sabato 7 marzo 2015

ITALIANO, BONO ITALIANO



Nelle mille analisi politiche e sociali che vanno ad analizzare il momento storico dell’Italia odierna, non mancano riferimenti a cifre, statistiche, crisi finanziarie, di valor e partorire proposte punitive  tutte tese a dimostrare e riequilibrare il fatto  che l’Italia e gli italiani hanno vissuto e vivono ancora al di sopra dei propri mezzi e, forse, anche dei propri meriti.
Ora qui non voglio e non posso, per mancanza di competenza, analizzare nel dettaglio quanto tutto ciò possa essere vero. Posso solo usare la logica, il buon senso e un minimo di conoscenza della storia patria e personale, con cui avviare alcune riflessioni.
In particolare vorrei soffermarmi su un aspetto peculiare del nostro essere italiani. Lasciando da parte la retorica del Piave che si riaccende solo in occasione di alcune vittorie sportive, è notorio che l’Italia può consegnare alla storia, dopo il crollo dell’Impero Romano, pochi e isolati momenti di responsabilità e reattività collettiva. In minima parte, nel Risorgimento e, altrettanto in parte, anche se in misura più significativa, durante la guerra di liberazione. Terrei fuori da questo i movimenti operai e studenteschi post ’68, per il semplice fatto che partivano da una base di rivendicazioni per l’eguaglianza e la giustizia ma non esaltavano in alcuna misura, anzi, il senso di appartenenza al proprio paese. Da noi gli atti di eroismo sono stati quasi sempre atti del singolo e quasi mai collettivi. Chi non ricorda il mito del “bono italiano” trasmesso dai film che non esaltavano la nostra bontà ma rappresentavano una vigliaccheria di fondo raramente riscattata collettivamente. Di questo siamo stati accusati e, ancor più spesso dileggiati, da altri popoli che con ben altro spirito di sacrificio e di appartenenza si sacrificavano per il loro paese, anche quando il torto era chiaramente dalla loro parte.
Qualcuno evidenzia che ciò attenga ad una predisposizione quasi antropologica del nostro popolo per la codardia e per l’opportunismo. Non essendo chiaramente  antropologo, non posso escluderlo a priori, ma striderebbe con i gesti altrettanto eroici e disinteressati che gli italiani hanno fatto, e fanno, in altri ambiti e in altre condizioni che non siano la guerra. Pensiamo all’eroismo dei tanti volontari che si spendono per cause spesso lontane migliaia di chilometri dall’Italia rischiando la propria vita. Pensiamo anche alle tante figure che si sono immolate per una causa in cui credevano, giusta o sbagliata che fosse. E a tutti gli altri che hanno affrontato la detenzione e le torture per lo stesso motivo.
Quindi, forse, la base non è  e non può essere una differenza congenita ma si deve attenere a qualcos’altro.
E il qualcos’altro va ricercato nella nostra storia. L’Italia dopo aver dominato il mondo con l’Impero Romano ha progressivamente perso le sue caratteristiche di unità e di coesione incapace, come fu, di opporsi alle numerose scorribande di eserciti o orde di varia provenienza che scorazzavano  per la penisola perdendo progressivamente anche l’unico  tratto comune che resisteva, la lingua. Le varie influenze straniere che in alcuni casi hanno rappresentato periodi di interi secoli hanno progressivamente trasformato l’idioma in un coacervo di dialetti che lingua condivisa  più non era.
Ma il mito dell’unità dell’Italia comunque, allignava sempre, anche se in ambiti ristretti e il Risorgimento, al di là della retorica, non rappresentò un desiderio condiviso popolarmente, ma fu un’aspirazione ideale di ambienti borghesi e culturali appoggiato dai Savoia per mero interesse espansionistico e di prestigio. Tanto è vero che per molti anni somigliò più ad una colonizzazione che a un reale processo unitario e di integrazione, cui si è tentato solo nell’ultimo dopoguerra, di porre rimedio con il portare al centro dell’attenzione la questione meridionale.
Ma anche laddove era stato più forte il sentimento unitario esso non rispondeva af un sentire di appartenenza paragonabile allo spirito patriottico inglese, alla grandeur francese o alla cieca obbedienza del popolo tedesco.
Le prove sono numerose, provate a parlare con i pochi superstiti della prima e i più numerosi della seconda guerra mondiale e saprete di artefizi e modi, arrivati anche all’autolesionismo fisico, per di evitare di dover andare al fronte a combattere, che stridevano con le fila di migliaia di volontari pronti a partire in difesa della propria patria in altri paesi. Cosa rilevata anche in occasione delle guerre in corso, in cui spesso e in misura superiore agli altri eserciti si sceglieva la strada della resa, sia pure disonorevole, piuttosto che una morte eroica, ma certa.
Viste le considerazioni precedenti diciamo che non può  trattarsi di vigliaccheria congenita e dobbiamo arrivare alla conclusione che se il rischio per la propria vita è accettato e praticato in ambiti e con motivazioni diverse, non è parimenti considerato necessario nel caso del sacrificio per la difesa della patria. Popolo, quindi,  non di vigliacchi ma di pacifisti? Non sembrerebbe proprio, visto che poi, l’attività violenta e repressiva, in altri ambiti è stata e viene costantemente esercitata singolarmente e collettivamente.
Allora la conclusione è semplice e agghiacciante. Ancora non siamo e non lo siamo mai stati un popolo coeso. L’unità c’è stata ma per settori della società, ritornando alle lotte operaie e studentesche, e per periodi di tempo limitati, non certo sufficienti a caratterizzare un popolo. Enormi responsabilità in questo l’hanno sempre avute le classi dirigenti che hanno, quasi costantemente, esaltato le nostre peggiori caratteristiche, prima fra tutte l’interesse privato, trasformatosi via via in corporativismo, difesa del proprio piccolo o grande privilegio, formazioni di vere e proprie caste e spazi in cui lo stato ha rinunciato ad affermare la propria presenza. Come stupirsi, quindi, che, in un periodo di profonda crisi come quella attuale, ci si possa sentire non coinvolti in un processo unitario di sacrifici calati dall’alto, senza contradditorio, senza coinvolgimento attivo e a cui viene richiesta solo una passiva accettazione? Molto più facile tentare di salvarsi singolarmente o come gruppo scaricando su  altri il peso e l’onere della battaglia quotidiana per la sopravvivenza.


Patetici sembrano in questo contesto i proclami di esponenti politici che cavalcano il risentimento popolare nei confronti del potere, ad esempio, alimentando l’odio razziale e la rabbia contro i migranti al grido del “Prima gli italiani!”.
E’ vero, prima gli italiani, ed è su questo che bisognerebbe puntare. Ma non nel modo inteso da quei ridicoli personaggi, ma attuando politiche e scelte culturali solidali che coinvolgano, esaltino con equità e giustizia la difesa del bene e dell’interesse comune stimolando così l’orgoglio e il senso d’appartenenza.
Sono sicuro che questo sentimento sarà esaltato molto di più dalle seconde o terze generazioni di extracomunitari del nostro paese e saranno, forse loro, i primi veri e orgogliosi italiani


Ad maiora

MIZIO

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