sabato 31 agosto 2013
martedì 27 agosto 2013
TUSCOLANO'S DILEMMA. CHE FARE?
“Ma
domando: il giorno in cui si formerà il comitato popolare del Tuscolano (che
sarà pieno di gente oggi inconsapevole, che spera di poter ricominciare il
ciclo nasci-consuma-crepa) che si fa? Ci si va, oppure no, perché lì ci sono
quelli di Casa Pound, i grillini, i riciclati del PdCI, i signoraggisti, i
piddini civatini e mille altre strane creature?”
(Ecodellarete
15 agosto 2013)
“Rispetto
agli obiettivi ultimi, la mia personalissima opinione è che, in questa fase,
occorra ampliare il fronte, unendo nella battaglia di oggi anche classi sociali
e visioni del mondo che, domani, saranno certamente protagonisti di nuovi
conflitti. Non il 99%, ovviamente, ma una percentuale indefinita, la cui entità
sarà chiarita, a posteriori, dagli storici. Insomma, serve una spallata.”
(Ecodellarete,
16 agosto 2013)
Vladimir
Ilich Lenin probabilmente non conosceva il Tuscolano. È un quartiere nella
parte sud-orientale di Roma. Storicamente – insieme al vicino quartiere Appio
Latino – dagli anni Settanta è stato considerato di Destra. La sede del MSI in
via Acca Larentia nel 1978 fu teatro dell’uccisione di due militanti del Fronte
della Gioventù da parte di un gruppo terroristico di Sinistra. Negli scontri
successivi un terzo ragazzo venne ucciso da un ufficiale dei Carabinieri. Un
quartiere difficile insomma, almeno nel passato. Probabilmente Ecodellarete non
lo ha scelto a caso per esemplificare.
Torniamo
a Lenin, probabilmente non fu un caso neppure questo: sulla prima pagina Lenin
mise una frase di Lassalle scritta a Marx: “… La lotta di partito dà a un
partito forza e vitalità; la maggior prova di debolezza di un partito è la sua
dispersione e la scomparsa di barriere nettamente definite; epurandosi, un
partito si rafforza… ». Potrebbe essere già questa una risposta alla teoria
dell’ampliamento di fronte? Forse sì e probabilmente no, perché “Che fare?” non
è un manuale buono per tutte le epoche, è un documento, oramai storico, di
centoundici anni fa. Però funziona da spunto, perché, evidentemente, la domanda
“che fare?” esce sempre fuori. In forme diverse magari, assumendo la forma del
“e tu cosa proponi”? o simili. La frase che Lenin sceglie è programmatica e
dice in sostanza: non si va da nessuna parte se non si hanno chiare le proprie
idee. Diluirle non serve a nulla, anzi, è nocivo.
Invece,
a me pare, almeno dai dialoghi che sono emersi nei commenti, che ci sia una
idea che per certi versi funziona in questo modo:
siamo
nel bel mezzo di una crisi economica devastante
una
crisi economica è il miglior tessuto aggregante per le classi subalterne
qualcuno
sta prospettando una soluzione: l’uscita dall’Euro
l’uscita
dall’Euro è una cosa concreta, molto comunicabile e trasversale
approfittiamo
di questa occasione e facciamo un fare un passo avanti al nostro progetto
anticapitalista (che chiameremo magari antiglobalista)
il
passo in avanti lo facciamo con chi ci sta – tanto Destra e Sinistra – sono
concetti svuotati dalla storia.
Questa
idea è spinta anche dall’urgenza di far presto, magari prima che la crisi
finisca e si dissolva un collante aggregativo. Perciò vanno bene tutte le più
“strane creature” politiche. Certo ci sono lenin_che_faredelle differenze con
Casa Pound, con i
signoraggisti
di Alfonso Luigi Marra, con il PD (della corrente giusta), magari con i Massoni
di
qualche nuovo Rito ed Obbedienza, con quelli della MMT, con i Sovranisti, con
il movimento di Magdi Allam, etc, etc. Non è importante chi siano, si tratta di
allargare il fronte: il punto comune è l’uscita dall’Euro. Poi, dopo, vedremo
di affrontare le differenze. Insomma: se l’obiettivo ultimo è picconare il
capitalismo casinò, afferriamo questo tema e mettiamoci in direzione dell’onda.
E
però questa strategia (che somiglia più ad una tattica) assomiglia a certi
medicinali che servono a curarti le vesciche sui piedi ma hanno tante di quelle
controindicazioni ed effetti collaterali da mandarti definitivamente in
ospedale. Ma chiediamoci prima di tutto: è una strategia realistica? Se penso
ad un tavolo di conferenza stampa con seduti insieme, Civati, Marra, Allam,
Ferrero, Rizzo, Fiore io qualche dubbio sul realismo comincio a nutrirlo. Un
tavolo del genere sfiora la fantascienza politica, però, siccome tutto è laicamente
possibile e religiosamente non bisogna porre freni alla Divina Provvidenza,
ammettiamo che un tavolo del genere, magari anche più affollato lo si componga.
Ciò
ammesso usare il tema dell’uscita dall’Euro richiede come minimo qualcuno che
mastichi economia, sia presentabile, crei le basi teoriche con un minimo di
autorevolezza. Insomma bisognerebbe arruolare un economista. Uno serio in
circolazione potrebbe essere Brancaccio, ma Brancaccio sembra non amare l’idea
del “Fronte Unico Anti Euro”, magari è un po’ schizzinoso e lui dall’Euro vuole
uscire da Sinistra (e quindi non va bene perché nega l’ultimo punto della
strategia). Se si ripiega su qualcun altro il pericolo è che l’economista non
si accontenti di portare l’acqua con le orecchie al progetto. Ossia:
l’economista potrebbe essere uno che rischia di suo, la sua carriera e vuole un
ruolo meno ancillare. In un caso del genere l’economista si fa un suo giro per
le varie “strane creature” in incontri pubblici. Incontra, che so, i
monarchici, i marxisti dell’Illinois, i Sovranisti, le schegge impazzite del
PdCI, qualche grillino. Dice le sue cose e poi si accorge che ciascuno di
questi gruppi ha un disperato bisogno di lui, più di quanto lui potrebbe avere
bisogno di loro. Allora magari l’economista, che non è scemo, pensa: “se mi
devo esporre mi espongo da me”. Perciò tornato a casa – dopo ciascuno di questi
incontri – l’economista fonda un blog, si stufa di presentare libri altrui
sull’uscita dall’Euro e si scrive il suo libro da sé. Siccome non ha un passato
memorabile dal punto di vista politico (ossia fino a ieri nessuno se lo filava
a parte i suoi studenti) ha le carte in regola per attirare, lui sì, ogni sorta
di strana creatura in un ambiente realmente “interclassista”. Così viene
seguito da una crescente schiera di seguaci tutti “ex” qualcosa, operai,
imprenditori, bottegai, professionisti che, finalmente hanno trovato qualcuno
che le cose le dice e le dice “cattive”, infonde spirito di squadra e difende
bene il suo orticello. Magari trova anche l’interesse dei media. I media
infatti di economia non capiscono una beata fava e amano moltissimo far
emergere idee diverse dal mainstream che fanno più audience. A questo punto
l’economista decide che gli serve un megafono e per averlo occorrono due cose:
un amico giornalista e qualcosa che abbia un nome e assomigli ad un serio
“pensatoio”. Un giornalista ambizioso, magari preso a pedate da una rete
televisiva e desideroso di fare il botto in quella nuova, lo si trova sempre.
Un paio di autorevoli cariatidi le si trovano sempre e fanno immagine, se c’è
un banchiere o un amico di banchieri pure meglio. Et voilà l’economista si è
messo in proprio e il Fronte Unico Anti Euro è ancora fermo al palo.
L’economista ha un “assetto variabile”, può “correggere il tiro”, usare chiavi
dialettiche diverse (più aggressivo in rete, più conciliante con un Manifesto,
per esempio).
Ma
è fermo al palo perché l’economista si è fatto i calzetti suoi o perché
qualcosa nella progettualità Del Fronte non funziona? “La seconda che hai
detto” direbbe Guzzanti.
Siamo
di fronte al “Dilemma del Tuscolano”. Andarci o non andarci? Se ci vado i
pericoli sono quelli. E – a parte la possibilità in termini reali che tutte le
“strane creature” si coalizzino – il rischio è che chi simpatizza per una
“strana creatura” si disgusti a vederla insieme con una “strana creatura” di
segno opposto. Così l’illusione che la somma di piccole forze dia un risultato
(in termini di consenso) maggiore del valore di ciascuna si rivela, appunto,
una scomemssa persa, se non una chimera.
Bene.
Al Comitato del Tuscolano non ci si va. Ed allora si ritorna al “Che fare?”.
Forse la prima cosa da fare potrebbe essere prendere in seria considerazione la
frase di Lassalle e decidere che i compagni di strada di un viaggio vanno presi
con dei criteri di maggiore contiguità. Giusto per evitare una armata
Brancaleone dalla quale un economista serio come Brancaccio si terrebbe (e come
rimproverarlo?) a debita distanza fisica e politica. Dopo aver deciso che il
viaggio lo si fa insieme soltanto a “strane creature” compatibili politicamente
ci si arma di santa pazienza. Perché illudersi di imboccare ogni scorciatoia è
velleitario. Come d’altro canto è illusorio pensare di essere Noè ed imbarcare
sulla propria arca tutte le diverse creature del mondo. Se c’è una inondazione
è più realistico pensare di poter far salire sull’arca i parenti, gli amici, i
vicini di casa che non i passanti sconosciuti. In più, non si può far
accomodare nella stessa cabina della nave lo stupratore seriale e la fidanzata,
auspicando che il comune bisogno di salvezza sia sufficiente a non far accadere
spiacevoli incidenti (spiacevoli, soprattutto per la fidanzata).
Scelti
i compagni di viaggio un primo aspetto positivo è che si acquista in
credibilità ed è, per questo, possibile costruire un luogo accogliente dove,
magari far sedere attorno ad un tavolo personaggi seri. Magari nel frattempo
l’economista che si è messo in proprio si è montato la testa e si domanda cosa
fa di mestiere un sociologo e se gli serve un sociologo. Ecco allora, caro
Fiorenzo, è venuto il momento di fare un tavolo non con le “strane creature”
assortite, non un posto provvisorio e comune per il topo e il serpente. Un
tavolo al quale ci siano – di un’area contigua – sociologi, storici, antropologi,
economisti e tutti quelli che servono, perché servono tutti. Riappropriandosi
della propria identità politica (non partitica), ricentrandosi sulla propria
area. Il che significa fare una cosa seria. E vedrai che le persone, alle cose
fatte bene, aderiscono più di quanto tu non sospetti.
Dice
Savasandir: sono gli “intellettuali che
devono cambiare linguaggio per andare materialmente in mezzo alla gente” e – in
una stessa frase dice una verità e una cosa senza senso. Si tratta di far
diffondere il messaggio che gli intellettuali mandano, divulgandolo e
rendendolo potabile alla gente. E questo compito è, anche, uno dei compiti del
vero politico e uno dei contenuti della politica costruttiva. Lasciamo che gli
intellettuali continuino ad avere il tempo per continuare ad essere
intellettuali. Ascoltiamoli e impegniamoci a tradurre per tutto le buone idee.
Entriamo in una logica multidisciplinare perché, quello che vuoi affrontare, è
solo apparentemente un tema economico e non può essere affrontato da un’ottica
puramente economica.
La
risposta alla domanda “che fare?” è dunque, riassumendo questa:
- riappropriarsi
della propria identità politica
- scegliersi
compagni di viaggio contigui lasciando perdere strane e/o improbabili creature
- lasciar
perdere qualsiasi egonomista disposto a farsi i calzetti suoi
- acquistare
credibilità e creare un soggetto comune che metta intorno al tavolo persone in grado di ragionare da angolature diverse
- tradurre
questi ragionamenti in posizioni concrete, dibatterle, farle diventare proposta
politica integrandola con il sentire comune del gruppo di lavoro.
- diffonderle e discutere
giovedì 22 agosto 2013
STRANIERO?
Stiamo parlando di Rom, di Arabi, di extracomunitari?
No è il “Rapporto sugli immigrati italiani” del 1912 del Congresso degli Stati Uniti
STRANIERO
Straniero! Ma non per il mondo,
non per le lacrime di mia madre,
per mogli sulla riva del mare
per figli cresciuti senza padre.
Straniero! Ma non per i fratelli
bruciati dal sole con gli occhi al cielo,
nei deserti d’Africa o nel mare,
non per le notti d’inverno e il gelo.
Straniero! Ma non per chi ha comprato
I miei orizzonti e la mia pelle scura
le mie braccia, la schiena piegata
il mio sudore alla terra e la paura.
Straniero! Ma non per la vita che rimane
e il suo desiderio che è ancor più vero
affidato al cielo e alle nuvole italiane,
che anche il mio sangue non sia più straniero!
MIZIO
lunedì 19 agosto 2013
SIGNORI MIEI, E’ LA CRISI!
immagine reperita nel web
Ovunque
si vada, con chiunque si parli, in un modo o nell’altro si finisce a parlare di
crisi. Crisi per tutti i gusti, economica, di valori, politica, sociale. Ormai
la nostra vita è permeata fin nella più piccola cellula dal rapporto quotidiano
e indissolubile con la crisi. Senza voler addentrarmi nei significati più
profondi e sociologici delle crisi di carattere personale o di rapporti o
culturali, cercherò di soffermarmi sulle crisi sociale che viviamo collettivamente
e, quindi, quelle economica e politica.
Siamo
passati in pochi anni dalla crisi militar-terroristica provocata dall’attentato
alle torri gemelle, alla crisi finanziaria globale entrambe (non a caso) nate
in America e entrambe fatte vivere come eventi catastrofici e ineluttabili.
Se
in Europa la crisi derivante dallo shock delle Torri ha, tutto sommato, avuto
un impatto relativo, visto che gli USA hanno in prima persona pensato alla sua
risoluzione con l’aggressione all’Iraq, prima, e all’Afghanistan, poi, chiedendo
ai suoi alleati europei un supporto militare poco più che simbolico rispetto
l’entità degli interventi, la crisi economica finanziaria nata dalle
speculazioni e dalle falle del sistema bancario soprattutto americano, si è
abbattuta, invece, sugli europei con la brutalità
di uno tsunami.
Tsunami,
ben inteso, anche in questo caso come sempre, che non colpisce a caso ma va ad
impattare in situazioni già precarie e individuate, già da tempo, come quelle
da “regolarizzare”.
Non
casualmente, difatti, la crisi ha offerto l’occasione per ridefinire rapporti
di forza all’interno dell’UE, che, nel processo di globalizzazione economica
aveva seguito la traccia delle multinazionali americane, esportando lavoro nei
paesi extra europei con mano d’opera a basso costo. Con lo strumento e l’alibi
della crisi, la mano d’opera a basso
costo, preparata e soprattutto disperata, la stanno creando in casa, in
particolare nell’Europa del Sud. I greci, i portoghesi, gli spagnoli e anche
gli italiani sono chiamati in nome del rigore, dei sacrifici, e degli interessi
dei paesi forti (Germania in primis) a riprendere le valigie, non più di
cartone, e a ripercorrere quelle strade che già avevano percorso i loro nonni
50 anni fa. Allora si partiva con treni lunghi e malinconici , oggi, in maniera
più moderna, con i voli delle compagnie
LowCost (altro luminoso esempio dello sfruttamento in nome del liberismo di
“mercato”).
Difatti,
il buon Marx ce lo insegna, il capitalismo ha bisogno di avere sempre a
disposizione una massa di disperati da utilizzare come arma di ricatto nei
confronti di eventuali richieste sindacali e/o salariali e per innalzare il
livello dei profitti aumentando la quota di plus-valore prodotta con il minor
costo dei lavoro.
Il
fatto di delocalizzare gli impianti di produzione ha funzionato bene per
diversi anni assicurando guadagni e profitti ai “sciur padrun” ( si perché
anche se oggi si chiamano imprenditori, sono sempre i padroni), poi le
politiche economiche di alcuni paesi, le richieste di maggior giustizia dei
lavoratori di quei paesi, gli aumentati costi di trasporto, hanno aguzzato gli
ingegni di lor signori.
Perché
non creare le stesse condizioni di bisogno all’interno della nostra società,
gli strumenti ci sono : l’UE, l’Euro, i vari patti di stabilità, la BCE e anche
le motivazioni date dalla crisi bancaria proveniente dall’America. E allora
ecco che la crisi, responsabilità di banche, speculatori e di politici miopi e
complici, diventa l’arma di ricatto più potente, inferiore come strumento di
condizionamento di massa solo alla paura e prospettiva di una guerra. E allora
signori miei c’è la crisi, quindi se volete lavorare e avere speranze per una
vita dignitosa, lasciate le vostre case, i vostri cari, la vostra vita e andate
a servire i nuovi padroni che sfrutteranno le vostre capacità e le vostre
competenze, pagate dai vostri concittadini, per ingrassare i loro conti in
banca e aumentare ancora le differenze economiche tra i loro e i vostri paesi.
Se
invece vi ostinate a voler rimanere nelle vostre nazioni dovrete adattarvi ad
una vita di pura sopravvivenza e contraddistinta dalla precarietà più assoluta.
Ma
allora non c’è speranza? Non c’è via d’uscita?
Certo
che c’è! E parte proprio da una lettura completamente diversa della situazione
economica e sociale. Come si fa a parlare di crisi, quando al mondo si produce molto
di più di quanto servirebbe? Come si fa ad affamare interi popoli per un debito
che, tutti sanno, impossibile da pagare, visto che a livello globale il debito
supera di gran lunga la ricchezza circolante?
Si
può fare, si può fare, semplicemente leggendo la realtà con altri occhi che non
siano quelli del capitalismo e, soprattutto, della sua ultima e più deteriore
versione quella del liberismo economico-finanziario.
Ci
vuole coraggio, competenza e convinzione, ne convengo, ma non c’è altra via a
meno di non voler dare credito ai
pifferai che promettono continuamente riprese dell’uno virgola qualcosa spostando,
però, sempre più in là l’inizio delle stesse. E anche laddove ci fosse una
timida ripresa non cambiando le regole del gioco questa sarà sempre effimera e
di breve durata. Perchè, come detto prima il capitalismo ha bisogno e si nutre
delle crisi.
Il
responsabile primo e unico delle crisi è stato e sarà sempre uno: il
capitalismo!
MIZIOI
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sabato 17 agosto 2013
VIETATO VIETARE
Se
esiste un tratto saliente che contraddistingue gli ultimi decenni della civiltà
occidentale, questo è caratterizzato dalla sempre più marcata bulimia di leggi
e leggine che tentando di preservare un’immaginaria libertà collettiva ha di
fatto reso obbligatorio tutto ciò che non è stato preventivamente vietato.
Nonostante
fin dai tempi dell'antica Grecia si fosse realizzato come il miglior governo
sia quello che riesce a mantenere l'ordine e la pace sociale attraverso il
minor numero di leggi possibile, tutti coloro che hanno governato e governano
le democrazie iper liberiste nelle quali viviamo, hanno deciso di procedere in
senso diametralmente opposto rispetto a questa massima, calpestando in primo
luogo il buon senso, prima ancora dei diritti dei cittadini.....
Chiunque
abbia vissuto, come il sottoscritto, la propria gioventù a cavallo degli anni
70, percepisce con chiarezza il peso sempre crescente di una vera e propria
jungla di leggi costruite con lo scopo dichiarato di preservare la libertà,
mentre al contrario di fatto ne provocano l’eutanasia.
Possedere
un’auto e circolare con essa è ormai diventato un sacrificio che rasenta
l’autolesionismo. Fra tasse di circolazione, assicurazioni salasso, revisioni
obbligatorie, controlli dei fumi, zone consentite o meno a seconda del mezzo
(euro1-2-2-4-5), pedaggi per entrare nelle “città stato”, cinture di sicurezza,
autovelox, telecamere, palloncini, parcheggi a ticket, quella che
nell’immaginario collettivo era stata veicolata come un simbolo di libertà si è
ormai trasformata in un mero esempio di coercizione all’ennesima potenza.
Ma
sulla falsariga di quanto accaduto con l’auto ogni aspetto della nostra vita è
stato è stato regolamentato da una marea di obblighi e divieti che orientano
ogni nostra azione, rendendoci simili a tanti automi, deprivati del libero
arbitrio e costretti a procedere su binari predefiniti che altri hanno
tracciato per noi.
Vietato
fumare, vietato vendere o consumare alcolici in orari o luoghi non consoni,
vietato dare da mangiare ai piccioni, vietato sostare nei parchi la sera,
portare gli zoccoli ai piedi, passeggiare a torso nudo, baciare la fidanzata,
giocare a pallone in spiaggia e perfino fare i castelli di sabbia.
Obbligatorio
tenere le luci dell’auto accese anche di giorno, vaccinare i bimbi, nonostante
ci sia il rischio di farli ammalare gravemente, avere un conto in banca anche
se non lo si vuole, compilare censimenti raccontando i fatti nostri e rendere
conto a terzi del nostro tenore di vita, nonostante si tratti di un fatto
privato.
Un
divieto di qua, un obbligo di là, il nostro percorso è ormai simile ad un vero
e proprio campo minato, dove il cittadino viene trattato alla stessa stregua di
un “bambino scemo” da monitorare e controllare 24 ore su 24, affinché non
compia l’errore di arrogarsi il diritto di prendere in proprio una qualche
decisione.
Ma
davvero l’uomo deprivato del libero arbitrio e della propria libertà, nel nome
di una presunta libertà collettiva può aspirare a diventare un uomo migliore? E
soprattutto può considerarsi ancora un uomo?
M.Cedolin
domenica 4 agosto 2013
L' ARMA PIU' POTENTE DEL CAPITALISMO? I DISOCCUPATI!
Mentre
la disoccupazione ha raggiunto livelli record in Europa con un tasso che supera
il 12%, in una lunga intervista per Standaard, Bart De Wever [leader del
Partito di Nuova Alleanza Fiamminga, N-VA] dichiara che la contraddizione tra
capitale e lavoro non è più rilevante: la nuova linea di demarcazione è tra
produttivi e non produttivi. Per lui, "lo Stato è un mostro che ispira ed
espira denaro. Chi apporta denaro? Quelli che creano valore aggiunto. Chi
consuma denaro? I non produttivi, così importanti elettoralmente che consentono
di perpetuare questa politica".
In
Francia, il deputato di estrema destra Jacques Bompard ha presentato un disegno
di legge per trasformare il disoccupato in un lavoratore gratuito. Questa idea,
tutt'altro che nuova, era già nel programma di Nicolas Sarkozy nel 2007,
suggerendo che "i titolari del minimo sociale siano impegnati in attività
di interesse generale, per incoraggiare tutti a trovare un posto di lavoro,
piuttosto che vivere di assistenza". In Inghilterra, per giustificare una
nuova riforma del sistema di previdenza sociale per ridurre la quantità dei
sussidi di disoccupazione, David Cameron dichiara oggi che il sistema "è
diventato una scelta di vita per alcuni" .Gli interventi raccomandati da
questi politici sono quindi diretti a ripristinare la "giustizia" di
un sistema che penalizza chi "lavora sodo" e premiare chi indulge
nella "dipendenza". Questo discorso è diventato egemonico e incarna
una tendenza generale sul continente dove è diventato luogo comune esaltare
"chi si alza presto", contro gli "assistiti", i
"produttivi" contro gli "improduttivi" e per meglio
legittimare le riforme di austerità e la crescita della disuguaglianza.
Questa
idea ci rinvia oggi al "modello tedesco", con la promozione di
lavori di interesse generale pagati 1 euro all'ora per ottenere l'assistenza
sociale. Il vantaggio di questo modello sviluppato sotto il governo Schroeder
tra il 2003-2005, risiede precisamente nel fatto che si concentra sulla
ristrutturazione radicale del sistema di disoccupazione e degli ammortizzatori
sociali legandoli a profonde riforme in materia di impiego, le riforme Hartz.
Questa riconfigurazione dello stato sociale tedesco viene quindi posta a
sostegno della riforma del mercato del lavoro, costringendo i disoccupati ad
accettare un posto di lavoro anche se lo stipendio percepito è inferiore
all'indennità di disoccupazione, facendo esplodere il fenomeno dei
"lavoratori poveri". Lungi dal limitarsi ad una politica di
moderazione salariale, il modello tedesco ha come caratteristica centrale
quella d'aver incentrato i suoi sforzi sulle "riserve" (disoccupati,
poveri, precari) e non sui lavoratori "stabili". Ma per questa via,
ha causato una profonda destabilizzazione di tutto il mercato del lavoro senza
dover affrontare direttamente i settori più sindacalizzati e combattivi del
salariato. Tali riforme non sembrano limitate alla Germania, ma invece si
generalizzano in tutta Europa. Si pone con insistenza una questione: come
spiegare la relativa passività con cui i sindacati e i movimenti operai dei
vari paesi hanno risposto a queste riforme. In Belgio la riforma per la
riduzione progressiva degli ammortizzatori sociali ha mobilitato solo frange
minoritarie del salariato, in Germania le riforme radicali Hartz sono state
accompagnate da loro. Come spiegare una mobilitazione così debole da parte
degli "attivi" quando si tratta di questioni che interessano i
"non-attivi"?
Per
capire questo problema, è necessario rifarsi alla polarizzazione dei salari
verificatasi tra "attivi" e "non attivi" a seguito
dell'esplosione della disoccupazione, fin dagli anni '70. Questo ha cambiato
profondamente la visione popolare del mondo, con la separazione tra
"loro" (i padroni) e "noi" (i lavoratori), così ben
studiata da Richard Hoggart [intellettuale britannico, sociologo, ha dedicato
particolare attenzione alla cultura popolare, ndt]. Radicata nell'esperienza
quotidiana del mondo del lavoro, questa visione permetteva, anche prima di ogni
pratica politica, la solidarietà culturale della classe operaia, fondando
l'efficacia del discorso politico della sinistra .La disgregazione degli
ambienti popolari ha considerevolmente destabilizzato questa solidarietà,
introducendo un "loro" al di sotto di "noi". Parti delle
classi popolari hanno iniziato a nutrire la sensazione che "quelli"
in alto non facevano nulla contro gli abusi di "quelli" in basso. Nel
suo studio sul mondo operaio Oliver Schwartz ha scritto che: "Si produce
qui una sorta di coscienza popolare che (...) si rivolta alternativamente
contro quelli in alto e quelli in basso". Questa struttura corrisponde
parzialmente al nuovo profilo che il Fronte Nazionale [di Le Pen] cerca di
darsi per conquistare il voto delle classi lavoratrici: schierandosi contro il
"sistema", le "elite" e il "dio denaro", ma
attaccando contemporaneamente i disoccupati, gli immigrati, gli irregolari che
ingrossano le fila degli "assistiti". Questa visione della società
non dovrebbe tuttavia renderci ciechi riguardo al fatto che la logica politica
della sinistra non è quella che rafforza questa dinamica, ma al contrario,
quella che la supera. Sia sul piano teorico, che pratico.
Sul
piano teorico significa rompere con la tendenza che ha sostituito il tema della
centralità della questione operaia con quello dell'"esclusione", dal
periodo post-bellico. In effetti, anche se la problematica si articola in modo
differente nei diversi paesi, è tuttavia la questione delle "riserve"
in tutte le sue varianti (disoccupati, poveri, precari, immigrati esclusi, ...)
ad aver occupato il dibattito pubblico e scientifico per decenni. Come ha
notato Xavier Vigna, c'è una nuova messa a fuoco "dal mondo del lavoro
all'esclusione, alla povertà e alla disoccupazione", che, paradossalmente,
ha contribuito a plasmare questo dualismo nel dibattito pubblico. Separata
dall'occupazione, la categoria dei "disoccupati", dei
"poveri", dei "precari", non si iscrive più nella nozione
di sfruttamento alla base dei rapporti economici quanto invece a forme di
dominio, a situazioni di privazione relativa in termini monetari, sociali o
psicologici.
A
questo proposito è interessante notare come Marx poneva il problema alla sua
epoca. Considerando che "Il concetto di lavoratore libero implica che egli
è povero: virtualmente povero", concepiva la nozione di pauperismo come
latente nel lavoro salariato. Lo è virtualmente poiché è il risultato
contraddittorio di uno stesso e unico sviluppo, quello che stabilisce una
relazione fatale tra accumulazione di capitale e accumulazione di miseria.
Fredric Jameson inoltre sottolineava che dobbiamo partire dalla struttura del
modo di produzione e quindi dalla struttura dello sfruttamento e non dalle sue
forme immediate e apparenti. Il dominio o l'esclusione sono per lui, non solo
"il risultato di questa struttura, ma anche il modo in cui si riproducono"
e non il contrario. In questo modo ci incoraggia a "pensare la
disoccupazione come una categoria dello sfruttamento" e non solo come uno
stato "precario" o una situazione separata dallo sfruttamento del
lavoro salariato.
In
termini pratici, è chiaro che le organizzazioni di difesa dei disoccupati e dei
poveri troppo spesso trattano questi problemi indipendentemente dal mondo del
lavoro. Eppure è proprio questa separazione che determina aspre riforme nei
confronti delle "riserve", eludendo una forte protesta sociale.
Questa mancanza di interesse - vedi la posizione talvolta conservatrice della
classe operaia - verso gli "assistiti", diventa uno dei temi centrali
dei movimenti sociali per gli anni a venire contro l'austerità. La capacità che
avranno le organizzazioni politiche e sindacali a sensibilizzare e legare gli
interessi delle "riserve" a quelli della classe operaia
"stabile" determineranno il successo o il fallimento delle lotte
future. Inoltre, dall'inizio dell'industrializzazione, Marx rimarcava che un
passo decisivo nello sviluppo della lotta sociale coincide con il momento in
cui i lavoratori scoprono che l'intensità della concorrenza che si fanno gli
uni con gli altri dipende interamente dalla pressione esercitata dalle riserve
e decidono di unirsi per organizzare obiettivi e azioni comuni tra gli occupati
e i non occupati.
di
Daniel Zamora
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