lunedì 26 gennaio 2015

TSIPRAS CHI ?


Uno spettro si aggira per l’ Europa, è lo spettro di Tsipras e della sua creatura Syriza.
La schiacciante e, purtroppo non completa, vittoria nelle elezioni greche, anche se, ampiamente annunciata e, da molti temuta, ha dato vita, gambe e visibilità a qualcosa che, finora, in Europa sembrava assimilabile come credibilità all’Araba fenice.
Anche nella moderne democrazie post-ideologiche, le idee e le aspirazioni socialiste, comuniste, ambientaliste e progressiste se portate avanti con coerenza, senza appesantimenti ideologici che attengono, ormai, più a un romantico sentimento fuori tempo o, peggio, con scelte di compromessi al ribasso, pur di “governare”, hanno dimostrato che “SI PUO’ FARE”.
Si può vincere senza essere populisti, senza essere xenofobi, senza svilire o sminuire la propria identità ideologica,  senza essere necessariamente  oltre, come si ama tanto affermare da un po’ di tempo.
Si può, se si è chiaramente schierati , si può se si uniscono le proprie idee le proprie forze a quelle degli altri senza protagonismi o bizantinismi spesso più deleteri che incomprensibili.
Nella scorsa primavera quando convintamente si raccoglievano le firme per la presentazione della lista “L’Altra Europa con Tsipras”, non posso dimenticare i sorrisetti di compatimento, gli sfottò “Tsipras chi?, l’indifferenza e la malcelata sopportazione per quella scelta, anche all’interno di forze  che avrebbero dovuto sostenerla.
La gioia per il raggiungimento del quorum, subito fatta rientrare per la scelta devastante e incomprensibile della Spinelli che spezzava un insperato e benaugurante equilibrio nell’assegnazione dei seggi, seguita, subito dopo, dalla fuoriuscita dei parlamentari di Sel in direzione PD sponda renziana, in aperta polemica con la scelta di appoggiare la lista, aveva , comunque, riscaldato i cuori quel tanto che basta per credere che si poteva continuare a lavorare. Ora la vittoria di Tsipras nel suo paese ci conferma che questa è stata ed è la strada giusta.


E ce lo confermano anche i subitanei e numerosi tentativi di salire sul carro del vincitore, nel solco della più classica tradizione italica (Migliore docet) e, come ce lo confermano anche i tentativi di inficiare la credibilità e la vera sostanza della vittoria stigmatizzando l’alleanza con l’unica forza anti Troika che abbia espresso la volontà di condividere e appoggiare il neo governo. Tutti a dire:” Hai visto anche lui …” spacciandosi tutti per raffinati conoscitori e profondi analisti delle dinamiche politiche greche. Avrebbero preferito che si vanificasse la vittoria con l’impossibilità di formare un governo tradendo così le speranze dei tanti che in questo progetto hanno creduto?
Credo che abbia prevalso la volontà di previlegiare l’interesse collettivo  rispetto quello di bottega e propagandistico, e credo sappiano benissimo di correre dei seri rischi in termini di credibilità e fiducia se tale scelta dovesse risultare solo opportunistica.
Detto questo e ritornando a noi non posso qui dimenticare che siamo in Italia e non in Grecia, che Vendola non è Tsipras, che Ferrero non è Tsipras e, tantomeno, possono esserlo Civati &co. con tutto il rispetto e la stima che si possa avere nei loro confronti.
Puntare su questi nomi e delegare loro la costruzione e l’architettura della Syriza italiana, vuol dire votarla ad una difficile se non impossibile gestazione con ottime possibilità di provocare rotture e/o parti prematuri deboli e cagionevoli.
Troppi i tentativi e le incertezze del passato, troppe le strategie “pro domo sua”, troppi per alcuni i compromessi e le lungaggini nel prendere posizione, troppa l’ incapacità di arrivare e parlare alla maggioranza che non frequenta il lessico politico, troppo il bearsi dell’adorazione e della claque del proprio ristretto circolo di fedelissimi.
Si parla di contenitore delle varie anime della sinistra e non un partito e, in questa prima fase, non mi sembra una cattiva idea a patto che questi mesi necessari per dare corpo e sostanza e riempire di contenuti il progetto siano utilizzati per allargarlo alla ricerca di potenzialità nuove e che, non diventi  un percorso  riservato all’elite e all’intellighenzia politica o uno spartirsi incarichi e poltrone per diritto acquisito o proporzionalità .

Lavoriamo per creare il terreno idoneo affinchè possa, anche in Italia, nascere una speranza nuova, una sinistra capace di stare insieme e rappresentare unitariamente quei valori e quelle idee che fanno di un manipolo di sognatori un movimento e un popolo in marcia. 
Lo Tsipras nostrano se c’è arriverà!

Ad maiora

MIZIOI

giovedì 22 gennaio 2015

MA PARLA COME MANGI


L’altra sera nel confronto televisivo tra D’Alema e Marine Le Pen, improvvisamente mi è apparso chiaro uno dei motivi del successo mediatico della francese e dei suoi simili e, invece, lo scarso appeal della cosiddetta sinistra italiana. Cosa che era già abbastanza chiara nel corso degli ultimi anni con i successi, altrettanto inspiegabili altrimenti, dei vari Berlusconi, Grillo, Renzi e Salvini. Questi hanno tutti come tratto comune, pur partendo da differenti punti di vista, una capacità comunicativa che a sinistra si è persa da tempo.
Pensiamo alla forbita e affabulatoria dialettica vendoliana che tanto aveva affascinato una parte dell’elettorato di sinistra evocando narrazioni e immagini che attenevano più allo spirito poetico e sognante che all’azione politica.
Pur nella bellezza costruttiva del pensiero, la sua percezione e la sua decodifica era limitata a chi avesse gli strumenti culturali per farlo, rendendo quasi impossibile la comprensione all’elettore medio che dedica (nella migliore delle ipotesi) alla politica qualche sguardo distratto ai talk show e ancor meno alla carta stampata.
Dello stesso taglio o addirittura peggio, la comunicazione adottata dai leader, o presunti tali, del variegato e rissoso mondo  della sinistra italiana.
Lo sbiadito Ferrero non è certo uno che buca lo schermo e, pur, nella validità di alcune sue affermazioni risulta inadeguato persino per i suoi più fedeli sostenitori.
Ancor meno dotati di capacità comunicativa i vari Ingroia, Rizzo, Diliberto ecc. ottimi personaggi buoni per convegni e tavole rotonde ma mancanti di quelle qualità che fanno di un politico un leader.
Nelle analisi che si fanno non mancano accenni autocritici riguardanti l’incapacità comunicativa, ma poi, nell’elaborazione pratica, si ritorna a privilegiare l’aspetto autocelebrativo delle proprie convinzioni, rispetto a come queste, invece, arrivano all’ascoltatore.
Facendo l’esempio iniziale è vero che, considerando D’Alema di sinistra, ho forse fatto una forzatura, ma la scuola di formazione politico/culturale è comunque comune, e si è visto come la francese pur  usando in maniera ripetitiva gli stessi usurati ragionamenti, apparisse più diretta e sicura nel trasmettere il proprio messaggio risultando chiara senza bisogno di processi interpretativi, rispetto all’ interlocutore che, anche nella  postura, comunicava indifferenza e apparente strafottenza.
Il non schierato a prescindere in quest’epoca di deboli ideali e di ancor più deboli leader che si trovasse ad assistere a tale confronto, prima ancora di valutare le cose dette, sarebbe colpito dal come vengono dette, indirizzando le simpatie a chi presta attenzione alla sua capacità di capire rispetto a chi, pur con articolati ragionamenti, risulta fumoso e di scarsa comprensione.
Ora la sinistra deve decidere cosa vuol fare. Vuol rimanere quel laboratorio e fucina  di idee e progetti (troppo spesso inadeguati) autocelebrativi e che affascinano solo chi è già conquistato, limitandosi ad un ruolo di testimonianza o, peggio, di vassallaggio nei confronti  del più forte (PD)? O si vuole che ritorni ad essere quel tessuto connettivo che interpreta e fa da collante tra il disagio collettivo ed un progetto di riscatto che sia alternativo all’attuale assetto sociale?
Di fronte all’offensiva di destra e/o protestataria e/o qualunquista, alla distruzione dello stato sociale e della democrazia del governo Renzi-Berlusconi, la sinistra sembra voler riscoprire il valore dell’unità (almeno a parole) Si mettono in campo varie proposte: l’Altra Europa con Tsipras è ripartita con una sua iniziativa politica nella due giorni bolognese, Sel si ritrova dal 23 al 25 gennaio alla conferenza “Human Factor lab”, che già nel nome evoca scenari elitari, altri stanno ricostituendo l’unità partendo dalla ricostruzione  del PCI.
Bene, rispetto questo fermento, qual è la rispondenza nella società e tra i lavoratori? Ve lo dico io, prossima allo zero!
Si stanno ripercorrendo gli antichi sentieri dell’ incomunicabilità tra le varie anime incapaci, persino, di trovare una base comune tra simili, figuriamoci riuscire ad essere rappresentativi nella società.
Ricordiamoci che l’antirenzismo, speculare all’antiberlusconismo, non è sufficiente per coagulare consensi. C’è chi quel ruolo lo interpreta meglio, in maniera più efficace e soprattutto più comprensibile.
Qualcuno adesso dirà: “Ma, allora che dobbiamo diventare populisti e qualunquisti anche noi?” Assolutamente no, ma neanche pensare che basti autoconsiderarsi i migliori e autocelebrarsi nei rari momenti di visibilità. La sinistra ha un ruolo storico ben preciso e da quello bisogna ripartire, senza infingimenti ,senza tentennamenti e senza astruse alchimie dialettiche o politiche.
Anche papa Francesco ha capito che la chiarezza nella comunicazione è fondamentale dalle nostre parti invece:
 “ Vivremo Human Factor, che si terrà a Milano dal 23 al 25 gennaio, non come luogo di annuncio ma come inizio di una pratica, cominciamo con una varietà di interlocutori e di possibilità di mettere in dialogo protagonisti differenti. Ci prendiamo il lusso per tre giorni di vivere di stimoli forti. Human factor è l'inizio di un cambiamento di SEL, non è solo l'intenzione di mettere a disposizione la nostra comunità politica e le nostre energie in vista di un'ora X, che è la fondazione di un nuovo partito. Siamo dentro una scena politica che registra cambiamenti forti e siamo pronti con umiltà e passione e fare la nostra parte.”
Nichi Vendola
I miei figli, studenti universitari, hanno dovuto rileggerla  per capire cosa volesse dire, pensate che le masse, cui ci dovremmo rivolgere, abbiano voglia e tempo di leggere più volte una frase per capirne il senso?
Un passo indietro tutti, ricominciamo insieme dal basso, scopriamo nuovi linguaggi, si lasci spazio a potenzialità nuove, ritorniamo anche a riscoprire il valore di sporcarsi di fango, di polvere e di prendere anche  schiaffi (speriamo solo metaforici) ma stando tra la gente sempre!

Ad maiora

MIZIO

venerdì 16 gennaio 2015

OSTAGGI DEL NEOLIBERISMO

NEOLIBERISMO

Il 5 dicembre nel suo messaggio televisivo Berlusconi ha detto: “Vogliamo cancellare il complicatissimo sistema attuale di aliquote differenti, di deduzioni, di detrazioni e sostituirlo con un’aliquota unica del 20%”, cioè la Flat Tax, “la tassazione piatta che avevo già proposto con il professor Martino nel 1994 ma che mai ci era stato permesso, dagli alleati e dall’opposizione, di realizzare. Da allora 38 paesi l’hanno adottata tutti con ottimi risultati”, (Ansa).

Dal PD è giunta immediata la risposta: ci potrebbero essere problemi con i conti pubblici, Berlusconi non indica le coperture. Si vede che dalle parti di Largo del Nazzareno ignorano la curva a campana di Laffer, che con precisione mostra come le entrate fiscali, anziché diminuire con una riduzione della tassazione, aumenteranno. La logica è semplice: è vero, la riduzione delle tasse lascerà tanti più soldi nelle tasche di chi più né ha; per esser chiari: si tagliano le tasse a ricchi; ma niente paura: i soldi che i ricchi non pagheranno al fisco si tradurranno in nuovi investimenti e quindi in nuovi posti di lavoro, così il PIL crescerà e le entrate fiscali aumenteranno.

La teoria che sottostà alla curva di Laffer può essere considerata il volto buono dei neoliberisti. Più cruda l’altra corrente di pensiero: la teoria dell’ “affamare la bestia”. Lo Stato, cioè la bestia, è il problema non la soluzione, per dirla con Reagan. In questo senso l’obiettivo della riduzione delle tasse ai ricchi non è quello di aumentare la base imponibile ed accrescere le entrate, ma quello appunto di ridurla, al fine di affare lo Stato, privandolo di quelle risorse necessarie a finanziare lo stato sociale, l’assistenza, l’istruzione e la sanità pubblica, tutte istituzioni che, per l’ortodossia neoliberista, distorcono le leggi di mercato, soffocano gli animal spirits e premiano i fannulloni. E’ chiaro che la logica è quella del darwinismo sociale e di un calvinismo deteriore, una visione totalmente ideologica propria dei fondamentalisti di mercato. Una idea che ha trovato diritto di cittadinanza, e non solo, nella destra italiana, basti pensare alla logica dei tagli lineari alla spesa pubblica. E forse trova ancora diritto di cittadinanza, visto che la Gelmini continua a presentare Forza Italia come il partito anti-tasse3.

Ma ritorniamo alla Flat Tax: i tagli fiscali sulle aliquote più alte di reddito, dunque, si traducono in nuovi investimenti e nuovi posti di lavoro. E tanto più numerosi saranno i posti di lavoro quanto più incisiva sarà l’azione del governo Renzi nella riforma del mercato del lavoro (il Jobs Act). Via il vecchiume e il ginepraio di norme dell’ormai datato Statuto dei Lavoratori: anche i diritti invecchiano; e via quella selva di differenti aliquote che infesta il nostro fisco. Alla luce di ciò, non si capisce perchè il PD non faccia propria la proposta di Berlusconi: Flat Tax e Jobs Act è il binomio perfetto.

E’ francamente avvilente dover prendere atto di quanto sia ancora forte l’influenza del neoliberismo in Italia. La proposta di Berlusconi di una Flat Tax, infatti, è propria dell’ortodossia neoliberista, è anzi uno dei pilastri fondamentali su cui, da Reagan in poi, si è retto questo paradigma.

I risultati? Una catastrofe. La riduzione della tassazione sulla fasce più alte di reddito (persone fisiche e aziende) è all’origine dell’esplosione del debito americano ed è una delle cause di quelle disuguaglianze sociali, economiche e politiche che stanno corrodendo dall’interno le democrazie occidentali. Le letteratura sul punto è copiosa e credo che non vi sia più alcuno studioso serio che sostenga la validità di una tale soluzione. Inoltre, per quando riguarda l’Italia, è del tutto inutile perder tempo a dimostrare quanto un Flat Tax possa essere dannosa.

E perchè è inutile? Perchè in Italia c’è una Carta costituzionale che vieta una tassazione che si ispiri ad un principio proporzionale e bisogna esser gradi agli onorevoli del gruppo parlamentare della Democrazia Cristiana Luigi Meda, Piero Malvestiti, Amintore Fanfani, Giuseppe Lazzati, Laura Bianchini, Luigi Balduzzi, Gesumino Mastino, Francesco Murgia, Alessandro Turco, Antonio Ferrarese che nella seduta del 15 aprile del 1947 dell’Assemblea Costituente firmarono un emendamento nel quale era scritto: “I tributi diretti saranno applicati con criterio di progressività”; e bisogna esser grati all’onorevole Scoca (DC) che il 19 maggio successivo proposte all’Assemblea un articolo ispirato allo stesso principio: “tutti debbono concorrere alle spese pubbliche, in modo che il carico tributario individuale risulti applicato con criterio di progressività”.

Scoca il 23 maggio illustra in Assemblea il suo emendamento e ricorda come nello Statuto albertino, vi fossero delle disposizioni in materia fiscale, in particolare l’art. 25 “il quale diceva: «Essi (cioè i cittadini) contribuiscono indistintamente, nella proporzione dei loro averi, ai carichi dello Stato». Questa norma enunciava il principio della generalità e dell’uniformità dell’imposta, e lo collegava con la regola della proporzionalità dell’imposta stessa. Trattasi di una regola conforme alle idee dominanti nel periodo in cui lo Statuto albertino fu emanato”. Può essere utile precisare che per idee dominanti bisogna intendere il liberismo puro, o laissez-faire, vale a dire il padre del neoliberismo.

“In questo modo – continua Scosa – la distribuzione del carico tributario avviene non già in senso progressivo e neppure in misura proporzionale, ma in senso regressivo. Il che costituisce una grave ingiustizia sociale, che va eliminata, con una meditata e seria riforma tributaria”.

Quel principio è ora al sicuro nella “rocca della Costituzione”, per usare le parole di Meuccio Ruini, ed è l’art. 53: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Per inciso, vale la pena far notare che l’articolo è inserito nella parte prima della Costituzione, il che significa che non è modificabile dal legislatore ordinario. Dunque, una tassazione ispirata ad un principio proporzionale in Italia, per fortuna, è incostituzionale.

Si diceva in precedenza che la Flat Tax è solo uno dei pilastri su cui è costruito il paradigma neoliberista. L’altro pilastro consiste nello spazzar via tutta quella serie di provvedimenti e diritti con i quali si tentava di sottrarre la determinazione del prezzo del fattore lavoro (il salario) al libero gioco della domanda e dell’offerta, vale a dire fare in modo che il lavoro non fosse più considerato una merce e lo si è fatto fissando “protezioni e diritti alle condizioni del lavoratore stesso” e garantendo ai lavoratori una agguerrita protezione sindacale.

In questo modo si è riusciti a “vincere l’insicurezza (sociale) assicurando la protezione (sociale) di tutti o quasi tutti i membri di una società moderna, per farne degli individui che godono di tutti i diritti”. Quando si sono eliminate queste tutele e questi diritti, perchè incompatibili con il paradigma neoliberista, si è “deliberatamente ridotta la quota dei lavoratori socialmente definiti sicuri sul totale degli occupati”.

Eliminate queste paratie a protezione del lavoro, il mercato, produttore di disuguaglianze, ha potuto fare il proprio lavoro: “tra la metà degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta la disuguaglianza è aumentata in venti dei ventuno paesi membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, per lo più a causa di un aumento della disuguaglianza nella retribuzione del lavoro”. Il che significa che “sono i cambiamenti degli istituti che regolano il mercato del lavoro e le norme che promuovono una redistribuzione della ricchezza la causa principale della sperequazione sociale”. Se a ciò si aggiunge l’effetto regressivo di una tassazione di tipo proporzionale si ottiene il quadro preciso delle cause della crisi economica: mercificazione del lavoro e sperequazione sociale via tassazione proporzionale.

Il lavoro, dunque, non può e non deve essere considerato una merce, altrimenti si producono quelle disuguaglianze sociali ed economiche, in grado di fagocitare il mercato e la democrazia. E qui i “fondamentalisti del mercato” storceranno il naso: solo le leggi del mercato, dando il giusto prezzo ai fattori della produzione, possono garantire la perfetta allocazione delle risorse, scarse per definizione. C’è di più, per i fondamentalisti di mercato le disuguaglianze non sono affatto un male, ma un stimolo costante a migliorarsi, sono anzi il motore del progresso, ciò che garantisce la mobilità sociale: chi è in basso sognerà la vita di chi è in alto e dando il meglio di sé con il lavoro riuscirà a vivere la vita che sogna. Sono due punti importanti che è necessario confutare.

Il primo: il mercato dà sempre il prezzo giusto ai fattori della produzione, compreso il lavoro. E’ falso. In linea di principio si può dire che il lavoratore ideale per qualsiasi datore di lavoro è colui che fornisce il proprio braccio o la propria mente, con entusiasmo e dedizione, senza nulla chiedere in cambio. Il lavoratore ideale pertanto è colui che lavora gratis.

Il secondo: la disuguaglianza è stimolo costante al duro lavoro e al miglioramento. Nutre le aspirazione e le ambizioni e, a livello aggregato, è fattore di progresso. E’ falso. Chi sta in basso resterà in basso. Le disuguaglianze si ossificano e le società si frantumano in classi chiuse. Per fare un esempio: se solo l’accesso alle prestigiose università private dell’Ivy League in America è garanzia di alti salari, chi è povero ne è escluso, a prescindere dal talento, dalla ambizione e dal duro lavoro. Il che si traduce in una perdita netta per la società che si priva di un numero immenso di ingegni. Altro che progresso. C’è di più. Come ha dimostrato Piketty, al quale va inoltre il merito di aver provato, dati alla mano, come il mercato produca disuguaglianza, nelle fasce più alte al lavoro si sostituisce la rendita: ed il tasso di rendimento medio del capitale è superiore (r>g in un rapporto 5 a 1) rispetto a quanto rende il lavoro: “La concorrenza pura e perfetta non potrà recare alcun cambiamento alla disuguaglianza r>g, la quale non deriva in alcun modo da un’“imperfezione” del mercato o della concorrenza, se mai dal contrario”. Il che significa che per quanto possa lavorare senza sosta, chi sta in basso non riuscirà mai a raggiungere i rendimenti di chi vive della rendita del proprio capitale. Per inciso, le stratificazioni sociali si ossificano anche a livello politico con la nascita della dinastie, basti pensare ai Bush e ai Clinton negli Stati Uniti, che, dopo il “miracolo” di Obama, ritorneranno probabilmente a sfidarsi alle prossime elezioni presidenziali.

E’ solo grazie all’intervento di fattori extra-mercato come gli investimenti statali (scuola pubblica, sanità assistenza, ma anche il finanziamento della ricerca di base, anche non redditizzi nel breve periodo), il sindacato (il moderno tribuno della plebe, come lo definisce Luciano Pellicani) e i partiti progressisti che si è potuto alterare, a vantaggio dei più, le leggi di mercato ed impedire che le società aperte si trasformassero in oligarchie.

La questione ovviamente non è solo economica, ma anche politica ed istituzionale. In che senso? “Chi non lavora non magia”, le parole sono di Stalin. Ora, chi non mangia patisce la fame, quando la maggioranza dei cittadini patisce la fame accade un fenomeno particolare, già successo in passato: il cittadino è disposto a spogliarsi di tutte le sue libertà e a votarsi a chiunque gli prometta il pane, è così che il popolo diventa plebe e il cittadino un suddito ed è così che di solito nascono le tirannidi, siano esse di uno o pochi o di una maggioranza (oclocrazia).

Questa è la via che “da sinistra” conduce alla società chiusa: sono i poveri che invocano il tiranno. Ma vi può essere anche una via che “da destra” conduce ad una società che si va via via chiudendo: i vincitori della grande trasformazione (e i loro discendenti) tendono a chiudere l’accesso alla cittadella del comando al resto della popolazione: la proprietà sola – scrive Constant – rende gli uomini capaci di esercitare i diritti politici. Solo i proprietari possono essere cittadini. Ciò si rende necessario, continua Constant, perchè: “quando i non-proprietari hanno dei diritti politici, accade una di queste tre cose: o non traggono impulso che da se stessi e allora distruggono la società, o lo traggono dall’uomo o dagli uomini al potere e sono strumento di tirannide, o lo traggono da coloro che aspirano al potere e sono strumenti di una fazione”.

Pertanto, se è vero che il mercato è l’unico strumento in grado di produrre ricchezze delle meraviglie, è altrettanto vero che esso produce disuguaglianze e questioni sociali. Piketty è dello stesso avviso e lo scrive a chiare lettere: “il progresso dinamico di un’economia di mercato e di proprietà privata, se abbandonato a se stesso, alimenta importanti fattori di convergenza, legati in particolare alla diffusione delle conoscenze e delle competenze, ma anche potenti fattori di divergenza, potenzialmente minacciosi per la nostre società democratiche e per i valori di giustizia sociale su cui essi si fondano”.

Dunque, non pare eccessivo dire che è il liberismo, che fa del laissez-faire l’unica politica economica possibile, a trasformare un società aperta in una società chiusa.

Questa lettura, l’idea cioè che è il liberismo che conduce alla dittatura o ad una ingiusta divisioni in classi della società, è uno dei principi ispiratori di tutta la nostra Costituzione repubblicana, è presente nella parole (tra gli altri) di La Pira, di Dossetti, di Lelio Basso, di Fanfani, di Moro, di Togliatti e di Paolo Emilio Taviani che il 7 maggio del 1947, rispondendo alle critiche dei qualunquisti Maffioli e Colitto, secondo i quali il Titolo III sarebbe l’espressione di una concezione statolatrica, soffocatrice della persona umana, dice: “noi riteniamo che l’ordinamento sociale dell’economia abbia proprio il risultato opposto a quello che temono i nostalgici o i maniaci del liberalismo ad ogni costo; solo un ordinamento sociale, infatti, può evitare lo slittamento verso lo Stato totalitario, cui fatalmente finisce per condurre il non regolato esercizio delle libertà individuali. (…) non è il liberalismo puro, non l’accettazione supina del cosiddetto ordine naturale e economico che possono garantire la democrazia. Essi porterebbero fatalmente al totalitarismo”. Solo un ordinamento economico reso compatibile con le esigenze sociali, dunque, prevenire il sorgere della tirannide. Di qui quello che è il vero capolavoro della nostra Costituzione, vale a dire la costituzionalizzazione dei diritti sociali con una duplice funzione: estendere concretamente ai più quelle libertà liberali formali, sancite dalla costituzioni post-1789; bilanciare quelle libertà (proprietà privata e libera impresa) che, se lasciate senza briglia, rischiano di tradursi in monopolio e latifondo. Il fine è quello di risolvere la questione sociale che naturalmente il mercato produce.

In breve: una questione sociale non risolta genera il potere assoluto, il quale tende a soffocare ogni pluralismo politico ed economico. Il che significa che senza giustizia sociale né la democrazia né il mercato possono funzionare a lungo. Di qui la necessità di costituzionalizzare quei diritti sociali senza i quali né i diritti civili né quelli politici possono perdurare.

Nunziante Mastrolia

https://fondazionenenni.wordpress.com

venerdì 9 gennaio 2015

TERZANI SCRIVE A ORIANA FALLACI


IL SULTANO E S. FRANCESCO


Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri gia' grande e tu proponesti di scambiarci delle "Lettere da due mondi diversi": io dalla Cina dell'immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall'America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma e' in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l'impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo.
Ti scrivo anche - e pubblicamente per questo - per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. La' morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana - la ragione; il meglio del cuore - la compassione.
Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. "Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia", scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all'indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui uso' di quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dell'umanita', un'opera che sembra essere ancora di un'inquietante attualita'.
Pensare quel che pensi e scriverlo e' un tuo diritto. Il problema e' pero' che, grazie alla tua notorieta', la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta.
Il nostro di ora e' un momento di straordinaria importanza. L'orrore indicibile e' appena cominciato, ma e' ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. E un momento anche di enorme responsabilita' perche' certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti piu' bassi, ad aizzare la bestia dell'odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecita' delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l'uccidere. "Conquistare le passioni mi pare di gran lunga piu' difficile che conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me", scriveva nel 1925 quella bell'anima di Gandhi. Ed aggiungeva: "Finche' l'uomo non si mettera' di sua volonta' all'ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sara' per lui alcuna salvezza".
E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non e' nella tua rabbia accalorata, ne' nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela piu' accettabile, "Liberta' duratura".
O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo e' mondo non c'e' stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sara' nemmeno questa.
Quel che ci sta succedendo e' nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. E una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d'aver davanti prima dell'11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilita' di nulla, tanto meno all'inevitabilita' della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta.
Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre piu' tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor piu' determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor piu' terribile violenza - ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguira' necessariamente una loro ancora piu' orribile e poi un'altra nostra e cosi' via.
Perche' non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari "intelligente", di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui.
Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologiche - Stati Uniti in testa - d'impegnarsi solennemente con tutta l'umanita' a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilita'. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale - di per se' un'arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l'orrore indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta. In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates bis Mozart (L'arte di non essere governati: l'etica politica da Socrate a Mozart). L'autore e' Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all'Universita' di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff e' che la politica, nella sua espressione piu' nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici piu' profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all'uomo la necessita' di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civilta'.
Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino - un marchio che e' anche una protezione -, lo condanna all'esilio dove quello fonda la prima citta'. La vendetta non e' degli uomini, spetta a Dio.
Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell'uomo occidentale perche' col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro e' servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilita' della violenza che non raggiunge mai il suo fine.
Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e cosi', attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore.
A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle "Tigri Tamil", votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di "Hamas" che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po' di pieta' sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull'isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l'Imperatore. I kamikaze mi interessano perche' vorrei capire che cosa li rende cosi' disposti a quell'innaturale atto che e' il suicidio e che cosa potrebbe fermarli.
Quelli di noi a cui i figli - fortunatamente - sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l'ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio.
Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perche' io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolvera' uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali.
Niente nella storia umana e' semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c'e' raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, e' il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell'evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L'attacco alle Torri Gemelle e' uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non e' l'atto di "una guerra di religione" degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non e' neppure "un attacco alla liberta' ed alla democrazia occidentale", come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell'Universita' di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse da' di questa storia una interpretazione completamente diversa. "Gli assassini suicidi dell'11 settembre non hanno attaccato l'America: hanno attaccato la politica estera americana", scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri - l'ultimo, Blowback, contraccolpo, uscito l'anno scorso (in Italia edito da Garzanti, ndr) ha del profetico - si tratterebbe appunto di un ennesimo "contraccolpo" al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell'Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l'elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi.
Il "contraccolpo" dell'attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall'installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l'Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell'Islam. Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana "a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico".
Cosi' si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati.
Esatta o meno che sia l'analisi di Chalmers Johnson, e' evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c'e', a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi "amici", qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa e' stata la trappola.
L'occasione per uscirne e' ora.
Perche' non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perche' non studiamo davvero, come avremmo potuto gia' fare da una ventina d'anni, tutte le possibili fonti alternative di energia?
Ci eviteremmo cosi' d'essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre piu' disastrosi "contraccolpi" che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta.
Magari salviamo cosi' anche l'Alaska che proprio un paio di mesi fa e' stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche - tutti lo sanno - sono fra i petrolieri.
A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull'Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese e' legato al fatto d'essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell'Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l'India e da li' nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall'Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli "orribili" talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si e' impegnata col Turkmenistan a costruire quell'oleodotto attraverso l'Afghanistan.
E dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessita' di proteggere la liberta' e la democrazia, l'imminente attacco contro l'Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti. E per questo che nell'America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell'industria petrolifera con quelli dell'industria bellica - combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington - finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all'interno del paese, in ragione dell'emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie liberta' che rendono l'America cosi' particolare.
Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l'aggettivo "codardi", usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, cosi' come la censura di certi programmi e l'allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni. L'aver diviso il mondo in maniera - mi pare - "talebana", fra "quelli che stanno con noi e quelli contro di noi", crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l'America ha gia' sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro.
Il tuo attacco, Oriana - anche a colpi di sputo - alle "cicale" ed agli intellettuali "del dubbio" va in quello stesso senso. Dubitare e' una funzione essenziale del pensiero; il dubbio e' il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste e' come volere togliere l'aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d'aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande.
In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace. Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo "ufficiale" della politica e dell'establishment mediatico, c'e' stata una disperante corsa alla ortodossia. E come se l'America ci mettesse gia' paura. Capita cosi' di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan e' un importante simbolo di quell'America che per due volte ci ha salvato. Ma non c'era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam?
Per i politici - me ne rendo conto - e' un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor piu' l'angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civilta' combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici.
Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente.
Ma questo ci impone anche grandi responsabilita' come quella, non facile, di andare dietro alla verita' e di dedicarci soprattutto "a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia", come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America.
Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che e' complicato. Ma non si puo' esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunita' di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi.
Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori? Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa e' l'Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l'arabo, oltre ai tanti che gia' studiano l'inglese e magari il giapponese?
Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente e', come capita da noi, console ad Adelaide in Australia.
Mi frulla in testa una frase di Toynbee: "Le opere di artisti e letterati hanno vita piu' lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno piu' in la' degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di piu' di tutti gli altri messi assieme".
Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per "gli altri", per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provo' una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufrago' e lui si salvo' a malapena. Ci provo' una seconda volta, ma si ammalo' prima di arrivare e torno' indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l'assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati ("vide il male ed il peccato"), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraverso' le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c'era ancora la Cnn - era il 1219 - perche' sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell'incontro. Certo fu particolarissimo perche', dopo una chiacchierata che probabilmente ando' avanti nella notte, al mattino il Sultano lascio' che San Francesco tornasse, incolume, all'accampamento dei crociati.
Mi diverte pensare che l'uno disse all'altro le sue ragioni, che San Francesco parlo' di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d'accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: "Ama il prossimo tuo come te stesso". Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressivita' e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia.
Ma oggi? Non fermarla puo' voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo all'orrore dell'olocausto atomico pose una bella domanda: "La sindrome da fine del mondo, l'alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l'uomo piu' umano?". A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere "No".
Ma non possiamo rinunciare alla speranza.
"Mi dica, che cosa spinge l'uomo alla guerra?", chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. "E possibile dirigere l'evoluzione psichica dell'uomo in modo che egli diventi piu' capace di resistere alla psicosi dell'odio e della distruzione?" Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c'era da sperare: l'influsso di due fattori - un atteggiamento piu' civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura - avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire.
Giusto in tempo la morte risparmio' a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale.
Non li risparmio' invece ad Einstein, che divenne pero' sempre piu' convinto della necessita' del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all'umanita' un ultimo appello per la sua sopravvivenza:
"Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto".
Per difendersi, Oriana, non c'e' bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c'e' bisogno d'ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni.
M'e' sempre piaciuta nei Jataka, le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha gia' i poteri della preveggenza, "vede" che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell'acqua ad affogare per salvare gli altri.
Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della liberta' di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell'incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocita' commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden?
"Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate", scrive in questi giorni dall'India agli americani, ovviamente a mo' di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose: una come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile dell'esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse si'.
L'immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del "nemico" da abbattere e' il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell'Afghanistan, ordina l'attacco alle Torri Gemelle; e' l'ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; e' il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo pero' accettare che per altri il "terrorista" possa essere l'uomo d'affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui e' piu' conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci piu' i campi per far crescere il riso, muoiono di fame?
Questo non e' relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, puo' esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sara' difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare.
I governi occidentali oggi sono uniti nell'essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti.
Molto meno convinti pero' sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio e' diffuso cosi' come e' diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra.
"Dateci qualcosa di piu' carino del capitalismo", diceva il cartello di un dimostrante in Germania.
"Un mondo giusto non e' mai NATO", c'era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Gia'. Un mondo "piu' giusto" e' forse quel che noi tutti, ora piu' che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalita' ed ispirato ad un po' piu' di moralita'.
La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perche' ora tornano comodi, e' solo l'ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi.
Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalita' internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese piu' reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato ne' il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia, ne' il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche. L'interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l'utilita' del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sara' presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i "lavoretti sporchi" di liquidare qua e la' nel mondo le persone che la Cia stessa mettera' sulla sua lista nera.
Eppure un giorno la politica dovra' ricongiungersi con l'etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze.
A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa citta' mi fa male e mi intristisce. Tutto e' cambiato, tutto e' involgarito. Ma la colpa non e' dell'Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una citta' bottegaia, prostituita al turismo! E successo dappertutto. Firenze era bella quando era piu' piccola e piu' povera. Ora e' un obbrobrio, ma non perche' i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perche' i filippini si riuniscono il giovedi' in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione.
E cosi' perche' anche Firenze s'e' "globalizzata", perche' non ha resistito all'assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato.
Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso e' scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch'io non mi ci ritrovo piu'.
Per questo sto, anch'io ritirato, in una sorta di baita nell'Himalaya indiana dinanzi alle piu' divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, li' maestose ed immobili, simbolo della piu' grande stabilita', eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo.
La natura e' una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto piu' grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono piu'. Guarda un filo d'erba al vento e sentiti come lui. Ti passera' anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace.
Perche' se quella non e' dentro di noi non sara' mai da nessuna parte. 

Tiziano Terzani

mercoledì 7 gennaio 2015

1977 OCCUPAZIONE TERRE A DECIMA MALAFEDE





La Cooperativa Agricoltura Nuova nasce nel 1977 per iniziativa di un gruppo di giovani disoccupati, braccianti e contadini con due obiettivi principali:
Creare occupazione in agricoltura
Impedire, la edificazione di un vasto comprensorio di elevato pregio ambientale.

"Gualtiero Alunni
Era il 1977, anche io giovane disoccupato, partecipai all'occupazione. Inizialmente è stata dura, alcuni rinunciarono, ma come me, non hanno mai smesso di appoggiare questa esperienza.
Due cose:
- Una positiva è la lotta comune contro la devastazione autostradale; - una negativa è la partecipazione alla cogestione con la dx e la coop 29 giugno della città dell'Altra Economia a Testaccio. E' passato molto tempo da quando occupammo con la bandiera rossa le terre di Decima, ma proprio per questo vi chiedo di rompere questa alleanza innaturale, pianificata da un accordo del PD con Alemanno."



SOLO IL SILENZIO




Ecco cosa fruttano vent'anni (almeno) di violenze ideologiche capital-liberiste. Oltre il disagio sociale (chiamarla povertà non è politically correct) provocato da una distribuzione della ricchezza a senso unico, hanno provocato uno svuotamento delle coscienze dove l' io egoistico ed egocentrico ha preso il posto della pietas e del rispetto, minimo comune denominatore di una società che voglia definirsi tale al di là delle differenze d' opinione. Il concetto della competizione e dell'affermazione innalzato a nuovo totem ideologico accanto ad una diffusa disattenzione alla preparazione civica, prima che culturale, ha provocato uno sgomitare parossistico teso all'esaltazione del sé auto celebrativo tipico della moderna società. Gli avvenimenti alla camera ardente del compianto Pino Daniele con foto rubate del corpo e immediatamente condivise sui social, insieme alla cacciata di D'Alema dallo stesso luogo, che avrebbe dovuto essere solo di doloroso rispetto, ne sono la fotografia. Chi mi conosce sa quanto poco apprezzi e quanto poco stimi l'ex compagno D'Alema, ma se fossi stato lì oggi mi sarei battuto per la sua libertà di rendete l'estremo saluto a Pino (tra l'altro invitato dalla famiglia, cui si è mancato di rispetto). La memoria non può che andare ad Almirante cui fu permesso di andare a rendere omaggio al grande nemico Berlinguer che, da vivo lo aveva combattuto e con il quale da perfetto antifascista, aveva sempre rifiutato di confrontarsi. Ci sono momenti nella vita di ognuno e collettiva in cui deve parlare solo il silenzio, anche se non andrà mai su un post.

MIZIO

lunedì 5 gennaio 2015

CIAO PINO

Pino Daniele è andato a raggiungere il suo amico Massimo. Da oggi Napule non è più mille colori, ma ne ha uno in meno. Che la terra ti sia lieve. Ciao Daniele