domenica 5 aprile 2015

LE STORIE DEGLI SPAZI BIANCHI "VI ODIO E VI SPIEGO PERCHE’

"Spesso ci sono più cose negli spazi bianchi tra le righe, che nelle parole".

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Sul marciapiede vedevo solo gambe, scarpe e cicche di sigarette. Accovacciata nel grembo di mia madre non mi era concesso vedere altro. I ricordi sono sfocati, come la vista di quel tempo. Non capivo perché tutti camminassero  svelti e noi, invece, stavamo fermi, perché pochi si fermassero un attimo e molti di più, allungavano, invece,  il passo. La voce di mia madre era una cantilena che conciliava il mio torpore e  faceva dimenticare anche la fame.
La sera si tornava a casa. A casa? Un riparo fatto con gli scarti della società, in cui i buchi e le crepe erano rattoppati come le ferite, curate altrettanto malamente, dei corpi.
La notte il sonno era spesso interrotto dalle grida degli ubriachi, dala voce che voleva essere sommessa di mia madre che diceva: “No! Adesso no”, dai respiri e dai movimenti dei miei fratelli e sorelle che si stringevano non so, se più per il freddo o per la paura. Spesso si sentiva qualcosa di piccolo e veloce che con  le zampette solleticava il mio corpo ed io mi facevo ancora più piccola e speravo e pregavo di diventare invisibile specie quando  lo sentivo che si fermava ad annusare il mio respiro.
Crescendo non uscivo più con mia madre che mi aveva sostituito nelle sue braccia con una  sorellina più piccola.
Io rimanevo nel campo vicino casa, insieme ad altri bimbi più o meno della mia età tra roulotte che avevano visto giorni migliori, baracche che chiamavamo casa e mucchi d’immondizia che rappresentavano la nostra stanza dei giochi..
Quello fu il periodo forse più felice della mia vita, ero in compagnia, giocavo tutto il giorno, si rincorrevano i topi, gli stessi che di notte mi terrorizzavano camminandomi vicino e, spesso, anche sopra.
A volte approfittando della mancanza degli adulti salivamo sulla strada, arrampicandoci sulla ripida scarpata che chiudeva il nostro orizzonte. Tra la polvere d’estate e il fango d’inverno, la visione del mondo degli altri era comunque sempre un’emozione difficile da descrivere. La strada piena di macchine che sfrecciavano veloci rappresentava il confine non invalicabile, ma netto tra noi e gli altri.
Gli altri chi? Ma gli altri voi! Voi che ci degnate di sguardi impauriti e schifati, come se la miseria fosse una colpa. Voi che allontanate i vostri figli per paura che li mangiamo, voi che ci chiamate con disprezzo zingari. Voi che avete studiato e sapete leggere, voi che potete sognare futuri diversi, noi costretti, invece, a raccontare sempre la stessa disperazione. Perché voi avete tutto e io niente? Perché voi siete nel caldo tepore delle vostre case e io nel gelo invernale e nella fornace d’estate? Perché siamo diversi?
Avete forse voi scelto di essere ciò che siete? Ho forse sbagliato io qualche risposta nel concorso per la vita per essere finita tra i dannati?
Ero felice solo tra i miei simili e in qualche raro momento anche contenta e fiera di essere diversa.

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Purtroppo imparai presto, troppo presto, che la felicità non dura mai a lungo, soprattutto per i poveri. E venne il giorno che un conoscente di mia madre mi prese e mi portò vicino un semaforo lasciandomi in compagnia di una spugna e un secchio facendomi frettolosamente vedere il mio lavoro. Lavare i vetri delle macchine nel breve tempo che erano ferme al semaforo rosso, in cambio di qualche spicciolo. Cominciai che ero piccola, ancora troppo piccola per arrivare ai vetri e così, specialmente all’inizio, complice anche la vergogna, non riuscivo a svolgere bene il mio lavoro e i pochi soldi che qualcuno mi lasciava erano soprattutto per la pena che suscitavo nel loro animo. Nonostante tutto erano sempre molte di più le offese, le parolacce, i modi bruschi e sgarbati che non trovavano una ragionevole spiegazione nel mio sentire di bambina.
Anche così, comunque si cresce, cambiando semaforo e molti secchi, diventando più abili, veloci e convincenti nel chiedere un’ offerta. Qualcuno, che passava tutti i giorni, a volte si fermava per lasciare vestiti dismessi dai propri figli che a me sembravano, però, degni di una regina.
Le scarpe erano a volte un po’ piccole e i vestiti un po’ grandi, o viceversa, ma non importa. Vestita cosi, potevo somigliare a voi.
E, oltre che a voi, cominciavo a somigliare sempre più ad una piccola donna pur nella pochezza dei miei anni. Le trasformazioni del mio corpo, le sensibilità acuite dei miei sensi e, evidentemente, anche di alcuni di quelli fermi al semaforo cambiarono, in parte, i miei rapporti con loro.
Al disprezzo e alla pietà dei molti si affacciava una curiosità interessata da parte di alcuni.
“Quanti anni hai?”  “Ti piacerebbe fare un giro in macchina?” “ Vieni con me e ti compro un bel vestito.” Per arrivare via via a proposte sempre più esplicite cui potevo, finalmente ed orgogliosamente, rispondere no, ed essere io a esibire il mio disprezzo.
Confidatami con alcuni amici al campo, si decise che era ora, ormai, che diventassi grande a tutti gli effetti. I miei genitori si accordarono con la famiglia di un ragazzo poco più grande di me e combinarono il nostro fidanzamento. Io non sapevo se essere felice o meno, sicuramente ero confusa. Troppo brusco il passaggio da ragazzina a promessa sposa con tutti gli obblighi del caso che si intrecciavano alle mille paure e dubbi.
Lui era carino e, per quanto possibile in quell’ambiente, anche gentile. Ci vedevamo poco, solo la sera, perché nel frattempo io andavo con altre mie coetanee, a chiedere l’elemosina fuori i supermercati o alla fermata del tram. Alcune avevano imparato ad approfittare della ressa e della confusione per arraffare qualche portafoglio a qualcuno particolarmente distratto. Io non riuscivo a farlo, ma non condannavo neanche quelle che lo facevano. Era troppo il rancore che provavo nei confronti  della vita che mi aveva negato l’infanzia, strappato l’adolescenza e mi stava legando ad un futuro non scelto  per essere solidale con chi, ai miei occhi, dalla vita aveva, invece, avuto tutto.
Se la mia infanzia, la mia adolescenza e la mia vita futura non vi sembrano motivi sufficienti a giustificare il furto o l’appropriazione di un qualcosa che, per voi , può essere considerato superfluo, pensate alle vostre reazioni quando vi sentite vittime di un’ingiustizia. Pensate all’odio che provate per un collega che ai vostri occhi appare meno meritevole di voi e ottiene una promozione. Pensate alla vostra rabbia quando un vostro figlio viene dileggiato ingiustamente. Guardatevi quando qualcuno  vi rovina minimamente, la vostra lucida e preziosa auto. Pensate alle guerre e alle stragi che la vostra società civile ha perpetrato ai danni di popoli interi, primo fra tutti il mio, giustificandole con “questioni di principio” o religiose.
Quindi se io non provo rimorso, se invidio la vostra vita e, se forse vi odio, ora sapete perché e qualcuno potrebbe persino capirmi!


MIZIO 

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