lunedì 27 agosto 2018

FORSE AVEVA RAGIONE ECO!

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Ho vissuto molte stagioni politiche complesse, comprese quelle, anche se molto giovane, del terrorismo nero e degli aspri scontri sociali, ma mai ho avvertito questa fastidiosa sensazione di impotente solitudine. Mai avevo visto i peggiori istinti prendere il sopravvento sul ragionamento e sul confronto anche se di livello non eccelso. Lo scontro dialettico, e non solo, col potere borghese pur nella sua asprezza, si poneva su un livello di qualità e profondità neanche paragonabile a quello attuale. Non so se ciò derivasse da un'errata e personale percezione del momento o, se veramente, tutto è cambiato troppo in fretta e non abbiamo più gli strumenti idonei per comprendere ciò che sta avvenendo.
La stagione berlusconiana con l'avvento e la supremazia dei messaggi delle sue televisioni ha avuto sicuramente la sua importanza. Il successivo avvento di internet, dei social, ha cambiato radicalmente la comunicazione che è diventata diretta, personalizzata non più mediata lasciando ognuno solo nella capacità o possibilità interpretativa.
Quando Eco attaccò i nuovi strumenti di comunicazione io non fui d'accordo col suo pensiero, considerando la sua una posizione snobistica ed elitaria contrapposta alle grandi potenzialità e libertà che i nuovi mezzi democraticamente mettevano a disposizione di tutti.
Oggi, forse, sarei un pochino più riflessivo nel considerare totalmente positiva la libertà concessa ad ognuno di trasformarsi facilmente e impunemente in veicolatore di false informazioni, di meschine interpretazioni che, se prese singolarmente possono anche far sorridere, quando diventano seriali e di massa aumentano a dismisura il potere di condizionamento orientando l'opinione e solleticando i peggiori istinti di quello che prima non era ancora un popolo e che adesso si è trasformato nella versione più volgare di ggente.
C'è chi, questo l'ha capito molto bene e molto prima di altri e, oggi ne rappresenta anche politicamente il frutto.
Ad maiora


MIZIO

martedì 21 agosto 2018

COMUNISTA? MA VA LA'...

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Qualcuno, anzi più di qualcuno si stupisce del fatto che ci siano persone, che ancora si dichiarano comuniste. E' vero che in genere questa riflessione la fa chi comunista non è mai stato, anzi, e quindi parte da una posizione preconcetta. Però la domanda è legittima e merita, se non una risposta, una riflessione. Riflessione che provo a fare ponendo un'altra domanda? Perchè oggi non ci si dovrebbe più dichiarare comunisti? Perchè ci sono state esperienze storiche che in nome del comunismo hanno avuto tratti dittatoriali e violenti? Giusto!
Forse perchè gli eredi, (autodefinitesi tali) di un grande partito comunista in Italia, oltre il nome hanno cambiato progressivamente anche politica rendendosi complici e artefici di quelle stesse politiche che anni prima si combattevano? Certamente vero! Qualcuno potrebbe forse affermare il contrario?
Forse perchè il comunismo ha sempre avuto un' intellighentia e, in generale, gran parte del mondo della cultura che simpatizzava e flirtava con esso (almeno in Italia) suscitando comprensibili invidie e frustranti complessi d'inferiorità?
Anche questa potrebbe essere una parte di spiegazione.
Però, al di là delle semplificazioni che tanto vanno per la maggiore in questo periodo di oscurantismo di coscienze, prima che politico, proverò a spiegare perchè alcuni, e nello specifico me stesso, si ritengono ancora comunisti e ne rivendicano con orgoglio l'appartenenza.
Ovviamente molto parte dall'ambiente di provenienza e da un habitat familiare e sociale idoneo alla confidenza con i termini e i relativi significati . Ma questo non sarebbe certo sufficiente, essendo il conflitto generazionale e familiare, uno dei primi segnali di indipendenza con la quasi naturale messa in discussione dei principi e delle idee genitoriali e soprattutto negli anni '70, quelli della mia adolescenza.
Essere comunisti è prima di tutto uno stato emotivo, non saprei come altro spiegarlo. E' un modo d'essere, è una sensibilità che fa soffrire sulla tua pelle le ingiustizie da chiunque subite, anche a centinaia di chilometri di distanza. E' un mettere e un mettersi continuamente in discussione, visto che l'essere comunisti ti obbliga a confrontarti costantemente con il mutare degli eventi, delle situazioni, delle problematiche. L' essere comunista (da non confondere con l'iscrizione fideistica a questo o quel partito) ti pone costantemente di fronte a domande cui si cerca sempre di dare le migliori risposte possibili. Che non sono, quasi mai, quelle più istintive e più semplici. Il comunista medio, in genere la domanda che si pone più spesso è: "dove ho sbagliato? Cosa non ho capito? Cosa non sono riuscito a fare?". Perchè l'aspirazione prima è sempre quella di riuscire a fare le cose al meglio. Ed è, questa la dannazione e al tempo stesso la fascinazione dell'essere comunista. Il doversi confrontare costantemente con la frustrazione di non essere riuscito, non solo a risolvere eventuali questioni, ma anche a farsi capire. E, conseguentemente a renderne conto alla propria coscienza.
So benissimo che per molti che si definiscono comunisti è più che sufficiente il definirsi tale e inalberare retoricamente simboli e slogan che ci riportano a miti e tempi migliori. Ma questo attiene alla nostalgia, al rimpianto tipico del "si stava meglio quando si stava peggio" e ad aspetti consolatori più che politicamente significativi.. Aspetti che rientrano sempre nell'ambito emozionale e sentimentale ma che non sono, da soli, quelli utili a definire o definirsi comunisti.
Molte volte, specialmente nel passato era comune mettere a confronto l'essere comunista con l'essere cattolico o, comunque con la religione per quel tanto di adesione fideistica che veniva richiesta a chi aderiva. Pur se le numerose scissioni, e divisioni che hanno attraversato i movimenti e i partiti comunisti hanno poi dimostrato, che non era proprio così, una certa similitudine è comunque, possibile applicarla.
Perchè, anche se molto divide i due mondi, in tanti, soprattutto chi si dedica ad attività caritatevoli e di solidarietà (pur nella differente visione e prospettiva) scatta la stessa molla emotiva e sentimentale. Solo che in un caso, quello del religioso, non fa scattare poi, lo step successivo, quello dell'indignazione e dell'adesione ad una teoria e prassi che ci porta a definirci comunisti, non ritenendo sufficiente il solo atto caritatevole. Lodevole quanto si vuole ma che non cambia significativamente i ruoli e i posti assegnati nel mondo.
Ovviamente molto altro ci sarebbe da dire e da scrivere sull'argomento ma spero che, queste poche righe e queste riflessioni aiutino qualcuno a chiarire, almeno in parte, il misterioso motivo per cui, nonostante tutto, ci siano ancora persone che si ostinano a definirsi comunisti rischiando sberleffi e pernacchie (e qualche volta anche qualcosa di più).
Ad maiora

MIZIO

lunedì 20 agosto 2018

La mancanza del “limite” e il dissolvimento del desiderio


Pubblichiamo un altro prezioso contributo del Dott. Maurizio Santopietro con un suo particolare punto di vista sull'evoluzione dei rapporti e la sessualità.


E’ profondo l’interesse, di grande parte della gente, per l’Amore, (nella manifestazione prevalentemente sessuale o di coppia), per la Salute (concepita come assenza di malattie), per il Danaro (come fonte di potere, di successo personale e sociale), così come vengono considerati generalmente nel nostro Paese. Questi argomenti affascinano talmente tanto che i cosiddetti “operatori dell’occulto” costruiscono intere fortune e, considerando che nel mese di dicembre * abbondano le richieste di previsioni, di oracoli, di predizione del futuro, mi sembra utile ragionare su questi temi, tentando una diversa argomentazione. Nel campo dell’Amore, ad esempio, o più precisamente nell’espressione sessuale, sembra (apparentemente) paradossale come, in un periodo di disinibizione culturale (video, grafica, cinematografica, televisiva, ecc…), aumentino i disturbi da “mancanza di desiderio sessuale”. Disturbi che difficilmente si manifestavano, o di cui non si sentiva parlare prima degli inizi settanta. La morale dominante relativa alla sessualità era condizionata fortemente dalla concezione religiosa, spingendo verso una mentalità “bigotta”, almeno nelle relazioni pubbliche, dal momento che fungeva da vero e proprio tabù sociale. La sessualità era “giustificata” in funzione della procreazione, all’interno del rapporto coniugale, cosicché ogni altra variazione “sul tema” apparteneva ad ambiti “immorali”, legati a concezioni “perverse”. Senza però voler entrare nel merito del giudizio morale in modo specifico anzi, limitando il raggio delle valutazioni secondo altri punti di vista, si noti come emerga, nei confronti del periodo “presessantottino”, una profonda diversità di modelli comportamentali esibiti nell’esecuzione dei rituali del corteggiamento, per quello della “prima volta”, per l’incontro a scopo sessuale. Queste condotte sociali richiedevano tempi nettamente più lunghi, rispetto a quelli attuali, per realizzare il fine principale, costituito appunto dalla gratificazione sessuale. In queste epoche snaturale” deterrente contro la perdita di desiderio. Allora il punto da dibattere diventa il seguente: esisteva già tale forma di disturbo sessuale, oppure non era rilevato? O non se ne era a conoscenza? Di fatto la concezione inibitoria implicita nel costume sessuale dominante, rendeva l’esperienza intima, altamente privata, quasi segreta e profondamente desiderata. Se così fosse, sarebbe proprio il ”tabù sociale”, il “modulatore” della ricerca al soddisfacimento del piacere sessuale! Infatti, in quanto “limitato” dal contesto socio-culturale (periodo di “repressione istintuale”), il piacere sessuale sembra allora essere legato, entro una certa misura, al “piacere di trasgredire” e al “piacere della conquista” (il premio). Ai nostri giorni accade, infatti, esattamente l’opposto, i “contatti” eterosessuali sono iperfacilitati e la consumazione del comportamento sessuale avviene in tempi molto più rapidi, inoltre il confine del limite morale, legato all’esperienza sessuale, si sposta troppo rapidamente, da non permettere adeguati processi di assimilazione e di accomodamento del sistema di “credenze” individuale. In seguito a tali cambiamenti di costume, cade in modo drastico e improvviso il “limite”, assieme alle ideologie che culturalmente lo legittimava, e assieme altri fattori fra cui: a) l’emersione di modelli morali “libertini” (da quello naturalistico dei “Figli dei Fiori” quello consumistico della “prestazione”); b) l’accentuazione dell’ansia di “prestazione” (soprattutto maschile); c) il cambiamento del ruolo sociale della donna e dell’uomo; d) la scoperta della sessualità femminile, di cui (quasi) nulla si sapeva, e che ha spiazzato il maschio, ex “dominatore”, soprattutto in rapporto al punto precedente. Tutto ciò ha concorso alla produzione di problematiche relazionali-sessuali difficilmente prevedibili in termini epidemiologici, considerando la liberalità dei nuovi approcci alla sessualità. E’ probabile che il processo culturale di ridefinizione del costume sessuale sia avvenuto in modo “traumatico”, sia rispetto al criterio temporale (lasso di tempo molto breve, per un processo di assimilazione compatibile con il ritmo di interiorizzazione psicologica), sia concettualmente (le credenze, secolarmente consolidate, difficilmente sono sostituibili nello spazio di poche generazioni). Tutto ciò ha provocato, secondo me, una profonda “rottura delle abitudini” storicamente acquisite, tra i modelli emergenti e la risposta individuale, causando un certo disorientamento verso il modo di vivere l’esperienza sessuale. In altre parole, si sarebbe creata una grande spaccatura tra la nuova e la veccia concezione culturale (ogni cambiamento è una naturale crisi), e tra i “nuovi costumi sessuali” e i modelli psicologici individuale (sistema di credenza personale). Del resto, le vecchie concezioni morali possedevano “proprietà statiche”, avendo avuto una durata per generazioni e generazioni, conferendo quindi stabilità di ruolo, di aspettative, generando sicurezza psicologica; al contrario, i tempi tecnologici condizionando continuamente le nuove concezioni (si pensi alle tecniche di contraccezione, a internet, alla realtà virtuale, ecc..), e spostando repentinamente i confini morali della sessualità, estremizzandoli (lo scambio di coppia è un opzione una volta impensabile, ad esempio), producono effetti ansiogeni e incertezza. Sul piano proprio del costume diventa più difficoltoso discriminare il “lecito” dall’illecito e tra ciò che è sano e ciò che è “malato” (ad esempio, l’omosessualità, che riguarda la scelta dell’”oggetto sessuale” adulto, era considerata, ancora decenni fa, una “patologia”), e così via. I “limiti”, per l’elevato grado di incoerente complessità della nostra vita socio-economica, non sono più identificabili come una volta, e non solo nello specifico ambito sessuale, ma anche nella sfera a) dell’educazione pedagogica (bambini che non ricevono più sufficientemente “no”, che non provano più piacere dei continui giocattoli ottenuti senza “merito”); b) in quella alimentare (come nel caso dell’anoressia, caratterizzata dall’“assenza” di desiderio del cibo, o del suo contrario, la bulimia); c) in quella civica (in cui l’emersione egoistica dell’Io non fa vedere il confine del rispetto per gli altri); d) in quella scolastica (in cui il ruolo dell’insegnante è sganciato dalla funzione pedagogico-educativa), ecc… Cadendo il limite si dissolve il relativo desiderio, e ciò contribuisce alla formazione di altri comportamenti sintomatologici delle diverse sfere comportamentali, infatti, venendo a mancare i vari “piaceri” , (cioè l’altra faccia del limite), si riducono i fattori di coesione delle funzioni e delle parti dell’Io. E’ opportuno perciò insegnare nell’educazione globale, un sano apprendimento dei “limiti”, al di là delle ideologie culturali di volta in volta dominanti.

Dott. Maurizio Santopietro



N.B.: L’articolo è già stato pubblicato da “L’attualità”, n.1 Gennaio 2004toriche, la “non facilità” a soddisfare il bisogno sessuale, sembra porsi quasi come una sorta di “