Enrico
Berlinguer concede un’intervista a Eugenio Scalfari per la Repubblica: ne nasce
una requisitoria aspra contro gli altri partiti.
«I
partiti non fanno più politica», mi dice Enrico Berlinguer, ed ha una piega
amara nella bocca e, nella voce, come un velo di rimpianto. Mi fa una curiosa
sensazione sentirgli dire questa frase. Siamo immersi nella politica fino al
collo: le pagine dei giornali e della Tv grondano di titoli politici, di
personaggi politici, di battaglie politiche, di slogans politici, di formule
politiche, al punto che gli italiani sono stufi, hanno ormai il rigetto della
politica e un vento di qualunquismo soffia robustamente dall’Alpi al Lilibeo…».
«No,
no, non è così», dice lui scuotendo la testa sconsolato. «Politica si faceva
nel ’45, nel ’48 e ancora negli anni Cinquanta e sin verso la fine degli anni
Sessanta. Grandi dibattiti, grandi scontri di idee e, certo, anche di interessi
corposi, ma illuminati da prospettive chiare, anche se diverse, e dal proposito
di assicurare il bene comune. Che passione c’era allora, quanto entusiasmo,
quante rabbie sacrosante! Soprattutto c’era lo sforzo di capire la realtà del
paese e di interpretarla. E tra avversari ci si stimava. De Gasperi stimava
Togliatti e Nenni e, al di là delle asprezze polemiche, n’era ricambiato».
Oggi
non è più così?
«Direi
proprio di n i partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni
d’Italia».
La
passione è finita? La stima reciproca è caduta?
«Per
noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar
giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli
occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchina di potere e di
clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della
società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e
passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più
contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le
esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il
bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su
questo modello, non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne
promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di
correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”. La carta
geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la Dc: Bisaglia in
Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino,
Gasparri in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più
o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora…».
Lei
mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale
della crisi italiana.
«È
quello che io penso».
Per
quale motivo?
«I
partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal
Governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le
aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai
TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c’è il pericolo che il maggior
quotidiano italiano, Il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel
partito o di una sua corrente: ma noi impediremo che un grande organo di stampa
come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e
spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico.
Tutte le “operazioni” che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti
sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione
dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica.
Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura
vantaggi e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data,
un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di
laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito
che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti
dovuti».
Lei
fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.
«E
secondo lei non corrisponde alla situazione?».
Debbo
riconoscere, signor segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma
vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che
lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la
guida del paese da un pezzo. Allora delle due l’una: o gli italiani hanno, come
si suol dire, la classe dirigente che si meritano, oppure preferiscono questo
stato di cose degradato all’ipotesi di vedere il partito comunista insediato al
governo e ai vertici di potere. Che cosa è dunque che vi rende così estranei o
temibili agli occhi della maggioranza degli italiani?
La
domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutt molti
italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello
Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran
parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma
ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano
di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico?
Confronti il voto che gli italiani danno in occasione dei referendum e quello
delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non
comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non
mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto
assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel ’74
per il divorzio, sia, ancor di più, nell’81 per l’aborto, gli italiani hanno
fornito l’immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di
progresso. Al Nord come al Sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri
borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e
amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane. Non nego
che, alla lunga, gli effetti del voto referendario sulla legge 194 si potranno
avvertire anche alle elezioni politiche. Ma è un processo assai più lento,
proprio per le ragioni strutturali che ho indicato prima».
C’è
dunque una specie di schizofrenia nell’elettore.
«Se
vuole la chiami così. In Sicilia, per l’aborto, quasi il 70 per cento ha votato
“NO”: ma, poche settimane dopo, il 42 per cento ha votato Dc. Del resto,
prendiamo il caso della legge sull’abort in quell’occasione, a parte le
dichiarazioni ufficiali dei vari partiti, chi si è veramente impegnato nella
battaglia e chi ha più lavorato per il “NO”, sono state le donne, tutte le
donne, e i comunisti. Dall’altra parte della barricata, il “movimento per la
vita” e certe parti della gerarchia ecclesiastica. Gli altri partiti hanno
dato, sì, le loro indicazioni di voto, ma durante la campagna referendaria non
li abbiamo neppure visti, a cominciare dalla Dc. È la spiegazione sta in quello
che dicevo prima: sono macchine di potere che si muovono soltanto quando è in
gioco il potere: seggi in Comune, seggi in Parlamento. Governo centrale e
governi locali, ministeri, sottosegretariati, assessorati, banche, enti. Se no,
non si muovono. E quand’anche lo volessero, così come i partiti sono diventati
oggi, non ne avrebbero più la capacità».
Veniamo
all’altra mia domanda, se permette, signor segretari dovreste aver vinto da un
pezzo, se le cose stanno come lei descrive.
«In
un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito
come il nostro, che va così decisamente contro l’andazzo corrente, conservi
tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei
pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito “diverso” dagli altri lei
pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità».
Sì,
è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate
come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d’infedeli: e la
gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra
diversità? C’è da averne paura?
«Qualcuno,
sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta
chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il
nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all’equivoco. Dunque:
primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti
debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della
volontà politica della nazione: e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre
più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma
interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del
popolo, controllando democraticamente l’operato delle istituzioni. Ho detto che
i partiti hanno degenerato, quale più quale meno, da questa funzione
costituzionale loro propria, recando così danni gravissimi allo Stato e a se
stessi. Ebbene, il Partito comunista italiano non li ha seguiti in questa
degenerazione. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che
debba incutere tanta paura agli italiani?
Mi
pare che incuta paura a chi ha degenerato. Ma vi si può obiettare: voi non
avete avuto l’occasione di provare la vostra onestà politica, perché al potere
non ci siete arrivati. Chi ci dice che, in condizioni analoghe a quelle degli
altri, non vi comportereste allo stesso modo?
«Lei
vuol dirmi che l’occasione fa l’uomo ladro. Ma c’è un fatto sul quale l’invito
a riflettere: a noi hanno fatto ponti d’oro, la Dc e gli altri partiti, perché
abbandonassimo questa posizione d’intransigenza e di coerenza morale e
politica. Ai tempi della maggioranza di solidarietà nazionale ci hanno
scongiurato in tutti i modi di fornire i nostri uomini per banche, enti,
poltrone di sottogoverno, per partecipare anche noi al banchetto. Abbiamo
sempre risposto di no. Se l’occasione fa l’uomo ladro, debbo dirle che le
nostre occasioni le abbiamo avute anche noi, ma ladri non siamo diventati. Se
avessimo voluto venderci, se avessimo voluto integrarci nel sistema di potere
imperniato sulla Dc e al quale partecipano gli altri partiti della
pregiudiziale anticomunista, avremmo potuto farlo; ma la nostra risposta è
stata no. E ad un certo punto ce me siamo andati sbattendo la porta, quando
abbiamo capito che rimanere, anche senza compromissioni nostre, poteva
significare tener bordone alle malefatte altrui, e concorrere anche noi a far
danno al paese».
Veniamo
alla seconda diversità.
«Noi
pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i
poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce
e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie
condizioni; che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti
con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano
premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa
pubblica debba essere assicurata».
Onorevole
Berlinguer, queste cose le dicono tutti.
«Già,
ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant’anni di
storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In
galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo
stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con
il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di
certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi».
Non
voi soltanto.
«È
vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo
che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi
distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di
ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora
realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell’economia,
pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che
l’iniziativa individuale sia insostituibile, che l’impresa privata abbia un suo
spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste
realtà, dentro le forme capitalistiche – e soprattutto, oggi, sotto la cappa di
piombo del sistema imperniato sulla Dc – non funzionano più, e che quindi si
possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come
meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di
disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo
dell’attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della
droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione.
È un delitto avere queste idee?».
Non
trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto
socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un’offesa essere paragonato ad un
socialdemocratico.
«Beh,
una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria,
s’intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori
sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari,
delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno
sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che
i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l’Occidente
capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e
nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di
fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.
«Noi
abbiamo messo al centro della nostra politica non solo gli interessi della
classe operaia propriamente detta e delle masse lavoratrici in generale, ma
anche quelli degli strati emarginati della società, a cominciare dalle donne,
dai giovani, dagli anziani. Per risolvere tali problemi non bastano più il
riformismo e l’assistenzialismo; ci vuole un profondo rinnovamento di indirizzi
e di assetto del sistema. Questa è la linea oggettiva di tendenza e questa è la
nostra politica, è il nostro impegno. Del resto, la socialdemocrazia svedese si
muove anch’essa su questa linea; e quasi metà della socialdemocrazia tedesca
(soprattutto le donne e i giovani) è anch’essa ormai dello stesso avviso.
Mitterand ha vinto su un programma per certi aspetti analogo».
Vede
che non ha ragione di alterarsi se dico che tra voi e un serio partito
socialista non ci sono grandi differenze.
«Non
mi altero affatto. Basta intendersi sull’aggettivo serio, che per noi significa
comprendere e approfondire le ragioni storiche, ideali e politiche per le quali
siamo giunti a elaborare e a perseguire la strategia dell’eurocomunismo (o
terza via, come la chiamano anche i socialisti francesi), che è il terreno sul
quale può aversi un avvicinamento e una collaborazione tra le posizioni dei
socialisti e dei comunisti»
Dunque,
siete un partito socialista serio…
«…nel
senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo…».
Però,
alle elezioni del 21 giugno, i socialisti di Craxi sono andati parecchio meglio
di voi. Come se lo spiega?
«I
socialisti hanno certamente colto alcune esigenze nuove che affiorano nel paese.
In modi non sempre chiari, ma comunque percettibili, stanno mandando segnali a
strati della borghesia e anche di alta borghesia. La crisi profonda che ha
investito la Dc non è senza riflessi sull’incremento del Psi, nonché dei
socialdemocratici, dei liberali, dei repubblicani. C’è stanchezza verso la Dc e
desiderio diffuso di cambiamento. Il 21 giugno, il grosso dei voti che sono
defluiti dalla Dc si è trasferito nell’area laica e socialista. Per ora è stato
così».
Lo
giudica un fenomeno positivo?
«Complessivamente,
sì, dato che si accompagna ad un calo dei fascisti del Msi e a una conferma
della nostra ripresa rispetto al ’79».
Le
dispiace, la preoccupa che il Psi lanci, come lei dice, segnali verso strati
borghesi della società?
«No,
non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del
paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono
essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi
gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e
verso il Psi, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c’è che da
esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi
voti, il Psi e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di
attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento
rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un
semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i
vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e Governo, partiti e
società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono,
allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese».
Secondo
lei, quel mutamento di metodi e di politica c’è o no?
«Francamente,
no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad
esempi vedrà che in gran parte c’è stato un trasferimento di clientele. Non
voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e
socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella
riforma del rapporto tra partiti e istituzioni – che poi non è altro che un
corretto ripristino del dettato costituzionale – senza la quale non può
cominciare alcun rinnovamento e senza la quale la questione morale resterà del
tutto insoluta».
Lei
ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione
italiana. Perché?
«La
questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti,
dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna
scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione
morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte
dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per
bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo
di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico
che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli
altri partiti possono provare d’essere forze di serio rinnovamento soltanto se
aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche»
Le
cause politiche che hanno provocato questo sfascio morale: me ne dica una.
«Gli
dico quella che, secondo me, è la causa prima e decisiva: la discriminazione
contro di noi».
Non
le sembra eccessivo, signor segretario? Tutto nasce dal fatto che voi non siete
stati ammessi nel governo del Paese?
«Vorrei
essere capito bene. Non dico che tutto nasca dal fatto che noi non siamo stati
ammessi nel governo, quasi che, col nostro ingresso, di colpo si entrerebbe
nell’Età dell’Oro (del resto noi non abbiamo mai chiesto l’elemosina d’esser
“ammessi”). Dico che col nostro ingresso si pone fine a una stortura, a una
amputazione della nostra democrazia e della dialettica democratica, della vita
dello Stato; dico che verrebbe a cessare il fatto che per trentacinque anni un
terzo degli italiani è stato discriminato per ragioni politiche, che non è mai
stato rappresentato nel governo, che il sistema politico è stato bloccato, che
non c’è stato alcun ricambio della classe dirigente, alcuna alternativa di
metodi e di programmi. Il gioco è stato artificialmente ristretto al 60 per
cento degli eletti in Parlamento. Oggi si parla della forza dei socialisti: ma
è chiaro che, con un gioco limitato al 60 per cento della rappresentanza
parlamentare, i socialisti si vengano a trovare in una posizione chiave».
Questo
le dispiace?
«Mi
sembra un gioco truccato, oltre al fatto che bisogna vedere come il Psi sta
usando questa posizione chiave di cui gode anche grazie alla nostra esclusione.
Per esempio, potrebbe usarla proprio per rimuovere la pregiudiziale contro di
noi. A quel punto le possibilità di ricambio, cioè di una reale alternativa –
e, nel suo ambito, anche di un’alternanza – sarebbero possibili, sarebbero a
vantaggio generale e, a me sembra, a vantaggio dello stesso Psi, in quanto
partito che ha anch’esso una sua insostituibile funzione nel rinnovamento del
paese. Oppure, i socialisti possono seguitare a usare la loro posizione per
accrescere il potere del loro partito nella spartizione e nella lottizzazione
dello Stato. E allora la situazione italiana non può che degradare sempre più».
Dica
la verità, signor segretario lei ritiene che i socialisti stiano seguendo
piuttosto questa seconda via, non la prima.
«Ebbene,
non sono io che lo penso, sono i fatti a dircelo. Nel ’77 i socialisti si
impegnarono a rimuovere la pregiudiziale democristiana contro di noi. Nel ’78
ripeterono l’impegno, ma al primo veto della Dc, l’accettarono come un dato
immutabile. Badi bene: non dico che dovevano farlo per i nostri begli occhi. Ma
se il problema di fondo della democrazia italiana è, come anch’essi
riconoscono, la mancanza di un ricambio di classe dirigente, capace di avviare
un rinnovamento reale e profondo, dovevano farlo per se stessi e per il paese.
Nell’80, poi, hanno addirittura capovolto la loro linea e, da una timida
richiesta di far cadere le pregiudiziali anticomuniste, sono passati
all’alleanza con la destra democristiana, quella del “preambolo”, cioè della
più ottusa discriminazione contro di noi e della divisione del movimento
operaio. I socialisti pensano di crescere più in fretta al riparo di una linea
come quella del “preambolo”. Io non credo che sarà così.
«Ma
poi, quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua
in questo modo, in Italia, la democrazia rischia di restringersi, non di
allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude».
Craxi
sostiene che il problema, prima ancora del ricambio della classe dirigente e di
governo, è quello di un mutamento dei rapporti di forza a sinistra, tra
socialisti e comunisti. Craxi dice: datemi forza, più forza; fate arrivare il
Psi al 18, al 20 per cento. Allora insieme ai socialdemocratici, l’area
socialista e quella comunista saranno più o meno equivalenti, e allora sarà
possibile anche allearsi con il Pci, perché, allora saremmo noi socialisti a
condurre il gioco e a garantirne le regole. Craxi si richiama all’esempio di
Mitterand, che ha vinto perché è diventato più forte dei comunisti. Credo che
sia questo il suo obiettivo. A quel punto sarà pronto ad allearsi con voi, ma
non prima.
«Sì,
lo so che nel partito socialista c’è chi pensa in questo modo. Ma, poiché è
stato tirato in ballo Mitterand, voglio farle osservare che Mitterand entrò
nella Sfio, il vecchio partito socialdemocratico francese, quando la Sfio era
ridotta al 6 per cento di voti, mentre il partito comunista francese stava
sopra il 20. Ebbene, Mitterand trasformò la Sfio, spazzò via la vecchia
burocrazia d’apparato, aprì ai clubs, al sindacato, ai cattolici; ma
soprattutto, cercò subito una linea unitaria a sinistra con il partito
comunista francese, sebbene il Pcf fosse un partito – diciamolo – alquanto
diverso dal nostro.
«Mitterand
non ha aspettato d’essere più forte del Pcf per ricercarne l’alleanza. In
queste ultime elezioni presidenziali, durante il dibattito televisivo con
Giscard, Mitterand disse: io non escluderò mai dal governo la classe operaia
francese e un partito, come il Pcf, che ne rappresenta una parte. L’ha detto e
l’ha anche fatto. E ha risposto agli americani con la dignità che conosciamo.
Io dico che forse proprio per questo la forza socialista francese è cresciuta
fino a diventare maggioritaria nella sinistra».
La
posizione di Mitterand è stata anche una posizione obbligata. Obbligata dal
sistema costituzionale ed elettorale francese.
«Ma
no, non è affatto vero. C’è stato Rocard che ancora poco tempo fa proponeva una
linea del tutto diversa: proponeva una specie di centro-sinistra, l’alleanza
con una parte dei centristi-giscardiani. Il partito socialista francese ha
vinto sulla linea di Mitterand, non su quella di Rocard».
Però,
signor segretario, Mitterand, appena eletto, s’è affrettato a fare una
dichiarazione di pieno atlantismo. In particolare, a proposito della questione
degli euromissili, ha detto d’essere favorevole alla loro installazione. Lei
non ha mai detto nulla di simile. Tra le caratteristiche del vostro essere
diversi non ci sarà per caso anche una tendenza al neutralismo europeo, che
invece i socialdemocratici europei respingono in blocco?
«Lei
adesso sposta il confronto fra la politica dei socialisti francesi, dei
socialisti italiani e lo nostra su un altro tavolo, sulle questioni di politica
internazionale. Ma la seguo volentieri. E le dirò, allora, che non mi
persuadono le ultime dichiarazioni di Mitterand, ma che noi comunisti italiani
possiamo condividere la dichiarazione sugli euromissili che figura nel
programma del nuovo governo francese e che è stata sottoscritta sia dal partito
socialista che da quello comunista. Essa, in sostanza, non chiede che l’America
cessi di costruire i suoi Pershing 2 e i Cruiser, cioè gli euromissili più
moderni che vuole installare in Europa a partire dal 1983. Ma intanto si dia
inizio immediato al negoziato per diminuire i missili in Europa, anzi per
toglierli completamente, e l’Urss cessi l‘installazione dei suoi SS20 fin dal
momento in cui il negoziato ha inizio. E io aggiungo che bisogna far presto,
perché se continuerà la gara a chi costruisce più missili, a chi li fabbrica
più sofisticati e a chi ne mette di più; il pericolo di una guerra di sterminio
in Europa diventerebbe incontrollabile.
«Questa
è la posizione che risulta dall’accordo tra i socialisti e i comunisti
francesi, e analoga mi sembra la posizione del partito socialdemocratico
tedesco; ed è la nostra posizione. Mi piacerebbe sapere se è anche la posizione
del Governo italiano e dei compagni socialisti italiani. Del resto l’adesione
dell’Italia al programma approvato dalla Nato nel dicembre 1979 (quando si
decise sugli euromissili) era subordinata appunto alla ripresa immediata del
negoziato. Quale decisione fu votata anche dai socialisti. Oggi la possibilità
di un negoziato – e di un negoziato senza condizioni – è aperta. Che cosa
dicono e che cosa fanno il Governo e i partiti che lo sostengono di fronte alla
testarda repulsa di Reagan a dare inizio alle trattative con l’Urss?»
Onorevole
Berlinguer, vorrei che adesso lei mi parlasse dello stato del suo partito. C’è
una perdita di velocità? Una perdita di influenza?
«Direi
che abbiamo girato la boa e siamo di nuovo in ripresa. Sinceramente. Dopo le
politiche del ’79 rischiammo una sconfitta che poteva metterci in ginocchio.
Non tanto per la perdita di voti, che pure fu grave, quanto per un altro fatt
durante i governi di unità nazionale noi avevamo perso il rapporto diretto e
continuo con le masse. Quei governi fecero anche cose pregevoli, che non rinneghiamo.
Contennero l’inflazione, in politica estera presero qualche buona iniziativa,
la lotta contro il terrorismo fu condotta con fermezza e dette anche risultati.
Poi ci fu un’inversione di tendenza e gli accordi con noi furono violati. Ma
sta di fatto che noi, anche per nostri errori di verticismo, di burocratismo e
di opportunismo, vedemmo indebolirsi il nostro rapporto con le masse nel corso
dell’esperienza delle larghe maggioranze di solidarietà. Ce ne siamo resi conto
in tempo. Posso assicurarle che un’esperienza del genere noi non la ripeteremmo
mai più».
La
rottura della maggioranza d’unità nazionale provocò contrasti nel gruppo
dirigente del partito?
«Ci
furono diverse opinioni e il dibattito durò a lungo».
Più
tardi, pochi mesi fa, avete lanciato la linea dell’alternativa democratica.
Posso ricordarle, signor segretario, che lei e il gruppo dirigente del suo
partito eravate stati tenacemente contrari ad ogni discorso di alternativa,
fino a quando vi siete improvvisamente «convertiti». Come mai?
«C’è
stato forse un certo ritardo. Ma ricordo che già da tempo noi definivamo
l’obiettivo dell’alternativa come alternativa democratica per distinguerla da
quella di una secca alternativa di sinistra, per la quale non esistono tuttora
le condizioni. Posso aggiungerle che avevamo anche puntato sulla possibilità
che la Dc potesse davvero rinnovarsi e modificarsi, cambiare metodi e politica,
decidersi a porsi all’altezza dei problemi veri del paese. Non ho difficoltà a
dire che su questo punto abbiamo sbagliato, o meglio che i mezzi usati non
conseguivano lo scopo. Quando ce ne siamo resi conto, abbiamo messo la Dc con
le spalle al muro, cioè abbiamo detto che una simile Dc era incapace di
dirigere l’opera di risanamento e di rinnovamento necessaria, e che si facesse
da parte. L’alternativa democratica è per noi uno strumento che può servire
anche a rinnovare i partiti, compresa la Dc».
Lei
dice che, come forza e influenza, il Pci ha girato la boa. Da dove lo deduce?
«Dai
risultati elettorali dell’80 e soprattutto dall’81. In generale abbiamo
recuperato una buona parte dei voti operai, giovanili e popolari che non ci
erano stati confermati nel ’79. E abbiamo certamente esteso i consensi fra le
masse femminili. E anche il voto a noi dei ceti medi non è diminuito, mediamente.
Il nostro rapporto con le masse, anche se non è ancora soddisfacente, è in
netto miglioramento. Avanziamo nelle grandi città».
Non
nel Mezzogiorno.
«È
vero, qui è il punto debole e non si tratta di cosa di poco conto. Nel Sud la
situazione è più difficile, anche perché i condizionamenti clientelari sono più
forti e noi non riusciamo a contrastarli con efficacia. Ma nell’80 abbiamo
migliorato le posizioni a Napoli e a Taranto. Nell’81 abbiamo avanzato a
Ragusa. Certo, in Puglia la sconfitta è stata grave e anche in diverse altre
realtà del Sud siamo andati indietro o siamo rimasti fermi. Ma,
complessivamente, la risalita è cominciata. E questa volta parta da una base
consolidata che sta sopra il 30 per cento e che avviene in presenza di una crisi
della Dc e del suo sistema di potere come mai si era vista».
Quali
caratteristiche ha questa crisi secondo lei?
«Intanto
vorrei ricordare le tre diverse sconfitte subite dalla Dc, negli ultimi tre
mesi. C’è stata la sconfitta nel referendum sulla legge per l’aborto, la
sconfitta elettorale del 21 giugno, la perdita della presidenza del consiglio,
e cioè: una sconfitta ideale e culturale, una sconfitta politica, una sconfitta
di leadership. Il 17 maggio si è visto che nel 68 per cento dei “No” nel referendum
ci sono democristiani e cattolici che hanno voltato le spalle alla Dc. Il 21
giugno s’è visto che in tutte le grandi città la Dc è in declino, in molte è
sotto al 30 per cento, in alcune è poco al di sopra del 20: un partito, cioè,
di media forza. La Dc non è più il partito di maggioranza relativa in quasi
tutti i comuni al di sopra dei 5000 abitanti. Sono novità quanto mai
significative, se non traumatiche. La verità è che ormai questa Dc è un partito
senza strategia, senza idee, senza progetto, senza leaders. I suoi rapporti con
lo stesso mondo delle organizzazioni cattoliche e persino con il complesso
della gerarchia ecclesiastica è fortemente in crisi. Ne vuole un esempio?
L’Episcopato, fino ai sommi gradi, si impegnò a fondo nel referendum per l’aborto,
ma poco o niente nelle elezioni comunali di Roma».
Vuole
indicare secondo lei le cause di questa decadenza?
«È
la questione morale che oggi divora la Dc, come divora le istituzioni. E,
andando più al fondo, è la insuperata discriminazione contro di noi, sulla
quale ha finora retto il sistema politico e di potere della Dc, che oggi si
sgretola. L’ultima edizione della politica di preclusione contro il Pci – il
“preambolo” – ha consegnato la Dc alla sua destra interna e alle alleanze che
questa preferisce, ma che la consumano, che la rendono più arrogante, ma più
debole. Le conseguenze si vedono. Nelle città fasce di strati sociali hanno
abbandonato la Dc: strati di lavoratori, di giovani, di donne, di medio ceto,
di borghesia, di imprenditori, di professionisti. Questi non credo siano voti
“in libera uscita”: sono voti che difficilmente rientreranno in “caserma”».
Il
governo Spadolini è una novità…
«Ho
detto che è una delle sconfitte più brucianti per la Dc…».
Ma
voi sembrate assai tiepidi verso questo esperimento. Perché?
«Siamo
stati I primi e, all’inizio, i soli a chiedere che alla presidenza del
Consiglio andasse una personalità non democristiana. Ed è significativo che
questa personalità sia proprio Spadolini, perché è stato lui e il suo partito
che, insieme a noi, hanno sollevato con maggiore energia la questione morale e
lo scandalo della P2. Anche sul problema dell’indipendenza della magistratura
Spadolini è stato assai fermo e gliene va dato atto. Del resto, sono bastati
questi limitati segnali per creare nervosismo all’interno della maggioranza,
nella quale si sente già parlare di nuova crisi e di fine prematura della
legislatura. Anche la nomina dei vertici militari e dei servizi di sicurezza è
avvenuta per iniziativa prevalente del presidente del Consiglio e ciò ha
accentuato il malessere nella Dc».
Dunque,
un giudizio positivo al cento per cento?
«Purtroppo
no. Spadolini ci ha deluso molto quanto ai criteri seguiti nella formazione del
governo, che sono stati quelli della lottizzazione fra i partiti e le loro
correnti interne, esattamente come sempre. Non c’è stato si questo punto il
benché minimo segnale di mutamento, una distinzione, un’autonomia del
presidente del Consiglio dalle segreterie dei partiti, e tra governo e
partiti…»
Lei
sperava che Spadolini adottasse in qualche modo la proposta Visentini di un
governo sganciato dai condizionamenti dei partiti?
«Speravo
che almeno ci fosse qualche passo in quella direzione. E invece, alla fine,
tutto si è svolto secondo le regole dl famigerato manuale Cencelli, il cui
autore del resto – e non a caso – è nelle liste della P2».
Signor
Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d’accordo sul fatto che il
nemico principale da battere in questo momento sia l’inflazione, e difatti le
politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare
quell’obiettivo. È anche lei del medesimo parere?
«Risponderò
nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali
è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L’inflazione è –
se vogliamo – l’altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo
contro l’una e contro l’altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a
pensare, per esempio, che pur di domare l’inflazione si debba pagare il prezzo
d’una recessione massiccia e d’una disoccupazione, come già in larga misura sta
avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di
proporzioni impensabili.
Il
Pci, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell’ “austerità”. Non mi pare che il
suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori,
dagli stessi militanti del partito. Forse, quando lei ha ricordato che il
vostro rapporto con le masse si era indebolito, pensava al fallimento della
vostra campagna per l’austerità e a certi provvedimenti impopolari da voi
sostenuti?
«Noi
sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo
dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione,
smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi
industrializzati – di fronte all’aggravamento del divario, al loro interno, tra
zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all’avanzata dei
popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza – non consentiva più di
assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la “civiltà dei
consumi”, con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La
diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di
tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Voglio cogliere l’occasione di
questa intervista per annunciare che il nostro partito ha deciso di fare della
questione della lotta contro la droga uno dei punti essenziali del suo impegno
politico e organizzativo.
«Ma
dicevamo dell’austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere
gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui,
rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e
nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto
contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell’economia,
ma che l’insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di
rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare
l’avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più
parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il
problema dell’austerità e della contemporanea lotta all’inflazione e alla
recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni
al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati. Né il Pci, né il
movimento sindacale trovarono l’interlocutore politico che raccogliesse e
utilizzasse quel messaggio…».
Che
oggi, comunque, voi avete abbandonato addirittura in contrasto con una parte
del movimento sindacale e dello stesso Lama.
«Favole.
Oggi noi respingiamo – in pieno accordo con il movimento sindacale – l’idea che
l’inflazione sia dovuta unicamente al costo del lavoro e che il costo del
lavoro sia principalmente dovuto alla scala mobile. È diventata una vera
ossessione questa della scala mobile, dietro la quale la classe dirigente
tradizionale nasconde la sua impotenza a dominare la crisi».
L’inflazione
avrà pure delle cause, non cade dal cielo…
«Certo
che ce l’ha. E la prima viene dal dollaro. Un dollaro a 1.200 lire, mentre
appena pochi mesi fa non raggiungeva le 800 lire, quanti punti di inflazione
introduce nel sistema? Di quanto aumenta il costo di tutte le importazioni e in
particolare del petrolio? È in aumento di quasi il 50 per cento, un fenomeno di
dimensioni enormi. Il vertice di Ottawa anche da questo punto di vista è stato
un falliment ma direi che è stato un fallimento da tutti punti di vista. E poi:
abbiamo in Italia una bilancia agricolo-alimentare terribilmente deficitaria,
ma non si è fatto e non si fa quasi nulla per trasformare e sviluppare
l’agricoltura. Infine, la spesa pubblica: un cancro che divora le risorse del
paese in mille modi, con mille sprechi, a favore di mille clientele».
Lei
è favorevole ad un taglio radicale della spesa?
«Sì,
ma credo sia indispensabile farlo in modo progressivo e selezionato».
In
quali settori andrebbe realizzato il taglio?
«In
buona parte va fatto anche nelle spese previdenziali e per la sanità. Allo
stato attuale, è insensato che l’assistenza medica sia stata resa di colpo
gratuita per tutti gli italiani (dopo di che si ritorna a un ticket applicato
indiscriminatamente!). Sia gratuita, e con servizi efficienti per le fasce di
reddito inferiori e medio-inferiori. Gli altri contribuiscano in ragione del loro
reddito. Ma devono anche essere combattute e liquidate le baronie e le
clientele dei “pirati della salute”, che portano a sprechi enormi e alimentano
insopportabili discriminazioni. Lo stesso criterio dovrebbe valere per tutta la
politica previdenziale, per le tariffe, per la politica fiscale».
E
il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?
«Il
costo del lavoro va anch’esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando
soprattutto sul fronte dell’aumento della produttività. Voglio dirle però con
tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il
chiederli – come al solito – ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una
questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili.
Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso,
una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili
privilegi. Se questi elementi non ci sono, l’operazione non può riuscire».
Signor
segretario, a che punto siamo con il terrorismo?
«A
un bruttissimo punto. Vede dove ci hanno portato i cedimenti ai terroristi? Con
l’obiettivo – che voglio sperare in buona fede – di salvare una vita, si è
ceduto ai ricatti delle Br, e così è st5ata alimentata la catena dei sequestri
e di altri ricatti. Se quando fu rapito il giudice D’Urso le forze politiche
avessero resistito, non avessero ceduto in nulla, le Br non sarebbe state
incoraggiate a proseguire. Ora siamo arrivati al punto che l’”Avanti!” pubblica
integralmente il testo dei loro messaggi e che per ottenere il rilascio di un
ostaggio, viene addirittura pagato ai terroristi un riscatto, con il quale le
Br miglioreranno il loro armamento e la loro azione eversiva. Tutto questo è
intollerabile. È intollerabile che fra i partiti che fanno parte del Governo
della Repubblica vi siano atteggiamenti contraddittori e oscillanti su un
problema così vitale».
Si
è detto da parte di autorevoli dirigenti sindacali che i terroristi si sono
infiltrati persino nei quadri del sindacato.
«È
molto probabile. Ma attenzione: ho l’impressione che queste denunce si pongano
non tanto l’obiettivo di combattere il terrorismo quanto di dividere il
sindacato e di infangare il nostro partito. Voglio essere assolutamente chiaro
su questo punto. Che infiltrazioni terroristiche ci siano in alcune fabbriche
siamo stati noi i primi e, per lungo tempo, i soli a dirlo. Il nostro compagno
Guido Rossa fu ucciso proprio perché aveva rivelato ciò. Da qui a stabilire un
collegamento politico-ideologico tra la lotta di classe, la lotta sindacale e
il terrorismo ci corre un abisso. Che cosa si vuole? Criminalizzare i sindacati
e i sindacalisti che organizzano le lotte? Questa è un’operazione infame e chi
la tentasse va smascherato di fronte a tutto il movimento dei lavoratori».
Onorevole
Berlinguer, qual è il suo giudizio sul congresso del partito comunista polacco?
«Assai
positivo. I compagni polacchi hanno dimostrato di saper accogliere la spinta al
rinnovamento che proviene da tutta la società polacca, in particolare della
classe operaia e dalle sue rinnovate organizzazioni sindacali, e hanno condotto
questa delicatissima operazione con coraggio e, insieme, con saggezza e
prudenza. La situazione, tuttavia, rimane ancora difficile e complessa, e credo
che lo sarà ancora a lungo».
Per
l’elezione del comitato centrale del partito, il Congresso di Varsavia ha
votato a scrutinio segreto e in piena libertà di scelta. Non c’erano liste
prefabbricate…
«Vede?
Non sempre i grandi fatti di rinnovamento democratico vengono dall’Occidente.
In questo caso vengono dall’Est indicazioni importanti per lo sviluppo dei
partiti operai di tutto il mondo».
Forse
perché all’Est c’è quasi tutto da fare quanto a rinnovamento democratico. La
domanda è questa, signor segretari il metodo di votazione adottato a Varsavia è
assai più libero non soltanto rispetto a tutti gli altri partiti comunisti
dell’Est, ma perfino rispetto al Pci. Non pensa lei che sia venuto il momento
di muoversi nello stesso senso?
«Noi
abbiamo una procedura complessa, ma quanto mai democratica per eleggere il
comitato centrale, e in essa è previsto anche il voto segreto. Il nostro
statuto stabilisce che la votazione segreta si effettui obbligatoriamente
quando ne faccia richiesta appena un quinto dei delegati. Ma non poche volte,
per eleggere gli organi dirigenti delle nostre organizzazioni, viene adottato
il voto segreto».
E
lei non crede che questo debba diventare norma generale?
«Non
lo escludo affatto, e penso che se ne possa discutere. Ma perché lei pone a me
questa domanda? Lo sa che gli altri partiti italiani, nei loro congressi,
votano di norma, su liste di corrente bloccate?».
Lo
so, ma non mi pare un buon motivo per imitarli. Siate diversi anche in questo,
e sarà un’ottima cosa.
«Accetto
l’invito. Voglio concludere con un’osservazione. Della Polonia si è parlato
molto e giustamente in Italia, quando si temeva un intervento sovietico. Ora
che il processo di rinnovamento socialista in Polonia è avviato, pur in mezzo a
tante difficoltà, e l’intervento non c’è stato, sembra che l’argomento Polonia
abbia perso interesse per molta stampa e per tanti politici e politologi. Come
mai? Il “caso polacco” non serve più per alimentare la polemica contro di noi?
Quanti pregiudizi ci sono ancora, quanti errori, quanti tabù! Un giornalista
invitò una volta a turarsi il naso e a votare Dc. Ma non è venuto il momento di
cambiare e di costruire una società che non sia un immondezzaio?»
Eugenio
Scalfari