deragliarono dei treni
commerciali provocando il ferimento grave di lavoratori. Incendiarono 12
autovetture sopra un treno commerciale e
distrussero i tubi ad aria compressa (i freni) di altri. Usarono degli
acidi per danneggiare macchinari vitali di stabilimenti industriali. Misero
della sabbia nelle turbine di un stabilimento portandolo all'arresto.
Applicarono il fuoco ad una fabbrica per la produzione di mattonelle.
Promossero dei rallentamenti nella produzione industriale. Uccisero 7.000
mucche in una cooperativa agricola avvelenandole. Aggiunsero dei detersivi nel
latte in polvere destinato alle scuole della Germania Orientale. Venero trovati
in possesso al tempo del loro arresto, di una grande quantità del veleno
cantharidin con il quale progettavano di produrre delle sigarette per uccidere
personaggi di primo piano della Germania Orientale. Causarono l'esplosione di
bombe maleodoranti per interrompere incontri politici. Cercarono di sabotare il
Festival Internazionale della Gioventù a Berlino Est mandando degli inviti
contraffatti, promesse fasulle di vitto e alloggio gratis, notizie false di
cancellazioni, etc. Effettuarono attacchi contro i partecipanti con degli
esplosivi, bombe incendiarie e materiale per la foratura dei pneumatici.
Falsificarono e distribuirono larghe quantità di biglietti per le razioni di
cibo per causare confusione, carenze e risentimento. Mandarono delle false
notifiche di imposte come anche altre direttive e documenti governativi per
favorire la disorganizzazione e l'inefficienza nell'industria e nelle
organizzazioni sindacali... Tutto questo e molto altro ancora.
Il
centro Woodrow Wilson International Center for Scholars, a Washington, DC, di
fede conservatrice e promotore della guerra fredda, in un suo Progetto di
Lavoro, il Cold War International History Project Working Papers (#58, p.9)
enuncia: “La frontiera aperta a Berlino aveva esposto la GDR [Germania Est]
allo spionaggio massivo e alla sovversione e, come mostrano i due documenti
nell'appendice, la sua chiusura ha dato allo stato comunista maggiore
sicurezza.”
Durante
gli anni '50, la Germania Orientale e l'Unione Sovietica hanno ripetutamente
sporto dei reclami agli ex alleati dei Sovietici in Occidente e alle Nazioni
Unite riguardo specifiche attività di sabotaggio e di spionaggio chiedendo la
chiusura degli uffici nella Germania Occidentale che ritenevano responsabili, e
per i quali avevano fornito nomi e indirizzi. I loro reclami sono caduti nel
vuoto. Inevitabilmente la Germania Orientale ha cominciato a restringere
l'ingresso nel paese dall'ovest, cosa che eventualmente portò al famigerato
muro. Ad ogni modo, anche dopo la sua costruzione c'era stato un regolare,
benché limitato, movimento legale di immigrazione dall'est verso l'ovest. Nel
1984, per esempio, la Germania Orientale permise a 40,000 persone di partire.
Nel 1985, giornali della Germania Orientale hanno asserito che più di 20,000 ex
cittadini che si erano stabiliti nell'Ovest volevano rimpatriare dopo essere
stati disillusi dal sistema capitalistico. Il governo della Germania
Occidentale dichiarò che 14.300 tedeschi dell'est erano tornati indietro
durante i 10 anni precedenti.
Non
dimentichiamo inoltre che mentre la Germania Orientale si era completamente
denazificata, nella Germania Occidentale, per più di un decennio dopo la
guerra,le più alte cariche governative nei rami dell'esecutivo, legislativo e
giuridico contenevano numerosi ex ed “ex” nazisti.
Infine,
va ricordato, che l'Europa Orientale divenne comunista perché Hitler, con
l'approvazione dell'Occidente, l'ha usata come corridoio per raggiungere
l'Unione Sovietica e spazzare via il Bolscevismo per sempre, e che i russi
nelle due Guerre Mondiali, persero circa 40 milioni di persone avendo
l'Occidente usato questo corridoio per invadere la Russia. Non dovrebbe quindi
destare sorpresa il fatto che l'Unione Sovietica volesse chiudere questo
corridoio.
Per
un'addizionale e molto interessante veduta dell'anniversario del Muro di
Berlino, si può leggere l'articolo “Humpty Dumpty and the Fall of Berlin’s
Wall” di Victor Grossman. Grossman (cognome originario Steve Wechsler) era
fuggito dal US Army in Germania sotto la pressione delle minacce dell'era
McCarthy e poi e' diventato un giornalista nella Repubblica Democratica Tedesca
(Orientale). Vive ancora a Berlino e manda con le sue mail il suo “Berlin
Bulletin” sugli sviluppi tedeschi su base irregolare. Si può abbonare a
wechsler_grossman@yahoo.de. La sua autobiografia: “Crossing the River: a Memoir
of the American Left, the Cold War and Life in East Germany” (NdT –
Attraversando il Fiume: un Memoriale sulla Sinistra Americana, la Guerra Fredda
e la Vita nella Germania Orientale) e' stato pubblicato da University of
Massachusetts Press. Sostiene di essere l'unica persona al mondo con dei
diplomi sia da Harvard University e da Karl Marx University in Leipzig.
William
Blum
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