“L’opposto
della religione non è il comunismo. L’opposto della religione è il capitalismo
(senza regole, crudele, cinico, puramente materialista), la causa dello
sfruttamento di esseri umani da parte di altri esseri umani, culla del culto
del potere, orrenda tana del razzismo.” - Pier Paolo Pasolini
Probabilmente
ateo, Pier Paolo Pasolini (1922-1975), disse che era credente perché fu
blasfemo. Intendeva dire che fu tale in un film su San Paolo. (Nelle sue
intenzioni) il film sarebbe dovuto essere religioso, spiegò, perché “nei sacri
riti antichi, come in tutte le religioni contadine, ogni benedizione è pari a
una maledizione”.
La
sceneggiatura, che scrisse tra il 1968 e il 1974, non fu mai portata sul grande
schermo, in parte perché il Vaticano (che peraltro, gli aveva assegnato un
premio per Il Vangelo secondo San Matteo, un film del 1964), attaccò il suo
film Teorema, del 1967, (narrante) la storia di un Dio che discende in terra in
una tradizionale famiglia borghese, vicino a Milano. Egli ne seduce
sessualmente i membri - padre, madre, figlia, figlio, e la domestica - e poi li
lascia. Le conseguenze di questa seduzione e di questo abbandono sono tragiche:
il suicidio, la promiscuità, la follia, e il miracolo, a rischio della vita,
della levitazione della cameriera da un alta balconata. Trasformazioni
ontologiche radicali. Il padre, deciso a togliersi la vita, sale nudo su una collinetta,
che i Milanesi chiamano “la montagnetta”. Ricoperta ora di fogliame, la collina
è costituita dalle macerie accumulatesi durante i bombardamenti alleati su
Milano, nella seconda guerra mondiale.
In
Vaticano (il film) non piacque. Il suo organo di stampa, l’Osservatore romano,
scrisse che in Teorema il diavolo (in persona) aveva visitato la famiglia per
cui, guardarsi bene dall’andare a vedere il film al cinema. Effettivamente,
nella sua raffigurazione del venir meno delle convenzioni sociali e dell’abbandono
alle passioni, il divino era rappresentato da un dio Dionisiaco in una
manifestazione apocalittica, ovverossia la rivelazione. Non si poteva essere
così imperdonabilmente blasfemi da far annunciare il messaggio della
rivelazione da un dio pagano. Così, il San Paolo di Pasolini divenne una
vittima di Teorema e non fu mai portato sul grande schermo.
Ma
noi abbiamo la sceneggiatura. Tradotta magistralmente e con un’eccellente
introduzione di Elizabeth A. Castelli, pubblicata dalle edizioni Verso con una
prefazione di Alain Badiou, il “San Paolo: una sceneggiatura” di Pasolini,
rappresenta, nelle parole di Badiou, “un lavoro letterario di primaria
grandezza”. La domanda principale che porta al cuore del problema è: può ogni
ideale rivoluzionario (nel caso specifico, il Cristianesimo, NdT), sopravvivere
alla sua istituzionalizzazione?
Come
acutamente osserva Badiou:
“La
sceneggiatura dovrebbe essere letta non come un opera incompiuta come in
effetti fu, ma come il manifesto sacrificale di ciò che costituisce, qui come
altrove, la realtà di ogni Ideale (e cioè): l’apparente impossibilità della sua
(effettiva) realizzazione.”
In
una sorta di testamento spirituale, pubblicato postumo, Pasolini scrisse:
“Ogni
religione formale, nel senso che la sua istituzione è diventata ufficiale, non
solo non è necessaria per migliorare il mondo, ma addirittura lo
peggiora."
Per
Pasolini, il Cristianesimo, nel suo contesto originale è stata una positiva
forza sociale, opponendosi allo schiavismo e cambiando (per sempre) l’Impero
Romano, ma, come la sceneggiatura fa chiaramente intendere, si trattò di una
breve fase rivoluzionaria fra due diritti, la legge imperiale dell’antica Roma
e la nuova legge imperiale della chiesa Cristiana. In questo interregno quando
“il vecchio non è ancora morto e il nuovo non è ancora nato” (Antonio Gramsci)
è possibile dar vita ad una (vera) democrazia popolare in una società
comunitaria.
Ci
sono voluti quarant’anni perché la tesi provocatoria di un Cristianesimo
sovversivo riaffiorasse con forza nella comunità degli studiosi. Ed è un
peccato che Pasolini non portò mai su celluloide il suo San Paolo perché la sua
analisi del primo Cristianesimo inteso come forza scardinante la dominazione
Romana è centrale per una rivoluzionaria comprensione del Cristianesimo pre -
istituzionale.
Oggigiorno,
la tesi pasoliniana di un Cristianesimo anticolonialista, emergente dai domini
orientali dell’Impero (Antioca fu la terza più importante città dell’Impero
Romano) avrebbe aperto nuovi scenari negli studi tradizionali Paolini. Nel
corso degli ultimi trent’anni, i ricercatori e i teorici postcolonialisti ,
le femministe e gli studi di antropologia politica hanno insistito
sull’importanza del contesto storico nella lettura delle Lettere di San Paolo.
Già ai tempi di Pasolini, il revisionismo incalzava. Nel 1962, uno studioso
svedese di San Paolo, Per Boskow, pubblicò uno studio: “Rex Gloriæ. La regalità
di Cristo nella Chiesa primitiva” (edizioni Stockolm: Almquist and Wiksell,
1962), che ipotizzava che le prime forme nascoste di rivolta (verso Roma) erano
da ricercarsi nei primi culti e rituali cristiani. Un San Paolo (seppure
discretamente) compromesso nei giochi politici dell’Impero avrebbe cozzato
contro la tradizione Protestante che lo vedeva, altresì, come l’apoteosi
dell’uomo religioso (pio), “l’uomo di fede”, (e questo) fin da quando Martin
Lutero trovò nelle lettere di San Paolo ai Romani la sua personale
“giustificazione nella fede” per rompere con la Chiesa di Roma.
Il
ritrovato interesse in San Paolo nel dopoguerra, comunque, non poté, (suo
malgrado), dissociarsi dagli interrogativi sempre più incalzanti riguardanti le
responsabilità della Chiesa Cristiana nell’orrore del genocidio degli Ebrei
europei - l’Olocausto. Particolarmente nella tradizione protestante, la
conversione di Paolo (al Cristianesimo, NdT) è stata elaborata in antitesi
all’Ebraismo. Per definizione, nel Cristianesimo, un Cristiano non è un Ebreo e
dunque le origini di San Paolo nel Giudaismo sono state oscurate evidenziando
(altresì) favorevolmente una (sua) personale e avvincente ricerca della
salvezza in Cristo. Contribuì all’Olocausto questa versione Manichea della
doppia identità di San Paolo - e, di conseguenza, della doppia identità del
Cristianesimo?
L’impulso
a leggere San Paolo diversamente dal canone tradizionale è così diventato un
imperativo morale ed un compito storico. Gli studi esegetici rivelanti forme di
resistenza (verso l’Impero Romano) nel Nuovo Testamento cominciarono seriamente
e diedero i loro frutti negli anni ‘80. A partire dai lavori pioneristici di
Simon R. F. Price: “Rituali e Potere”, (trattante) il (tema del) culto
nell’Impero Romano in Asia Minore. (Studiando le pratiche religiose) nelle
città dove San Paolo si rese e predicò fino (ad arrivare) agli studi di
antropologi politici come James C. Scott, Erik Heen e altri, avrebbe dovuto
essere confermata l’idea Pasoliniana di presentare il Cristianesimo come un
attore politico nel quadro conflittuale tra l’Impero e i suoi sudditi orientali
e del mondo Greco. Sicuramente, mettersi al passo con questa rivoluzione
(esegetica) degli studi Paolini ha pesato sulla decisione di tradurre e
pubblicare per la prima volta in inglese questi testi vecchi di decenni.
Non
possiamo essere sicuri che Pasolini abbia subito l’influenza dei tumulti
teologici che covavano sotto la superficie degli studi Paolini nel mondo
Protestante, ma quello che noi sappiamo con certezza è che, negli anni in cui
lavorò al suo San Paolo (1968 - 1974), s’incontrò e intrattenne un regolare
carteggio con un cordiale teologo in Vaticano, che doveva senz’altro essere
informato sull’importantissimo svolta morale che stava attraversando la
teologia Cristiana a causa dell’Olocausto. Gli interrogativi sul ruolo svolto
dal Vaticano nell’indulgenza verso il Nazismo abbondavano, dopo tutto.
In
tutti i suoi scritti dell’età matura, Pasolini accusò la Chiesa di essersi
trasformata, all’inizio del 19° secolo,nel giocattolo di una borghesia
religiosamente apatica, nello strumento della sua legittimità, in uno sforzo di
sopravvivenza, forse, per seguitare a essere una efficiente istituzione
compiacente i valori delle democrazie liberali introdotti dalle lotte sociali
durante la Rivoluzione Francese. Nella visione di Pasolini, il compromesso
della Chiesa con una cinica, secolare, avida e controrivoluzionaria borghesia
ha rimosso l’anima dal suo corpo. Non stando più dalla parte degli oppressi, la
Chiesa è diventata irrilevante. Anzi, più che irrilevante: è diventata
criminalmente repressiva. Ma, è stato questo compromesso con la classe
dominante un fatto a sé stante, oppure si tratta di una costante
nell’evoluzione del Cristianesimo? E’ stato questo il verme che ha divorato il
cuore della Chiesa fin dai suoi albori?
Naturalmente,
è estremamente rischioso “chiudere l’argomento” sugli evanescenti, autodistruttivi,
volutamente instabili, lavori di Pasolini. Facendo eco a Marx, (questi studi)
urlano “domande su ogni cosa,” e in particolare sull’autore medesimo. La
sceneggiatura appare essere lanciata in un furioso vortice dialettico di
contraddizioni. Non appena si pensa di avere afferrato cosa Pasolini volesse
dire, subito dopo la certezza non esiste più. La sofferenza di San Paolo, per
esempio, tormentato e debilitato da una misteriosa malattia, sembra essere
rappresentativa della sofferenza dell’umanità intera, costituendo la sua
componente religiosa. La sua sicurezza nell’organizzazione delle comunità
cristiane, risultato dalla sua alta condizione sociale, la sua educazione, la
sua professionale (e retorica) formazione, costituiscono il suo lato attivo,
energico, mondano. “Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” (San
Paolo, Romani 7:14-25), implora San Paolo, riferendosi ai suoi bisogni corporei
e ai suoi doveri verso Dio. L'agitazione mentale ed emozionale che il testo
crea con queste contraddizioni (almeno in questo lettore, Luciana Bohne, NdT)
deriva dai "più puri e provocatori effetti di Brechtiana alienazione”. Il
film avrebbe intensificato questo effetto, ponendo la parola e l'immagine in un
conflitto di significato sullo schermo. Tuttavia, vorrei azzardare una
risposta: la sceneggiatura si sforza di confermare che il dilemma era lì fin
dall'inizio. Il racconto negli Atti degli Apostoli della fondazione del
Cristianesimo mistifica la storia. Pasolini fa un esempio: l'incontro della
dirigenza evangelica in un evento conosciuto come "l'incidente di
Antiochia”. Non solo San Paolo si era attirato l'inimicizia mortale dei
fanatici farisei a causa dell’evangelizzazione della nuova religione, ma (si
era attirato) anche l'opposizione di Pietro e dei suoi seguaci per aver
convertito i “Gentili”, senza prima averli "giudeizzati" (cioè
trasmettendo la Legge di Mosè).
Durante
"l’incidente di Antiochia", la sceneggiatura raffigura Pietro e Paolo
in un faccia a faccia ravvicinato quasi venendo alle mani sulla questione della
"giudeizzazione" dei Gentili. Luca, l'autore degli Atti (la storia
della fondazione della Chiesa), appare distaccato, aristocratico, ironico,
divertito dalla cacofonia di questo turbolento incontro che si trasforma in un cupo
silenzio. Più tardi, nel suo studio lussuoso, Luca, spassionato, metodico,
butta giù, nella sua "elegante scrittura", una versione sterilizzata,
il compendio di una soluzione amichevole alla planetaria disputa sul rapporto
tra cristianesimo ed ebraismo, al termine del quale si alza dalla sedia e fa un
rutto soddisfatto. L’Ebraismo si è dissolto. Luca è raffigurato come un
consumato propagandista; Pasolini lo descrive come l’incarnazione di Satana. E
a Satana, (presenza) invisibile, Luca, con tono dimesso (dirà): "La Chiesa
è solo una necessità" (il corsivo su "solo" è di Pasolini). Per
illustrare ulteriormente l’inaffidabilità di Luca, Pasolini gli dà un complice:
Satana. Quando la Chiesa è tutto fuorché essere fondata, con l'incombente
adesione di Timoteo alla diocesi di Efeso, Luca e Satana (quest’ultimo appare
solo di schiena) brindano alla " loro chiesa " con una bottiglia di
champagne: Bevono e si ubriacano, evocando tutti i crimini della Chiesa: una
enorme lunga lista di papi criminali, di compromessi della Chiesa con il
potere, di prepotenza, di violenza, di repressioni, di ignoranza, di dogmi.
Alla fine, i due sono completamente ubriachi e se la ridono pensando a Paolo,
che è ancora là fuori, in giro per il mondo, a predicare e a organizzare. In un
tono rievocativo delle poeticamente splendide “bestemmie” del Faust
dell’iconoclasta Christopher Marlowe, Pasolini racconta i pensieri di Satana:
La Chiesa è fondata.
Il
resto non è altro che una lunga appendice, un'agonia. Il destino di Paolo non
interessa a Satana: si salvi e vada in Paradiso, in ogni caso. Satana e il suo
sicario [l’eventuale assassino di Paolo, un picchiatore fascista che disprezza
l'ideologia "anti - israelita " di Paolo] ridono sarcastici,
soddisfatti. Non solo il corso della Chiesa ufficiale, ma anche il destino di
Paolo è segnato, non ci sarà più bisogno di evangelizzare; la Chiesa si farà
carico "delle cure pastorali" e gestirà i suoi fedeli dai pulpiti
delle ormai proliferanti Chiese.
Uno
di queste è in Efeso, che Pasolini ambienta nella Napoli contemporanea. Mentre
una voce fuori campo continua a far sentire la voce di Paolo comporre la sua
lunga lettera a Timoteo, offrendo purezza, modestia, prudenza, continenza,
gravità, pietà - tutte le virtù dell'umiltà che limitano l'orgoglio - la cinepresa
ci mostra lo scandalo dell’orgoglio, del lusso, del potere di classe,
dell'eccesso:
In
grande pompa, ecco Timoteo, vestito letteralmente in oro, schiacciato sotto la
mitra, quasi irriconoscibile. E tutt’intorno, il multicolorato e magnificamente
carnevalesco coro degli altri prelati ... Un gruppo di autorità: alti
ufficiali, gonfi come tacchini nelle loro grandi uniformi; uomini politici, nei
loro doppiopetto neri, con facce vecchie volgari e ipocrite; la folla delle
loro dame ingioiellate e i loro servi, ecc , ecc. L'altare è incastonato in oro
- un vero e proprio vitello d’oro - pieno di plateali ostentazioni barocche,
un’opera di incredulità totale, ufficiale, minacciosa, ipocritamente mistica e
glorificante, clericale, del maestro (Pasolini, NdT).
Ite,
missa est. E' finita, (resta ancora a) sbarazzarsi di Paolo, il cui zelo
evangelico sembra essere inarrestabile e istituzionalmente imbarazzante. Il San
Paolo (di Pasolini), come noto, è ambientato nel 20° secolo. I luoghi sono,
dunque, modificati: Gerusalemme diventa Parigi, soprattutto durante
l'occupazione nazista (i nazisti stanno ai romani; i farisei sono i
collaborazionisti Petainisti e i francesi reazionari, di cui Paolo ne fa
parte); Damasco diventa Barcellona, all'indomani della vittoria fascista in
Spagna; Antiochia è la "razionale" Ginevra; Atene diventa la moderna,
intellettualmente scialba, "dolce vit(osa)" Roma; e la Roma Imperiale
è collocata a New York, il ventre della nuova bestia imperiale.
Dopo
la conversione di Paolo alla Parola (del Signore) (per analogia, la Resistenza
antifascista), che praticamente coincide con la fine della seconda guerra
mondiale, i suoi viaggi evangelici lo portano attraverso tutta Europa, (un
continente) ora in festa nel consumismo post-bellico. I suoi viaggi acquistano
una caratteristica picaresca. In alcune delle scene più comiche e satiriche,
(Paolo) predica assurdamente a un pubblico immorale: a Bonn, predica agli
industriali, provocando una rivolta neo - nazista; a Ginevra, sconvolge gli
imperturbabili simpatizzanti cristiani e potenziali benefattori con la sua
eccessiva enfasi sulla continenza sessuale; a Roma annoia i suoi sonnecchianti
e arricchiti ospiti con la sua retorica arcaica sulla fede Cristiana, mentre
prima hanno ascoltato una mistica celebrità pop, simile a Krishnamurti; al
Greenwich Village di New York, predica obbedienza alle autorità ad un
sonnecchiante gruppo di ribelli neri, giovinastri strafatti di mariijuana,
attivisti contro la guerra, femministe, e ai giovani e disperati profughi
dall’entropia mentale ed emozionale della classe media di periferia. Anche qui,
(Paolo) provoca una rivolta, nella quale la polizia interviene e lo arresta.
Così, alla fine, se non altro per aver provocato le autorità e avere predicato
male, bisogna sbarazzarsene. Pasolini lo fa uccidere (dal sicario di Satana, il
fondamentalista pro - israelita picchiatore fascista) come Martin Luther King,
sul balcone di un sudicio hotel nel West Side di Manhattan, l’esatta replica
del Lorraine Motel a Memphis (dove Martin Luther King fu ucciso, NdT). Il suo
sangue gocciola giù sul marciapiede e forma una "pozzanghera rosa".
Gli
eventi della vita di questo San Paolo cinematografico vanno dal periodo nazi-
fascista al 1968, "l'era della falsa libertà, in realtà voluta dal nuovo
potere riformista e permissivo, che è anche il potere più fascista della
storia" (dalla postfazione di Ward Blanton; il corsivo è mio). In altre
parole, fino al tempo del nostro fascismo liberale postmoderno (Pasolini
effettivamente utilizzò il termine "fascismo liberale" negli anni
settanta). Ma cos’è che a noi importa alla fine, (forse) questo antico crimine
della Chiesa istituzionale? Anche prima della morte per sofferenza(3) del pio
San Paolo – (alla fin fine) che cosa significa tutto questo? Per un
intellettuale come Pasolini e la sua generazione di italiani anti- fascisti,
non c'era (forse) una "fede" alternativa nel materialismo scientifico
– nel marxismo? Ci sono dei passaggi nella sceneggiatura che mostrano ciò che
Pasolini chiamava "l'ipocrisia del marxismo [istituzionale]", un tema
che già aveva elaborato ne “Le ceneri di Gramsci”, nel 1957. (Pasolini), per
esempio, lamentava che gli intellettuali culturalmente borghesi del Partito
comunista italiano (di cui lui faceva parte), fossero generalmente astrusi
dalle masse e dai (suoi) amatissimi pasoliniani innocenti furfantelli che erano
i giovani insignificanti criminali del sottoproletariato (dopo tutto non
rubavano soldi pubblici, come (invece fanno) i rispettabili senatori e i
politici), (gli intellettuali erano astrusi) dai contadini e dai lavoratori
che, diversamente dalla borghesia, ancora riuscivano a sopravvivere grazie
all’assistenza della solidarietà umana – del comunismo, religioso o
scientifico. Infatti, la critica al marxismo istituzionale, al
"partito", ecc., corre parallela ed è analoga alla critica verso la
Chiesa, (due istituzioni) entrambe fallite nel coltivare una cultura popolare
proletaria da opporsi alle edonistiche, individualistiche, consumistiche e,
infine, anti - umane perversioni ideologiche della neo - capitalista (sue
parole) cultura borghese. E qui, devo per forza riprendere Gramsci, una delle
maggiori e permanenti personalità che influenzarono Pasolini (uno dei primi fu
Rimbaud). In senso figurato, di fronte alla tomba di Gramsci, (Pasolini)
implora il suo maestro ne “Le ceneri di Gramsci”: "Mi chiederai tu, morto
disadorno, d’abbandonare questa disperata, passione di essere nel mondo?”.
Antonio
Gramsci (1891-1937), intellettuale marxista, teorico politico, sociologo della
cultura, fu un membro fondatore del Partito Comunista Italiano e morì in una
prigione fascista. (Gramsci) è meglio conosciuto per la sua teoria
dell'egemonia culturale, che spiega come la classe al potere mantiene il suo
status quo e lo perpetua attraverso le sue istituzioni culturali. Già Lenin
aveva utilizzato il termine. Era una elaborazione di Marx ed Engels i quali
sostenevano che "le idee dominanti di ogni epoca sono sempre state le idee
della sua classe dominante", sebbene l'Ideologia tedesca (opera di Marx ed
Engels), scritta nel 1846-1847, non fu pubblicata fino al 1932 (e solo in
Unione Sovietica). Se l'affermazione di Gramsci era vera, come avrebbe potuto
affermarsi una rivoluzione proletaria se la coscienza di classe del
proletariato era formata esclusivamente dalle istituzioni borghesi? Oppure,
come potrebbe piuttosto una società di contadini e di lavoratori sostenere
l'assalto del consumismo di mercato che annebbia la mente e che avrebbe
condotto, a suo avviso, ad un "cataclisma antropologico"
irreversibile trasformando le persone in cose, in un colpo solo sfruttatori e
sfruttati, vittime e carnefici?
L'avvento
alla metà degli anni '50 del "boom economico" in Italia,
l'accessibilità ai beni materiali, in particolare la televisione, ha causato
l'immediato imborghesimento della vita quotidiana italiana, rappresentata
satiricamente ne “La Dolce Vita” di Federico Fellini, “La speculazione
edilizia” di Italo Calvino, “La noia” di Alberto Moravia e “L'avventura” di
Michelangelo Antonioni. Il San Paolo di Pasolini, scritto negli edonistici anni
'60 e negli anni ’70, gli "anni di piombo", la campagna terroristica
condotta dai servizi segreti italiani - "lo stato parallelo" - in
collaborazione con la CIA per far fare un salto indietro alla democrazia
popolare, oggi suona come una profezia. Inspiegabilmente, come se ci vedessimo
allo specchio, in un futuro non troppo lontano, Pasolini descrive una Parigi in
preda al terrore di un "anti - terrorismo" nazista. Stefano, un
giovane partigiano in una nascente resistenza, a malapena in età di
arruolamento (come il fratello più giovane di Pasolini, Guido, partigiano,
ucciso a diciannove anni in un imboscata nel 1945), viene fucilato dai nazisti.
Paolo, in questa fase, uno zelante ufficiale, di fatto, una acritico
collaborazionista delle forze di occupazione naziste, assiste all'esecuzione
del giovane Stefano. Egli ne è angosciato, persino ossessionato, ma non (per
questo) viene meno il suo zelo collaborativo verso gli occupanti nazisti. Essi
sono la legge, e lui è un avvocato. Il suo dovere è quello di servire la legge.
"Nel volto di Paolo" si legge nella sceneggiatura. Assistiamo a
qualcosa di peggio del male: vediamo la bassezza, la ferocia, la decisione di
essere abbietti, l’ipocrisia che motiva tutto in nome della Legge, della
Tradizione - o di Dio. Tutto questo non può che rendere quel volto disperato,
troppo.
Quello
che segue la scoperta dell’attività della Resistenza e l'esecuzione di Stefano
è un'orgia di crudeltà, che si estende fino ai limiti del genocidio e oltre.
Partendo da una citazione, "Era come un segnale per la persecuzione"
(Atti 6:1-8:3), Pasolini descrive come l'oscenità della repressione nazista
debba essere rappresentata: Nuovo materiale documentario d'archivio. Ma questa
volta (lo scenario) deve essere rappresentato nel modo più tremendo possibile,
quasi insopportabile alla vista: arresti, incursioni, sparatorie, impiccagioni,
deportazioni di massa, esecuzioni di massa, sparatorie nelle strade e nelle
piazze, cadaveri abbandonati sui marciapiedi, sotto i monumenti, penzolanti dal
lampioni, impiccati, impiccati. Le deportazioni degli ebrei nei campi di
concentramento; vagoni pieni di cadaveri. Si aggiungano teste decapitate, bombe
e ancora bombe tossiche, gli ospedali e le scuole bombardate. Droni killer.
Rifugi antiaerei bombardati. Assedi in stile medievale (chiamati sanzioni)
esigere le vite di 500.000 bambini (un record). Due, tre, molti Abu Ghraib:
uomini trasformati in cani, l’osceno sadismo della più grande democrazia del
mondo. Aggiungiamo a tutto questo molto altro, e vediamo nelle immagini
d'archivio dell'era fascista l'immagine dei nostri tempi.
Luciana Bohne
Luciana BOHNE è cofondatrice del Film Criticism, un giornale di studi sul cinema, e insegna alla Edinboro University in Pennsylvania.
http://www.comedonchisciotte.org/
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