Nelle
mille analisi politiche e sociali che vanno ad analizzare il momento storico
dell’Italia odierna, non mancano riferimenti a cifre, statistiche, crisi
finanziarie, di valor e partorire proposte punitive tutte tese a dimostrare e riequilibrare il
fatto che l’Italia e gli italiani hanno
vissuto e vivono ancora al di sopra dei propri mezzi e, forse, anche dei propri
meriti.
Ora
qui non voglio e non posso, per mancanza di competenza, analizzare nel
dettaglio quanto tutto ciò possa essere vero. Posso solo usare la logica, il
buon senso e un minimo di conoscenza della storia patria e personale, con cui
avviare alcune riflessioni.
In
particolare vorrei soffermarmi su un aspetto peculiare del nostro essere
italiani. Lasciando da parte la retorica del Piave che si riaccende solo in
occasione di alcune vittorie sportive, è notorio che l’Italia può consegnare
alla storia, dopo il crollo dell’Impero Romano, pochi e isolati momenti di
responsabilità e reattività collettiva. In minima parte, nel Risorgimento e,
altrettanto in parte, anche se in misura più significativa, durante la guerra
di liberazione. Terrei fuori da questo i movimenti operai e studenteschi post ’68,
per il semplice fatto che partivano da una base di rivendicazioni per l’eguaglianza
e la giustizia ma non esaltavano in alcuna misura, anzi, il senso di
appartenenza al proprio paese. Da noi gli atti di eroismo sono stati quasi
sempre atti del singolo e quasi mai collettivi. Chi non ricorda il mito del
“bono italiano” trasmesso dai film che non esaltavano la nostra bontà ma rappresentavano
una vigliaccheria di fondo raramente riscattata collettivamente. Di questo
siamo stati accusati e, ancor più spesso dileggiati, da altri popoli che con
ben altro spirito di sacrificio e di appartenenza si sacrificavano per il loro
paese, anche quando il torto era chiaramente dalla loro parte.
Qualcuno
evidenzia che ciò attenga ad una predisposizione quasi antropologica del nostro
popolo per la codardia e per l’opportunismo. Non essendo chiaramente antropologo, non posso escluderlo a priori, ma
striderebbe con i gesti altrettanto eroici e disinteressati che gli italiani
hanno fatto, e fanno, in altri ambiti e in altre condizioni che non siano la
guerra. Pensiamo all’eroismo dei tanti volontari che si spendono per cause
spesso lontane migliaia di chilometri dall’Italia rischiando la propria vita.
Pensiamo anche alle tante figure che si sono immolate per una causa in cui
credevano, giusta o sbagliata che fosse. E a tutti gli altri che hanno
affrontato la detenzione e le torture per lo stesso motivo.
Quindi,
forse, la base non è e non può essere
una differenza congenita ma si deve attenere a qualcos’altro.
E
il qualcos’altro va ricercato nella nostra storia. L’Italia dopo aver dominato
il mondo con l’Impero Romano ha progressivamente perso le sue caratteristiche
di unità e di coesione incapace, come fu, di opporsi alle numerose scorribande
di eserciti o orde di varia provenienza che scorazzavano per la penisola perdendo progressivamente
anche l’unico tratto comune che
resisteva, la lingua. Le varie influenze straniere che in alcuni casi hanno
rappresentato periodi di interi secoli hanno progressivamente trasformato
l’idioma in un coacervo di dialetti che lingua condivisa più non era.
Ma
il mito dell’unità dell’Italia comunque, allignava sempre, anche se in ambiti ristretti
e il Risorgimento, al di là della retorica, non rappresentò un desiderio
condiviso popolarmente, ma fu un’aspirazione ideale di ambienti borghesi e
culturali appoggiato dai Savoia per mero interesse espansionistico e di
prestigio. Tanto è vero che per molti anni somigliò più ad una colonizzazione
che a un reale processo unitario e di integrazione, cui si è tentato solo nell’ultimo
dopoguerra, di porre rimedio con il portare al centro dell’attenzione la
questione meridionale.
Ma
anche laddove era stato più forte il sentimento unitario esso non rispondeva af
un sentire di appartenenza paragonabile allo spirito patriottico inglese, alla
grandeur francese o alla cieca obbedienza del popolo tedesco.
Le
prove sono numerose, provate a parlare con i pochi superstiti della prima e i
più numerosi della seconda guerra mondiale e saprete di artefizi e modi,
arrivati anche all’autolesionismo fisico, per di evitare di dover andare al
fronte a combattere, che stridevano con le fila di migliaia di volontari pronti
a partire in difesa della propria patria in altri paesi. Cosa rilevata anche in
occasione delle guerre in corso, in cui spesso e in misura superiore agli altri
eserciti si sceglieva la strada della resa, sia pure disonorevole, piuttosto
che una morte eroica, ma certa.
Viste
le considerazioni precedenti diciamo che non può trattarsi di vigliaccheria congenita e dobbiamo
arrivare alla conclusione che se il rischio per la propria vita è accettato e
praticato in ambiti e con motivazioni diverse, non è parimenti considerato necessario
nel caso del sacrificio per la difesa della patria. Popolo, quindi, non di vigliacchi ma di pacifisti? Non
sembrerebbe proprio, visto che poi, l’attività violenta e repressiva, in altri
ambiti è stata e viene costantemente esercitata singolarmente e
collettivamente.
Allora
la conclusione è semplice e agghiacciante. Ancora non siamo e non lo siamo mai
stati un popolo coeso. L’unità c’è stata ma per settori della società,
ritornando alle lotte operaie e studentesche, e per periodi di tempo limitati,
non certo sufficienti a caratterizzare un popolo. Enormi responsabilità in
questo l’hanno sempre avute le classi dirigenti che hanno, quasi costantemente,
esaltato le nostre peggiori caratteristiche, prima fra tutte l’interesse
privato, trasformatosi via via in corporativismo, difesa del proprio piccolo o
grande privilegio, formazioni di vere e proprie caste e spazi in cui lo stato
ha rinunciato ad affermare la propria presenza. Come stupirsi, quindi, che, in
un periodo di profonda crisi come quella attuale, ci si possa sentire non
coinvolti in un processo unitario di sacrifici calati dall’alto, senza
contradditorio, senza coinvolgimento attivo e a cui viene richiesta solo una
passiva accettazione? Molto più facile tentare di salvarsi singolarmente o come
gruppo scaricando su altri il peso e l’onere
della battaglia quotidiana per la sopravvivenza.
Patetici
sembrano in questo contesto i proclami di esponenti politici che cavalcano il
risentimento popolare nei confronti del potere, ad esempio, alimentando l’odio
razziale e la rabbia contro i migranti al grido del “Prima gli italiani!”.
E’
vero, prima gli italiani, ed è su questo che bisognerebbe puntare. Ma non nel
modo inteso da quei ridicoli personaggi, ma attuando politiche e scelte
culturali solidali che coinvolgano, esaltino con equità e giustizia la difesa del
bene e dell’interesse comune stimolando così l’orgoglio e il senso d’appartenenza.
Sono
sicuro che questo sentimento sarà esaltato molto di più dalle seconde o terze
generazioni di extracomunitari del nostro paese e saranno, forse loro, i primi
veri e orgogliosi italiani
Ad
maiora
MIZIO
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