Dalla piena occupazione alla piena precarizzazione
Non
era per niente facile peggiorare la riforma Fornero, che peggiorava la riforma
Biagi, che peggiorava la riforma Treu. Ebbene, Renzi c' è riuscito: c'è
riuscito il governo delle larghe intese Renzi-Alfano, per la precisione, che
oggi ha addirittura posto la fiducia al Senato sul decreto lavoro, impedendo
per l'ennesima volta il dibattito parlamentare. In un tempo neppure troppo
lontano, il modello sociale europeo si poneva come obiettivo la piena
occupazione, mentre oggi l'obiettivo è la piena precarizzazione.
La
precarietà - rinominata flessibilità per ingentilire e abbellire il
concetto - non produce alcun aumento
dell'occupazione, non moltiplica i posti di lavoro: da anni tutti gli studi
evidenziano che non esiste alcuna correlazione accertata fra maggior
flessibilità e crescita dell' occupazione. Più semplicemente, la precarietà è
uno strumento efficace per intensificare lo sfruttamento del lavoro, pagarci
meno, farci competere fra noi al ribasso, renderci più docili e ricattabili.
L'Italia
da tempo primeggia in Europa in quanto a flessibilità e i datori di lavoro nel
nostro paese hanno a disposizione ben 46 contratti atipici (contro i 9 di
Francia e Gran Bretagna) con il risultato che, negli ultimi anni, due contratti
su tre sono stati stipulati per lavori a tempo determinato e la disoccupazione
non è certo diminuita, anzi. Siamo
flessibilissimi, ma per il governo delle larghe intese non era abbastanza.
Il
decreto Renzi-Poletti estende la flessibilità ed elimina la
"causalità" fino a tre anni, ossia le aziende possono adesso assumere
con contratti a termine senza ragione alcuna non per 12 ma per 36 mesi (viene
eliminato l'obbligo per l'azienda di motivarne la stipula con “ragioni di
carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”). Il contratto
precario diviene cioè la normalità per le nuove assunzioni, non l'eccezione,
anche se teoricamente i lavoratori con contratto a termine non dovrebbero
superare il 20% dell’organico complessivo. Dico teoricamente dato che anche
quest'obbligo - che sarebbe già di per sè difficilmente verificabile con
l'attuale sistema di controlli - di fatto salta: l'azienda può sforare la quota
consentita del 20% limitandosi a pagare una modesta sanzione.
Se
tutto ciò non bastasse, al termine dei tre anni non esiste nessuna garanzia di
assunzione a tempo indeterminato per il lavoratore precario, ammesso che al
termine dei tre anni ci sia effettivamente arrivato. Infatti, mentre fino ad
oggi era consentita una sola proroga del contratto a termine, adesso sono consentite
fino ad otto proroghe entro i tre anni, aumentando con ciò ricattabilità e
licenziabilità. Ad esempio, non servirà più far firmare le dimissioni in
bianco, adesso basterà controllare la pancia delle proprie dipendenti ogni 5
mesi e decidere se rinnovare o meno il contratto.
Infine,
l'apprendistato viene trasformato in qualcosa che ha a che vedere con tutto
fuorchè con l'apprendimento di un mestiere: sparisce per l'azienda l’obbligo di
formulare un “piano formativo individuale”. Sparisce ogni chiaro obiettivo di
formazione e ci troviamo davanti all' ennesima forma di contratto
ultraprecario, low-cost e sottoinquadrato. E, manco a dirlo, viene cancellato
anche l'obbligo per le aziende di assumere a tempo indeterminato almeno il 30%
degli apprendisti (che resta solo per le imprese con oltre 50 dipendenti).
Ci
dicono che questa sarebbe la modernità. A me pare che la modernità stia
altrove, ad esempio nel prevedere forme di salario minimo e reddito minimo
garantito, oltre che nel ripensamento complessivo del modello di produzione:
cosa produciamo, come lo produciamo, per chi lo produciamo. A me pare che la
modernità non sia competere abbassando i salari ma investire nella ricerca e
varare un piano europeo per l'occupazione che dreni risorse dalle rendite e
dalla speculazione finanziaria. A me pare che la modernità consista
nell'affermazione dei diritti e non nella servitù della gleba e che la vera
innovazione sarebbe la cancellazione dello sfruttamento, non la sua
intensificazione. Se la modernità è alle spalle, è un bel problema. Siamo ad
appena una settimana dal primo maggio e l'accordo raggiunto in Senato sul
decreto Poletti-Renzi ci riporta indietro nel tempo, a periodi in cui le tutele
e i diritti del lavoro - oggi chiamati "rigidità", stavolta per imbruttire
il concetto - ancora non erano stati conquistati. Primo maggio, sì, ma di quale
secolo?
Tommaso Fattori