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Ovunque
si vada, con chiunque si parli, in un modo o nell’altro si finisce a parlare di
crisi. Crisi per tutti i gusti, economica, di valori, politica, sociale. Ormai
la nostra vita è permeata fin nella più piccola cellula dal rapporto quotidiano
e indissolubile con la crisi. Senza voler addentrarmi nei significati più
profondi e sociologici delle crisi di carattere personale o di rapporti o
culturali, cercherò di soffermarmi sulle crisi sociale che viviamo collettivamente
e, quindi, quelle economica e politica.
Siamo
passati in pochi anni dalla crisi militar-terroristica provocata dall’attentato
alle torri gemelle, alla crisi finanziaria globale entrambe (non a caso) nate
in America e entrambe fatte vivere come eventi catastrofici e ineluttabili.
Se
in Europa la crisi derivante dallo shock delle Torri ha, tutto sommato, avuto
un impatto relativo, visto che gli USA hanno in prima persona pensato alla sua
risoluzione con l’aggressione all’Iraq, prima, e all’Afghanistan, poi, chiedendo
ai suoi alleati europei un supporto militare poco più che simbolico rispetto
l’entità degli interventi, la crisi economica finanziaria nata dalle
speculazioni e dalle falle del sistema bancario soprattutto americano, si è
abbattuta, invece, sugli europei con la brutalità
di uno tsunami.
Tsunami,
ben inteso, anche in questo caso come sempre, che non colpisce a caso ma va ad
impattare in situazioni già precarie e individuate, già da tempo, come quelle
da “regolarizzare”.
Non
casualmente, difatti, la crisi ha offerto l’occasione per ridefinire rapporti
di forza all’interno dell’UE, che, nel processo di globalizzazione economica
aveva seguito la traccia delle multinazionali americane, esportando lavoro nei
paesi extra europei con mano d’opera a basso costo. Con lo strumento e l’alibi
della crisi, la mano d’opera a basso
costo, preparata e soprattutto disperata, la stanno creando in casa, in
particolare nell’Europa del Sud. I greci, i portoghesi, gli spagnoli e anche
gli italiani sono chiamati in nome del rigore, dei sacrifici, e degli interessi
dei paesi forti (Germania in primis) a riprendere le valigie, non più di
cartone, e a ripercorrere quelle strade che già avevano percorso i loro nonni
50 anni fa. Allora si partiva con treni lunghi e malinconici , oggi, in maniera
più moderna, con i voli delle compagnie
LowCost (altro luminoso esempio dello sfruttamento in nome del liberismo di
“mercato”).
Difatti,
il buon Marx ce lo insegna, il capitalismo ha bisogno di avere sempre a
disposizione una massa di disperati da utilizzare come arma di ricatto nei
confronti di eventuali richieste sindacali e/o salariali e per innalzare il
livello dei profitti aumentando la quota di plus-valore prodotta con il minor
costo dei lavoro.
Il
fatto di delocalizzare gli impianti di produzione ha funzionato bene per
diversi anni assicurando guadagni e profitti ai “sciur padrun” ( si perché
anche se oggi si chiamano imprenditori, sono sempre i padroni), poi le
politiche economiche di alcuni paesi, le richieste di maggior giustizia dei
lavoratori di quei paesi, gli aumentati costi di trasporto, hanno aguzzato gli
ingegni di lor signori.
Perché
non creare le stesse condizioni di bisogno all’interno della nostra società,
gli strumenti ci sono : l’UE, l’Euro, i vari patti di stabilità, la BCE e anche
le motivazioni date dalla crisi bancaria proveniente dall’America. E allora
ecco che la crisi, responsabilità di banche, speculatori e di politici miopi e
complici, diventa l’arma di ricatto più potente, inferiore come strumento di
condizionamento di massa solo alla paura e prospettiva di una guerra. E allora
signori miei c’è la crisi, quindi se volete lavorare e avere speranze per una
vita dignitosa, lasciate le vostre case, i vostri cari, la vostra vita e andate
a servire i nuovi padroni che sfrutteranno le vostre capacità e le vostre
competenze, pagate dai vostri concittadini, per ingrassare i loro conti in
banca e aumentare ancora le differenze economiche tra i loro e i vostri paesi.
Se
invece vi ostinate a voler rimanere nelle vostre nazioni dovrete adattarvi ad
una vita di pura sopravvivenza e contraddistinta dalla precarietà più assoluta.
Ma
allora non c’è speranza? Non c’è via d’uscita?
Certo
che c’è! E parte proprio da una lettura completamente diversa della situazione
economica e sociale. Come si fa a parlare di crisi, quando al mondo si produce molto
di più di quanto servirebbe? Come si fa ad affamare interi popoli per un debito
che, tutti sanno, impossibile da pagare, visto che a livello globale il debito
supera di gran lunga la ricchezza circolante?
Si
può fare, si può fare, semplicemente leggendo la realtà con altri occhi che non
siano quelli del capitalismo e, soprattutto, della sua ultima e più deteriore
versione quella del liberismo economico-finanziario.
Ci
vuole coraggio, competenza e convinzione, ne convengo, ma non c’è altra via a
meno di non voler dare credito ai
pifferai che promettono continuamente riprese dell’uno virgola qualcosa spostando,
però, sempre più in là l’inizio delle stesse. E anche laddove ci fosse una
timida ripresa non cambiando le regole del gioco questa sarà sempre effimera e
di breve durata. Perchè, come detto prima il capitalismo ha bisogno e si nutre
delle crisi.
Il
responsabile primo e unico delle crisi è stato e sarà sempre uno: il
capitalismo!
MIZIOI
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