"Spesso
ci sono più cose scritte tra gli spazi bianchi che nelle parole"
Molti
anni fa, giovane studente squattrinato, sentivo forte la naturale esigenza di
conoscenza e la susseguente voglia e necessità di viaggiare. In casa vigeva un
accordo, sottoscritto da me già dai tempi del liceo. Io avrei avuto garantiti
dai miei vitto e alloggio per tutto il tempo necessario per completare gli
studi, ma per tutto il resto libri, abbigliamento e tempo libero avrei dovuto
provvedere in prima persona. Quindi l’estate, che per molti miei compagni era
sinonimo di vacanze, mare e serate tirate fino a tardi, per me e qualche altro “fortunato”
iniziava la forzata conoscenza del mondo del lavoro. Ho avuto modo di lavorare
inizialmente come manovale in cantiere (rigorosamente in nero e in costruzioni
abusive), ai mercati generali come tutto fare, conoscendo la fatica fisica e maturando istantaneamente la convinzione
che avrei fatto del tutto per evitare che quello potesse diventare il mio
destino. Ma per fare in modo che ciò non si verificasse, avrei dovuto
sacrificare le mie estati per garantirmi il famoso pezzo di carta e, forse, un
futuro meno gravoso.
Rimaneva
il fatto, però, che, anche se sacrificavo coscientemente le giornate estive,
qualche gita al mare, qualche serata al pub, non riuscivo, però, ad accettare
serenamente il fatto che la mia condizione di figlio di proletari mi negasse la
possibilità di viaggiare e conoscere il mondo fuori del consueto recinto.
Allora non c’era l’ Erasmus, ma c’era la Rail Europe Junior, una tessera ferroviaria
riservata ai giovani che permetteva di viaggiare in tutta Europa a prezzi
abbordabili. Quindi, quasi risolto il problema del viaggio rimaneva da
risolvere la questione della sopravvivenza, vitto e alloggio. In questo mi
aiutò un incontro casuale con un amico che sarebbe partito per la Francia per
imparare la lingua e che si impegnò a farmi sapere se c’era la possibilità, anche per me,
di usufruire del suo appoggio logistico e magari, anche di trovare un lavoro.
Fortunatamente, entrambe le questioni ebbero un esito positivo e, con la mia
tessera ferroviaria nuova di zecca in mano, partii per Toulouse, bellissima
città del sud della Francia ai piedi dei Pirenei, Soprassedo sulle
difficoltà che un diciassettenne, mai uscito dai patri confini e con solo un
pessimo inglese scolastico a supporto, possa aver trovato per arrivare,
non nella più famosa città, ma in un
paesino dell’hinterland, Colomiers.
Cittadina famosa per l’industria aeronautica che proprio lì costruiva i Mirage
e i Concorde, orgoglio nazionale dei cugini francesi.
Comunque,
non si sa come e in maniera fortunosa, riuscii ad arrivare.
La
sistemazione logistica era una stanza in comune con il mio amico presso la casa
parrocchiale della locale chiesa, in coabitazione con il parroco, un giovane non molto più
grande di noi e, come ebbi modo di appurare in seguito, molto più dedito alla
cura delle giovani parrocchiane che a quella delle anime dei fedeli.
L’indomani
mi presentai al posto di lavoro che mi era stato trovato presso una fabbrica di
mangimi per animali. Mi accolse Pepen un emigrante d’origine veneta il cui nome
era una storpiatura adattata al francese del nome originario, già modificato di
suo, di Peppin. Mi fu illustrato brevemente il tipo di lavoro, la paga (che per
me rappresentava un piccolo tesoro) e il contratto. Ah no, il contratto no,
anche in Francia in quei tempi si lavorava tranquillamente in nero. Feci,
quindi, il mio trionfale ingresso in fabbrica e cominciai la conoscenza dell’ambiente
lavorativo. Pieno di polvere in sospensione, che costringeva a lavorare con la
mascherina e con una puzza simile a quella che si può sentire in un capannone
di un pollificio. Cominciai anche la conoscenza dei miei compagni di lavoro.
Qualche italiano, qualche spagnolo, ma la maggior parte di origine magrebina. Di operai francesi neanche l’ombra.
Eravamo,
probabilmente, l’equivalente di quelli che sono oggi gli extracomunitari per
noi. Poveri cristi da sfruttare in lavori sottopagati che i locali non avevano
più interesse a fare. Per fortuna non c’era, all’epoca, l’equivalente francese
di Salvini, per cui , oltre il lavoro infame, non c’erano manifestazioni d’intolleranza
razzista. Il lavoro era duro, scandito dal continuo “Vit vit. Vit vit” di Pepen
che, nel suo francese approssimativo stimolava continuamente alla velocità.
Nelle
pause per il pranzo, una classica baguette imbottita, si fraternizzava con gli
altri operai. Molti erano stupiti del fatto che giovani studenti romani, quindi
non i classici emigranti italiani, si trovassero lì per scelta e non per
costrizione.
Conobbi
storie di estremo disagio, altre di relativa soddisfazione per il
raggiungimento di una serenità conquistata, anche se a molti chilometri da
casa.
Quelli,
però, che incuriosivano di più erano gli arabi presenti. Fino ad allora la mia
conoscenza di quel mondo era limitata a quel poco che si studiava a scuola . A
letture occasionali infarcite di luoghi comuni e alla occasionale
frequentazione di alcuni palestinesi con cui si era in contatto per motivi
politici.
La
prima difficoltà fu superare la barriera di diffidenza che, nonostante loro
fossero considerati francesi a tutti gli effetti in quanto provenienti da ex colonie,
si avvertiva nel clima che respiravano fuori dalla fabbrica. Un senso di separatezza per le abitudini, la religione, i costumi vissuti con ipocrita tolleranza da gran parte della popolazione locale.
Tendevano, quindi, a far gruppo a sé. Ma questo, in verità, riguardava anche
gli altri gruppi etnici che erano portati quasi naturalmente, a ritrovarsi tra
loro anche nel tempo libero. Facevamo eccezione io e il mio amico che, non
avendo legami o prospettive di lungo respiro in quel posto, eravamo svincolati
dalle nostalgie tipiche dell’emigrante classico. Noi non dovevamo rimpiangere
malinconicamente la nostra terra d’origine. Saremmo tornati , e pure abbastanza
presto. Avevamo, quindi, l’atteggiamento aperto e disponibile di curiosi
esploratori dell’anima e dei sentimenti umani.
In
fabbrica loro erano soggetti a facili ironie e a scherzi fatti di finti inseguimenti
minacciosi brandendo fette di prosciutto da cui, alcuni di loro, fuggivano
atterriti.
Mai,
però, vidi in loro un risentimento o un’avversione particolare, anzi sembravano
compenetrati nel ruolo di distaccati osservatori di inutili giochi
fanciulleschi.
Il
ghiaccio, fra di noi fu rotto definitivamente quando, un giorno, ci si incontrò
sulla strada per andare in fabbrica e ci offrirono un passaggio sulla loro
macchina. Una mastodontica Mercedes che aveva visto sicuramente tempi migliori,
con il cambio a tre marce, che, sinceramente, non sapevo neanche esistesse.
Da
allora divenne una piacevole abitudine giornaliera. Ci risparmiavano la fatica
di andare al lavoro a piedi e ci si permetteva di approfondire la conoscenza
reciproca.
Conoscenza
e confidenza che li portò da lì a poco, ad autoproclamarsi nostre guide ufficiali e nostri
compagni nel tempo libero. Ci portarono alla scoperta e conoscenza delle
bellezze della città e di locali particolari dove si poteva mangiare con poco
e, magari, anche ascoltare buona musica. Scoprimmo che, per alcuni di loro la
religione era un fatto fondamentale su cui era bene non scherzare troppo,
mentre altri potevano tranquillamente rientrare nelle tante categorie presenti un
po’ dappertutto, agnostici, disinteressati o, addirittura atei.
Se
la parola non fosse troppo impegnativa, visto il breve periodo trascorso
insieme, ci potevamo definire addirittura amici.
Avevamo,
in poco tempo, superato quella barriera di diffidenza reciproca e anche quel
tanto di snobismo e di morbosa curiosità
che spesso ci fa esaltare maggiormente le differenze, rispetto invece, al tanto
che ci accomuna come esseri umani.
Imparammo,
anche a rispettare il loro atteggiamento di profondo disagio e imbarazzo nell’affrontare
il discorso del rapporto tra i sessi. Strozzati come erano, dal dovere di
rispettare tradizioni consolidate, e la voglia di abbandonarsi ai più liberi
costumi locali.
Arrivò
rapidamente la fine di quell’esperienza,. Fummo pagati, ovviamente senza busta
paga, in maniera forfettaria ma più o meno con la cifra che si era pattuita
inizialmente. Quel tesoro mi doveva permettere di fare il turista per un altro
periodo e di riportare un gruzzoletto a casa per rispettare l’impegno preso con
i miei, ma non ci negammo una serata d’addio a base di cous cous, narghilè e
tanta malinconica allegria.
Nel
salutarci ci chiesero l’impegno di ritornare e rivederci l’anno successivo. Dicemmo di si,
mentendo sapendo di mentire.
Dall’anno
successivo grazie al diploma preso nel frattempo, i miei giri per l’Europa li
avrei pagati facendo supplenze negli istituti di lingua e cultura italiana per
i figli degli emigranti all’estero.
Ma
questa è un'altra storia.
MIZIO
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