Intervista.
Stefano Rodotà: pareggio in bilancio, lavoro, beni comuni. L’agenda 2014 della
«via maestra». Fallita la modifica dell’art.138, ora il rischio è che la fine
del bicameralismo e la legge elettorale cambino la forma di governo. Senza
dirlo. Non aspettare le motivazioni della Corte? Un suicidio
Il
2013 è stato anche l’anno del movimento nato intorno al documento “La via
maestra” (Rodotà, Landini, Carlassare, Zagrebelsky, Ciotti) e alla
manifestazione di Roma del 12 ottobre, che chiedeva la piena attuazione
della Costituzione e diceva no alla modifica dell’art. 138 della Carta – che
allora veleggiava nelle camere con il vento in poppa — per procedere alle
riforme. Di questo movimento il costituzionalista Stefano Rodotà — che
a aprile, alla vigilia del suo 80esimo compleanno, viene scelto come
presidente della Repubblica dal Movimento 5 stelle ma più tardi finisce
nel mirino di Grillo — è stato fra i primi ispiratori e protagonisti.
Professore
Rodotà, la modifica del 138 alla fine è stata ritirata. La ‘via maestra’ ha
vinto. Ma un po’ a tavolino: è franata la maggioranza che la sosteneva.
Maggioranza che infatti, dicevate voi, non era affidabile per le riforme.
Quel
documento e soprattutto la manifestazione, che ha assunto un significato
al di là delle nostre aspettative, hanno contribuito a creare una cultura
diffusa che ha via via delegittimato l’iniziativa di riforma per come la
concepiva il governo. Quando le condizioni per andare in quella direzione
si sono fatte più difficili in effetti c’è stata una nostra vittoria a
tavolino: governo e maggioranza si sono arresi. E senza combattere: anche
perché si sarebbero trovati un’opinione pubblica ormai convinta che quella
strada metteva in discussione passaggi essenziali del processo
democratico. Ma la via maestra va avanti: ogni giorno il rispetto della
Costituzione diventa una bussola essenziale per la vita democratica.
Basta vedere cosa è accaduto negli ultimi giorni, che non ha precedenti nel
nostro paese. Il governo è stato costretto a ritirare un decreto sul quale la
maggioranza si era impegnata fino in fondo. È il segno di un sistema
impazzito perché si è allontanato dalle logiche costituzionali,
prigioniero di interessi particolari e di un’idea strumentale delle
istituzioni, come già sul 138. Oggi queste distorsioni sono diffuse: l’uso
della decretazione d’urgenza, l’inserimento in un decreto di qualunque
cosa.
Le
riforme, sebbene ridimensionate, restano nell’agenda del governo.
Oggi
si parla di riduzione dei parlamentari e di fine del bicameralismo
perfetto. Ma bisogna fare attenzione: una forte riduzione del numero dei
parlamentari senza correttivi inciderebbe sulla rappresentanza,
ovvero ridurrebbe la possibilità di essere rappresentati. E quando si
dice ‘la sera del voto bisogna sapere chi sarà il presidente del
consiglio’, si rischia di arrivare surrettiziamente a quella modifica
della forma di governo che si dice di aver abbandonato. È irragionevole
che nel Pd si voglia presentare una riforma elettorale prima che si
conoscano le motivazioni della Corte costituzionale. È un’idea balzana:
cosa avverrebbe se una volta incardinata la riforma in commissione affari
costituzionali venisse fuori una motivazione in contrasto con il nuovo
testo? Si avrebbe una delegittimazione del testo e una nuova occasione di
conflitto. Un altro segno di impazzimento del sistema.
A
proposito della sentenza sul Porcellum, il dibattito ha investito
pesantemente la Consulta che, si è detto, ha delegittimato tre
parlamenti eletti con quel sistema.
Questo
dibattito e queste alte grida mi sbalordiscono. Non so se l’elemento
prevalente sia la malafede o l’ignoranza. Ho sentito perfino docenti
universitari sostenere che nella Costituzione non c’è una norma che nega
quel premio di maggioranza: ma allora ‘il voto è eguale’ che significa?
Leggeremo le motivazioni, ma la Corte ha detto che il premio di
maggioranza così come previsto dal Porcellum è illegittimo. Non ha
stabilito un premio indicabile, né ha fatto rivivere il Mattarellum.
Imputarle di aver forzato la mano per il ritorno al proporzionalismo senza
limiti non si può. Il ceto politico non è in grado di misurare le proprie
azioni, e quando queste sono valutate incompatibili con la Costituzione
se la prende con il giudice. La Corte ha detto che le leggi elettorali
debbono essere conformi alla Carta. Quasi una banalità, che però è
incompatibile con l’incultura che circola. Ora il parlamento deciderà
autonomamente. Ma ripeto: aspetti le motivazioni della Corte, si tratta di
poche settimane. Diversamente sarebbe un modo suicida di andare avanti: si
fornirebbero argomenti enormi a chi vorrà contrastare una legge che
entrasse in conflitto, anche in parte, con quello che la Corte deciderà.
Crede,
come il presidente Napolitano, che il proporzionale sia superato dal
referendum del ’93?
Il
referendum ha dato un’indicazione, ma non si può sostenere che abbia
introdotto un vincolo costituzionale contro il proporzionale. I
costituenti, proporzionalisti, furono lungimiranti e non vollero
costituzionalizzare la legge elettorale.
Le
chiedo ancora un giudizio sulla retorica delle riforme di governo e
maggioranza. La modifica del 138 era, dicevano, irrinunciabile; chi vi
si opponeva era un conservatore. Ma la modifica alla fine è saltata, e
senza una parola di autocritica.
Prima
della sentenza della Corte noi firmatari dell’appello “la via maestra”
avevamo scritto una lettera pubblica intitolata “l’urgenza e l’indecenza”.
L’indecenza era il tentativo di andare avanti sulle riforme con forzature
anche dopo che era venuta meno la possibilità politica di farlo. La
retorica delle riforme istituzionali continua ad essere usata, ed è
pericolosa perché finisce per legittimare i tentativi di forzature. Di
fronte alla clamorosa sconfitta di chi aveva sostenuto che la modifica del
138 ci avrebbe portato chissà dove, chiedo a Letta un po’ di misura. Anche
perché c’è un fatto nuovo: questo parlamento, dice la Corte, nasce con un
vizio di costituzionalità, la sua legittimazione politica –
sottolineo politica — a mettere le mani pesantemente sulla
Costituzione non è più piena.
È
la tesi del Movimento 5 stelle, e cioè che il parlamento non è legittimato
a fare le riforme?
Dei
5 stelle o no, noi l’abbiamo detto prima di tutta la bagarre. Per fare le
riforme oggi ci vuole prudenza. E un consenso largo.
Letta
infatti promette che comunque vada, le riforme non saranno approvate dai due
terzi del parlamento, per dare in ogni caso la possibilità di svolgere il
referendum confermativo.
È
apprezzabile ma non basta. Peraltro, indipendentemente dalla sentenza
della Corte, è opinione diffusa — anche nella maggioranza — che l’orizzonte
politico di questa legislatura è comunque ridotto al 2015, anziché essere
il 2018. Un altro parametro costituzionale saltato. Non dico che Letta
debba durare fino al 2018, ma registro un altro tassello della
decostruzione costituzionale.
Lei,
professore, crede che nel 2014 le riforme si faranno davvero?
Non
faccio previsioni. Ma bisogna impedire che con la fine del
bicameralismo perfetto e con la nuova legge elettorale venga
modificata surrettiziamente la forma di governo. Oggi le possibilità
culturali e politiche per impedirlo ci sono, e personalmente, e con la
schiera di volenterosi della via maestra, cercheremo di evitare che
succeda.
Arriviamo
al 2014. Un gruppo di intellettuali, fra cui lei, ha fatto un appello –
pubblicato sul manifesto – contro le politiche del rigore e il
pareggio di bilancio in Costituzione, il nuovo art.81. Sarà questo il
vostro nuovo fronte?
La
via maestra è stato un grande successo e ha determinato una forte e
variegata domanda che impone una riflessione. La traduzione che circola
ancora è che questo successo suggerisce se non un partitino, almeno una
lista alle europee. Non è così. Cercheremo di creare una mobilitazione
della “coalizione sociale”. E una delle ragioni del ritardo nel farci
sentire — che fine avete fatto?, ci chiedono in tanti — è stato darci un
minimo di struttura organizzativa. Ma senza alcuna centralizzazione,
anzi si è già determinata una forma di decentramento. Ora lavoriamo su tre
fronti. Il primo è l’articolo 81 e le leggi attuative, intorno al quale
costruire un’azione collettiva, anche referendaria. Secondo, l’abrogazione
dell’art.8 del famoso decreto del 2011 del governo Berlusconi, poi ripreso
dal governo Monti, che consente la contrattazione decentrata anche in
deroga alla legge. Umberto Romagnoli sul
manifesto è stato il primo che
ha messo in evidenza la riduzione privatistica del diritto del lavoro, una
regressione spaventosa dal punto di vista culturale e una
redistribuzione del potere a danno dei lavoratori e del sindacato, in
una fase in cui la crisi di per sé enfatizza il potere imprenditoriale.
Legato a questo c’è la legge sulla rappresentanza: oggi molti dicono sì, ma
si tratta di vedere come farla; e il reddito minimo, o di cittadinanza, o
universale, altra questione ineludibile, molto controversa a sinistra
e distorta dalla contrapposizione schematica fra reddito e lavoro. Poi
c’è il discorso dei beni comuni concretamente legato all’attuazione piena
del referendum sull’acqua; una delle componenti importanti della via
maestra ha già preso iniziative, a Milano ci sarà un ricorso al Tar contro
il criterio di determinazione delle tariffe da parte dell’autorità
competente. È un tema di battaglia politica: nel cosiddetto decreto Salva
Roma era stato introdotto un emendamento che obbligava il comune a
privatizzare l’Acea. Anche qui ci colleghiamo all’Europa: sono state
presentate a Bruxelles le firme di un’iniziativa dei cittadini per chiedere
alla Commissione di stabilire le caratteristiche del servizio idrico
europeo. E infine riprenderemo il tema della rappresentanza e delle
iniziative dei cittadini: cercheremo di rendere vincolante per il
parlamento l’obbligo di discutere e votare in aula le leggi di iniziativa
popolare, che talvolta raccolgono centinaia di migliaia di firme ma
finiscono in archivio.
Ma
dunque la via maestra non porterà i suoi rappresentanti nelle liste per
il parlamento europeo?
Fatte
salve le scelte individuali, e so che tanti si muovono in varie direzioni,
personalmente penso che tradurre questo lavoro di ricostruzione sociale
nella partecipazione a una lista non è la scelta da fare. È la mia
posizione, naturalmente. Altro potranno essere dichiarazioni singole o di
gruppi a sostegno di qualche candidato.
Daniela
Preziosi
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