"Spesso
ci sono più cose negli spazi bianchi tra le righe, che nelle parole".
Erano
gli anni felici e pieni di aspettative, diplomato fresco alle magistrali (scelte, dopo aver lasciato il classico) convinto che la mia missione nella vita
fosse quella di migliorare il mondo e di conseguenza aiutare a crescere i
piccoli con metodi e occhi diversi da quelli della classica scuola di stato, in
buona parte ancora classista. Imbevuto delle letture della scuola di Barbiana
di Don Milani, delle esperienze di didattica sperimentale di Danilo Dolci. Ma soprattutto della scuola 725 frequentata da me stesso nelle degradate borgate romane e di quella meravigliosa energia e positività giovanile che fa
ritenere tutto possibile.
Come
tutti i neo diplomati presentai subito domanda al Provveditorato per poter iniziare a fare
supplenze. Scegliendo un circolo didattico periferico che sapevo avere meno
domande e, quindi, più possibilità di lavoro. E infatti in quel primo anno
lavorai quasi costantemente pur non avendo avuto il piacere di portare una
classe per più di quindici giorni. D’altra parte il mio solo punteggio aggiuntivo
era quello dato dal più che buono voto con cui mi ero diplomato. Fu un periodo un pò frustrante per le mie fantasticherie di giovane educatore ma che, comunque, sarebbe servito negli anni a seguire. Si ripartì per il secondo entusiasmante
anno di supplenze (allora non ci si definiva precari, ma il concetto era
lo stesso) ed ebbi la casualità di andare per una settimana in una quarta elementare, che sentendo i rumors di corridoio non sapevo se considerare una iattura o una
benedizione. E si, perché l’insegnante titolare pare fosse incinta con
gravidanza a rischio, quindi si prospettava la concreta possibilità di coprire
l’intero anno scolastico. La parte meno piacevole era che quella classe era
considerata particolarmente impegnativa per la presenza di alcuni bambini rom
di cui uno ancor più problematico, Pasqualino, già benedetto da una bocciatura
l’anno precedente.
Entrato
in classe tra l’indifferenza dei più e la curiosità soprattutto delle bambine,
(considerate che si era a cavallo tra gli anni 70 e 80, e non era più così
frequente vedere un giovane maestro maschio), non feci fatica a individuare subito Pasqualino. Era in lotta furibonda con alcuni compagni per il possesso
di qualcosa che lui riteneva essere propria per averla trovata e gli altri che lo
accusavano invece, di averla rubata.
Ottenuta
a fatica la calma e sequestrato prudenzialmente l’oggetto in questione, passammo
alle presentazioni. Data la mia imperizia e inesperienza credo che non abbiano
capito molto del pistolotto che mi ero preparato per fare subito bella figura.
I bambini non sanno fingere, e i loro sguardi distratti o interrogativi
valevano molto più di cento domande. Domande che, comunque, arrivarono
soprattutto da parte, come dicevo prima, delle bambine che erano molto
interessate alla mia vita sentimentale, e saputo che non ero fidanzato, si
stupirono molto e in seguito, con il tempo e l’acquisita confidenza mi
dispensarono molti consigli utili a trovare una compagna.
Come
già accennato in precedenza il mio intento principale era di contribuire a
cambiare il mondo, quindi cominciai ad approcciarmi a quella classe e a quei
bambini in modo molto informale, facilitato anche dalla giovane età, e
confidenzialmente chiesi di essere chiamato per nome e non maestro.
Da
quel giorno per quasi tutti diventai Maurizio, per alcuni maestro Maurizio e
solo per Pasqualino rimasi il maestro.
A
questo punto devo forzatamente illustrare l’ambiente sociale in cui il tutto si
svolgeva. Si parla di estrema periferia romana, un quartiere moderno di edilizia
economica e popolare dove, a fianco di famiglie di ceto medio impiegatizio, trovarono
spazio, grazie alle politiche di integrazione dell’ allora giunta di sinistra a
Roma, famiglie con forti disagi sociali e abitativi provenienti anche dalle zone allora più
degradate della città.
E,
tra queste c’erano alcune famiglie di rom (come si vede nulla di nuovo sotto il
sole) che portarono oltre la loro presenza e cultura, sospetti e insofferenza tra i residenti.
Pasqualino e le sue due cugine facevano parte di un programma di integrazione e
quindi frequentavano, anche se
non regolarmente, la scuola.
Le
due bambine erano più comprese nel loro ruolo di piccole donne già abituate a
svolgere lavori casalinghi o a chiedere l’elemosina ai semafori. Tendevano a
non mettersi in evidenza più di tanto e erano più portate ad uniformarsi al
comportamento delle compagne. Quindi attenzione ai vestiti, anche se miseri,
all’acconciatura e alle piccole civetterie tipiche di quell’età. Pasqualino no,
lui era ostinatamente e orgogliosamente, compreso nel suo ruolo di diverso e
non mancava occasione per dimostrarlo, Chiamarmi maestro e non in maniera più
confidenziale, come avevo richiesto, era il suo modo di marcare le differenze
con il resto del mondo.
Gli
altri, e i suoi compagni in particolare, erano da lui visti non come modelli, ma
come avversari se non proprio nemici. Erano quelli che, anche senza parlare o fare nulla di
particolare, lo facevano etichettare comunque, come diverso.
Non
stava mai seduto al banco, ma quello era il minimo. Usciva quando voleva, si
doveva spesso interrompere la lezione per andarlo a trovare, faticava a
seguire la lezione, si stancava di scrivere, rifiutava di leggere. Scoprii poi, che il rifiuto era dovuto soprattutto alla vergogna di farlo con molta
difficoltà, di fronte alla classe.
Presi
l’abitudine di metterlo vicino alla cattedra, la qual cosa suscitò
vibranti proteste da parte degli altri, vedendo in quella posizione un privilegio non meritato, anzi.
vibranti proteste da parte degli altri, vedendo in quella posizione un privilegio non meritato, anzi.
D’altra
parte se lo lasciavo troppo libero di scorazzare faceva man bassa di
merendine, gomme, matite e qualsiasi
altra cosa potesse arraffare. Non lo faceva per bisogno, ma era il modo di
affermare il suo predominio su un mondo non suo ma che era costretto a frequentare
La
sua casa era abbastanza lontana dalla scuola, io inizialmente andavo al lavoro
a piedi, poi arrivando i primi freddi e la pioggia cominciai ad usare l’autovettura.
Anche quella cosa suscitò molta curiosità trattandosi di un modello non molto
diffuso e considerato anche strano, che io avevo preso di seconda mano per il suo
basso prezzo.
Quella
novità fece scattare in Pasqualino l’idea che il maestro in qualche misura
potesse essergli utile. Infatti divenni il suo accompagnatore abituale alla
fine delle lezioni. Cosa che facevo con piacere avendo così l’occasione di
approfondire la conoscenza sua, del suo mondo e, soprattutto, non mi costava
veramente nulla. Questo mi permise di entrare in contatto con una realtà che
fino ad allora conoscevo veramente poco, quella dei rom in corso di
integrazione. Mi avvicinai con umiltà e curiosità, mai con la presunta verità
in tasca da sbattere loro in faccia. Superando diffidenze, entrando in
confidenza, capii la loro fatica, il modo viscerale e disperato di mantenere le
loro tradizioni pur nella consapevolezza di doverle contaminare con un altro tipo di vita.
Il loro più grande desiderio era di essere accettati dall’ambiente circostante
per quello che erano. Cominciò così un cammino parallelo all’attività didattica
vera e propria in cui, grazie a Pasqualino, stavo scoprendo un mondo che aveva
tanto da insegnarmi, e a cui tanto avrei voluto dare. Diventai agli occhi dei
genitori “normali” il maestro che frequenta gli zingari e ciò comportò problemi
con alcuni di loro che paventavano rischi per la salute dei bambini ed epidemie epocali. In
tutto questo l’atteggiamento esteriore di Pasqualino non cambiò di molto, ma
cominciò lentamente ad essere più presente e attento a ciò che si svolgeva in
classe, non faceva più molte assenze e aspettava con ansia il momento in cui lo
avrei riaccompagnato a casa. Ero diventato per lui un motivo d’orgoglio di cui
vantarsi di fronte ai suoi. D'altra parte avere il maestro come autista non era da tutti.
Faticai
per organizzare incontri nella scuola tra i rom e gli altri genitori e le maggiori resistenze venivano proprio da alcune insegnanti che si misero di
traverso e tentando di condizionare il resto dell’ambiente. Grazie però ad alcuni
genitori più aperti, a qualche insegnante più anziano, ma più disponibile, il
muro di diffidenza piano piano cominciò, non per tutti ma per la maggior parte,
a sgretolarsi. Se non altro si riusciva a parlarsi e a e conoscersi. Grazie anche alla mia
attività politica, vennero anche, coinvolti successivamente nelle iniziative
esterne e nel quartiere. Memorabile rimase un momento autogestito da loro all’interno
della locale Festa dell’Unità. Comunque, come tutti gli altri prima e quelli dopo, anche quell’anno si concluse, Pasqualino, al pari di
tutti gli altri fu promosso. Facemmo una festa di fine anno ed ebbi l’occasione
di provare per la prima volta quel sentimento e quel groppo in gola che ti
coglie quando sai di lasciare qualcuno che forse non rivedrai e, soprattutto,
qualcuno cui hai lasciato un pezzo d’anima. E ai bambini di quella classe che
per la prima volta avevo avuto la possibilità di seguire, un pezzo d’anima e
anche di più lo lasciavo veramente.
La
mia carriera d’insegnante supplente continuò per altri tre anni, poi le vicende
della vita ti pongono sempre di fronte a dei bivi e dovetti scegliere altro, non
potendomi permettere il precariato a vita a fronte della ancor più precaria situazione
economica familiare.
Passarono
diversi anni e, un giorno, incrociando un ragazzo ormai più che adolescente
biondo, occhi chiari, con l’aria scanzonata e strafottente tipica di quell’età
mi sentii fissare e poi, passato oltre,
chiamare:
”Ciao
mae’!”
…..“Ma
come, maè, ma nun me riconosci? So’ Pasqualino!”.
“Pasqualino?
Ma sei proprio tu? E chi ti riconosceva!”
Ci
abbracciammo, lo invitai a prendere un caffè insieme e mi raccontò che, per
colpa mia era diventato “l’intellettuale” della sua famiglia, avendo lui per primo,
essere riuscito a prendere il diploma di terza media. Mi disse che aveva una
ragazza “normale”. Che lavorava come meccanico in un’officina della zona, che
voleva sistemarsi e che ai suoi figli avrebbe fatto del tutto per farli
studiare. Non avrebbero mai dovuto considerarsi diversi.
Mi
prese in giro per la mia macchina dell’epoca e mi fece promettere che, se
avessi avuto bisogno di un meccanico sarei dovuto andare da lui.
“Sono
bravo sai, e per te prezzi speciali”. Glie lo promisi, ma non mantenni mai la
promessa.
Quando
ci salutammo per riportare ognuno i propri passi nella propria via mi chiese:
“Ti
posso ancora chiamare Maurizio?”
“Devi!”
“Ciao
Maurì!.... Ciao Maè!”
“Ciao
Pasqualìno”
MIZIO
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