"Spesso ci sono più cose negli spazi bianchi tra le righe, che nelle parole".
Nella
borgata dove si abitava in mezzo a prati spelacchiati e cantieri i punti di
riferimento per noi ragazzini erano pochi e perfettamente adeguati all’ambiente
circostante. Il bar con il biliardino e il televisore, la sezione del PCI con
il campo di bocce, la parrocchia con l’oratorio e il campo di calcio. Quello
grande, con le porte regolari le strisce bianche, qualche gradinata di tubi
Innocenti che per noi, abituati a giocare negli spiazzi sterrati o, addirittura
sul’asfalto, aveva lo steso fascino del Maracanà, dove, ci si immaginava
novelli Pelè a segnare valanghe di gol tra tifosi festanti. La realtà era molto
diversa. Su quel campo non potevamo giocare, perché si pagava l’affitto e,
addirittura non potevamo neanche vedere le partite di infima categoria che si
giocavano la domenica perché, anche le 100 lire necessarie per entrare, erano
troppe per le esigue risorse delle nostre tasche.
Quello
che, però, mancava in risorse economiche si colmava con la fantasia e l’ingegno.
Come
detto prima, la zona era sempre piena di cantieri, in stragrande maggioranza
abusivi, anche questi vietati per noi, ma per altri motivi, che però avevano la
caratteristica di offrire punti d’osservazione elevati buoni per guardare la
partita domenicale . Un po’ lontani e un po’scomodi ma a scrocco, e questo ne
rendeva accettabile qualsiasi disagio. In genere ci posizionavamo dietro una
delle porte perché spesso il pallone usciva e noi si faceva a gara per
riprenderlo e calciarlo con forza ributtandolo nel campo superando il muro e la
rete che lo recingeva.
A
quei tempi anche possedere un pallone da calcio era un privilegio non da poco,
e il proprietario di questo tesoro aveva un potere quasi illimitato su tutti
gli altri potendo decidere chi poteva giocare e chi no, in quale squadra o
ruolo. E si parlava di palloni nel
migliore dei casi marca Supertele, leggerissimi, o S.Siro, più pesanti ma
sempre di gomma. Figurarsi possedere il sogno, il miraggio, l’utopia rappresentato dal mitico pallone di cuoio quello riservato
ai grandi e ai danarosi che potevano giocare nel campo pagando.
Quindi,
si capisce facilmente che, quando capitava di averlo anche per pochi attimi tra
le mani, l’emozione era forte, talmente forte da far ipotizzare anche un’azione
criminale.
Ci
si rimuginava a lungo, si studiavano strategie, si valutavano i rischi e i
compromessi con la coscienza nel caso in cui avessimo deciso veramente di
saltare il fosso della legalità. Devo dire che gli scrupoli di coscienza erano
messi a tacere abbastanza facilmente, quello che condizionava molto erano le
eventuali conseguenze sia legali, ma soprattutto quelle legate alla reazione
dei genitori. Le nostre madri e ancor più i padri non seguivano il metodo
Montessori. Avevano poco tempo e molto da fare, quindi seguivano la via
classica ma, decisamente, più rapida ed
efficace del terrore. Terrore che si materializzava sotto forma di battipanni,
pantofole, cinghie o, in mancanza di questi strumenti, di robusti scapaccioni.
Il
rischio era quindi altissimo ma la tentazione, domenica dopo domenica si faceva
sempre più forte. E si sa che, se la carne è debole, quella di ragazzini di
periferia di fronte a un pallone di cuoio era praticamente carta velina.
Si
trattava, alla fin fine solo di trovare l’attimo, la situazione più favorevole.
Situazione
che si venne a creare una domenica mattina quando un giocatore calciò con forza
il pallone spedendolo oltre la porta dalle nostre parti e, subito dopo,
l’arbitro fischiò la fine dell’incontro. Praticamente la situazione perfetta! I
giocatori rientravano negli spogliatoi, i pochi spettatori paganti uscivano
dalla parte opposta, l’arbitro parlottava in campo e il pallone era lì, con
tutta la sua capacità seduttiva e tentatrice apparentemente ignorato da tutti. Ovviamente
da tutti gli altri ma non certo da noi e da me.
Uno
sguardo circolare in cerca di conferme, un tumulto emotivo e, improvvisamente il
buio della ragione. L’istinto predatorio s’impossessò delle mie gambe. Uno
scatto, scapicollandomi dalla posizione rialzata, lo prendo! E’ mio, e comincio
a correre cercando di nasconderlo sotto la maglietta, ovviamente con scarsi
risultati. Gli altri, forse per paura, o per creare un diversivo, comunque spiazzati
dagli eventi improvvisi, scappano in direzioni diverse. Io da solo con l’oggetto
delle mie più recondite fantasie finalmente tra le mani, attraverso strade,
prati, nascondendomi dietro i muri e le poche macchine parcheggiate. Immaginando
e, temendo, che fosse stata messa in atto una gigantesca caccia all’uomo.
Faccio un giro lunghissimo con il cuore in gola per tornare a casa e far
perdere le tracce.
Bene,
arrivato in vista di casa, sembra che nessuno mi abbia seguito. I miei pavidi complici,
invece, erano già lì ad aspettarmi. Curiosi come scimmie con gli occhi
scintillanti immaginando epiche partite ci si strappava il pallone di mano, lo si
esaminava, si provava qualche palleggio. Non era il Maracanà, nè S.Siro o l’Olimpico
ma in quel momento eravamo tutti Rivera, Pelè o Mazzola.
A
quell’età l’euforia pur contagiosa e sopra le righe è , pur sempre, di breve
durata e lascia spazio e tempo ad altre considerazioni. “Chi lo tiene?” , “Ah,
io non posso”. “Mia madre farebbe mille domande”, “Se lo sa mio padre, mi
tronca le gambe””, “Maurì, l’hai preso tu. Lo devi tenere tu”. E’ vero, il
desiderio era spasmodico e collettivo ma l’autore materiale ero stato io. Non
potevo sfuggire alle mie responsabilità. Considerando, inoltre, che la cosa mi
dava anche quel famoso potere che, nello specifico, diventava praticamente assoluto.
Il rischio era grosso, ma poteva valerne la pena.
Dopo
molte esitazioni cento possibili soluzioni ,valutando tutte le opzioni decisi
di nasconderlo dove mio padre teneva attrezzi e carabattole varie. Tanto,
sicuramente, di notte, non sarebbero servite.
Passai
una notte insonne in un misto di timore, di finto orgoglio e la scoperta di
quel fastidioso sentimento che scoprii, in seguito, chiamarsi rimorso.
Mi
alzai prestissimo per controllare che nessuno avesse scoperto il provvisorio
nascondiglio. Si erano alzati presto anche i miei amici.”Ti hanno detto
qualcosa?”, “T’hanno scoperto?”, “Dove l’hai messo?”, “Dai vallo a prendere”.
“Si
lo prendo, ma dove ci giochiamo?”. “Hai ragione qui ci vedono”, “Vicino alla
strada potrebbe passare qualcuno che lo riconosce”, “Sullo stradone davanti al
campo sportivo neanche a parlarne”.
La
situazione era seria. Eravamo ricchi, ma non si poteva e non ce la sentivamo di
rischiare il riformatorio o i ceffoni per esibire la nostra ricchezza.
La
giornata passò in tutt’altra maniera rispetto quella che l’avevamo immaginata.
Dubbi,
paure, proposte fantasiose per aggirare l’ostacolo come quella che prevedeva di
colorare il pallone per renderlo irriconoscibile.
Eravamo
più simili alla “Banda degli onesti”,del film di Totò che a un nugolo di ragazzini
spensierati. E, quello che stava peggio. ero proprio io. Io ero l’autore, io il
responsabile, io che avrei avuto la punizione più severa, forse pure i lavori
forzati.
Ed
ero sempre io che avevo quel magone, quel qualcosa che si agitava nella giovane
anima e che, con la sua vocina, mi diceva: “Hai sbagliato, non si ruba, pentiti,”.
E più cercavo di zittirla e più continuava:”Tu non sei un ladro, hai fatto una
fesseria, puoi e devi rimediare….”.
Si
rimediare, sembra facile! Adesso mi presento al campo e dico: “Scusate ho preso
in prestito il vostro pallone”, Oppure “L’ho trovato, per caso è vostro?”
No,
no, non potevo e, poi avrei rischiato di perdere la faccia e il rispetto dei i
miei compagni. No! Non me lo potevo permettere. Dovevo cercare di uscirne con
dignità e pagando il prezzo più basso possibile.
Passò
un’altra notte difficile in cui scoprii che la coscienza quando ci si mette è
veramente una rompiscatole, più dei genitori, più del prete e delle paure che
ci infondeva al catechismo. Però al mattino arrivò l’illuminazione. Si avrei
fatto così!
Avrei
zittito la vocina e ne sarei uscito con dignità agli occhi degli altri.
Dopo
un’altra giornata piena di dubbi e domande rimirando, sempre con circospezione
e attenti che nessuno ci vedesse, l’oggetto
dei desideri uscii dopo cena con la scusa di andare un attimo a prendere una
cosa da un amico. Presi il pallone, lo nascosi, ma non era tanto necessario, perché
era già buio. Arrivai dietro il campo di calcio, lo tirai fuori da sotto la
maglietta, lo carezzai un’ultima volta, non senza rimpianto, lo alzai e con
tutta la forza e la rabbia che avevo lo calciai al di là del muro.
Ecco
giustizia era fatta! Era ritornato là dove doveva stare ed io, pur con un certo
magone, sentii allentarsi quella morsa alla bocca dello stomaco e la vocina che
diceva: ”Bravo! Sono orgogliosa di te! Oggi hai imparato una cosa che ti
porterai dietro per tutta la tua vita”.
“Oh,
stai zitta , per favore, non l’ho fatto
per te!”,
“Si,
lo so, l’hai fatto per te stesso”.
Al
mattino successivo tutti aspettavano il pallone invece arrivò, ufficialmente,
la notizia che durante la notte era stato rubato. E, un pochino da carognetta,
insinuai anche il sospetto, che potesse trattarsi, addirittura di qualcuno di
noi. E, lo so, non era corretto ma la mia buona azione l’avevo già fatta, non
pretendiamo troppo da un bambino. Avrei avuto tempo e modo negli anni a venire
di imparare ad ascoltare quella vocina che, quando serve, non manca mai di
farsi sentire e di cui sono diventato, nel frattempo il migliore amico.
MIZIO