lunedì 19 agosto 2013

SIGNORI MIEI, E’ LA CRISI!

immagine reperita nel web

Ovunque si vada, con chiunque si parli, in un modo o nell’altro si finisce a parlare di crisi. Crisi per tutti i gusti, economica, di valori, politica, sociale. Ormai la nostra vita è permeata fin nella più piccola cellula dal rapporto quotidiano e indissolubile con la crisi. Senza voler addentrarmi nei significati più profondi e sociologici delle crisi di carattere personale o di rapporti o culturali, cercherò di soffermarmi sulle crisi sociale che viviamo collettivamente e, quindi, quelle economica e politica.
Siamo passati in pochi anni dalla crisi militar-terroristica provocata dall’attentato alle torri gemelle, alla crisi finanziaria globale entrambe (non a caso) nate in America e entrambe fatte vivere come eventi catastrofici e ineluttabili.
Se in Europa la crisi derivante dallo shock delle Torri ha, tutto sommato, avuto un impatto relativo, visto che gli USA hanno in prima persona pensato alla sua risoluzione con l’aggressione all’Iraq, prima, e all’Afghanistan, poi, chiedendo ai suoi alleati europei un supporto militare poco più che simbolico rispetto l’entità degli interventi, la crisi economica finanziaria nata dalle speculazioni e dalle falle del sistema bancario soprattutto americano, si è abbattuta, invece,  sugli europei con la brutalità di uno tsunami.
Tsunami, ben inteso, anche in questo caso come sempre, che non colpisce a caso ma va ad impattare in situazioni già precarie e individuate, già da tempo, come quelle da “regolarizzare”.
Non casualmente, difatti, la crisi ha offerto l’occasione per ridefinire rapporti di forza all’interno dell’UE, che, nel processo di globalizzazione economica aveva seguito la traccia delle multinazionali americane, esportando lavoro nei paesi extra europei con mano d’opera a basso costo. Con lo strumento e l’alibi della  crisi, la mano d’opera a basso costo, preparata e soprattutto disperata, la stanno creando in casa, in particolare nell’Europa del Sud. I greci, i portoghesi, gli spagnoli e anche gli italiani sono chiamati in nome del rigore, dei sacrifici, e degli interessi dei paesi forti (Germania in primis) a riprendere le valigie, non più di cartone, e a ripercorrere quelle strade che già avevano percorso i loro nonni 50 anni fa. Allora si partiva con treni lunghi e malinconici , oggi, in maniera più moderna,  con i voli delle compagnie LowCost (altro luminoso esempio dello sfruttamento in nome del liberismo di “mercato”).
Difatti, il buon Marx ce lo insegna, il capitalismo ha bisogno di avere sempre a disposizione una massa di disperati da utilizzare come arma di ricatto nei confronti di eventuali richieste sindacali e/o salariali e per innalzare il livello dei profitti aumentando la quota di plus-valore prodotta con il minor costo dei lavoro.
Il fatto di delocalizzare gli impianti di produzione ha funzionato bene per diversi anni assicurando guadagni e profitti ai “sciur padrun” ( si perché anche se oggi si chiamano imprenditori, sono sempre i padroni), poi le politiche economiche di alcuni paesi, le richieste di maggior giustizia dei lavoratori di quei paesi, gli aumentati costi di trasporto, hanno aguzzato gli ingegni di lor signori.
Perché non creare le stesse condizioni di bisogno all’interno della nostra società, gli strumenti ci sono : l’UE, l’Euro, i vari patti di stabilità, la BCE e anche le motivazioni date dalla crisi bancaria proveniente dall’America. E allora ecco che la crisi, responsabilità di banche, speculatori e di politici miopi e complici, diventa l’arma di ricatto più potente, inferiore come strumento di condizionamento di massa solo alla paura e prospettiva di una guerra. E allora signori miei c’è la crisi, quindi se volete lavorare e avere speranze per una vita dignitosa, lasciate le vostre case, i vostri cari, la vostra vita e andate a servire i nuovi padroni che sfrutteranno le vostre capacità e le vostre competenze, pagate dai vostri concittadini, per ingrassare i loro conti in banca e aumentare ancora le differenze economiche tra i loro e i vostri paesi.
Se invece vi ostinate a voler rimanere nelle vostre nazioni dovrete adattarvi ad una vita di pura sopravvivenza e contraddistinta dalla precarietà più assoluta.
Ma allora non c’è speranza? Non c’è via d’uscita?
Certo che c’è! E parte proprio da una lettura completamente diversa della situazione economica e sociale. Come si fa a parlare di crisi, quando al mondo si produce molto di più di quanto servirebbe? Come si fa ad affamare interi popoli per un debito che, tutti sanno, impossibile da pagare, visto che a livello globale il debito supera di gran lunga la ricchezza circolante?
Si può fare, si può fare, semplicemente leggendo la realtà con altri occhi che non siano quelli del capitalismo e, soprattutto, della sua ultima e più deteriore versione quella del liberismo economico-finanziario.
Ci vuole coraggio, competenza e convinzione, ne convengo, ma non c’è altra via a meno  di non voler dare credito ai pifferai che promettono continuamente riprese dell’uno virgola qualcosa spostando, però, sempre più in là l’inizio delle stesse. E anche laddove ci fosse una timida ripresa non cambiando le regole del gioco questa sarà sempre effimera e di breve durata. Perchè, come detto prima il capitalismo ha bisogno e si nutre delle crisi.
Il responsabile primo e unico delle crisi è stato e sarà sempre uno: il capitalismo!


MIZIOI

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