"Spesso ci sono più cose negli spazi bianchi tra le righe, che nelle parole".
Sul
marciapiede vedevo solo gambe, scarpe e cicche di sigarette. Accovacciata nel
grembo di mia madre non mi era concesso vedere altro. I ricordi sono sfocati,
come la vista di quel tempo. Non capivo perché tutti camminassero svelti e noi, invece, stavamo fermi, perché pochi
si fermassero un attimo e molti di più, allungavano, invece, il passo. La voce di mia madre era una
cantilena che conciliava il mio torpore e
faceva dimenticare anche la fame.
La
sera si tornava a casa. A casa? Un riparo fatto con gli scarti della società,
in cui i buchi e le crepe erano rattoppati come le ferite, curate altrettanto
malamente, dei corpi.
La
notte il sonno era spesso interrotto dalle grida degli ubriachi, dala voce che
voleva essere sommessa di mia madre che diceva: “No! Adesso no”, dai respiri e
dai movimenti dei miei fratelli e sorelle che si stringevano non so, se più per
il freddo o per la paura. Spesso si sentiva qualcosa di piccolo e veloce che
con le zampette solleticava il mio corpo
ed io mi facevo ancora più piccola e speravo e pregavo di diventare invisibile
specie quando lo sentivo che si fermava
ad annusare il mio respiro.
Crescendo
non uscivo più con mia madre che mi aveva sostituito nelle sue braccia con
una sorellina più piccola.
Io
rimanevo nel campo vicino casa, insieme ad altri bimbi più o meno della mia età
tra roulotte che avevano visto giorni migliori, baracche che chiamavamo casa e
mucchi d’immondizia che rappresentavano la nostra stanza dei giochi..
Quello
fu il periodo forse più felice della mia vita, ero in compagnia, giocavo tutto
il giorno, si rincorrevano i topi, gli stessi che di notte mi terrorizzavano camminandomi
vicino e, spesso, anche sopra.
A
volte approfittando della mancanza degli adulti salivamo sulla strada,
arrampicandoci sulla ripida scarpata che chiudeva il nostro orizzonte. Tra la
polvere d’estate e il fango d’inverno, la visione del mondo degli altri era
comunque sempre un’emozione difficile da descrivere. La strada piena di
macchine che sfrecciavano veloci rappresentava il confine non invalicabile, ma
netto tra noi e gli altri.
Gli
altri chi? Ma gli altri voi! Voi che ci degnate di sguardi impauriti e
schifati, come se la miseria fosse una colpa. Voi che allontanate i vostri
figli per paura che li mangiamo, voi che ci chiamate con disprezzo zingari. Voi
che avete studiato e sapete leggere, voi che potete sognare futuri diversi, noi
costretti, invece, a raccontare sempre la stessa disperazione. Perché voi avete
tutto e io niente? Perché voi siete nel caldo tepore delle vostre case e io nel
gelo invernale e nella fornace d’estate? Perché siamo diversi?
Avete
forse voi scelto di essere ciò che siete? Ho forse sbagliato io qualche
risposta nel concorso per la vita per essere finita tra i dannati?
Ero
felice solo tra i miei simili e in qualche raro momento anche contenta e fiera
di essere diversa.
Purtroppo
imparai presto, troppo presto, che la felicità non dura mai a lungo,
soprattutto per i poveri. E venne il giorno che un conoscente di mia madre mi prese
e mi portò vicino un semaforo lasciandomi in compagnia di una spugna e un
secchio facendomi frettolosamente vedere il mio lavoro. Lavare i vetri delle
macchine nel breve tempo che erano ferme al semaforo rosso, in cambio di
qualche spicciolo. Cominciai che ero piccola, ancora troppo piccola per
arrivare ai vetri e così, specialmente all’inizio, complice anche la vergogna,
non riuscivo a svolgere bene il mio lavoro e i pochi soldi che qualcuno mi
lasciava erano soprattutto per la pena che suscitavo nel loro animo. Nonostante
tutto erano sempre molte di più le offese, le parolacce, i modi bruschi e
sgarbati che non trovavano una ragionevole spiegazione nel mio sentire di bambina.
Anche
così, comunque si cresce, cambiando semaforo e molti secchi, diventando più
abili, veloci e convincenti nel chiedere un’ offerta. Qualcuno, che passava
tutti i giorni, a volte si fermava per lasciare vestiti dismessi dai propri
figli che a me sembravano, però, degni di una regina.
Le
scarpe erano a volte un po’ piccole e i vestiti un po’ grandi, o viceversa, ma
non importa. Vestita cosi, potevo somigliare a voi.
E,
oltre che a voi, cominciavo a somigliare sempre più ad una piccola donna pur
nella pochezza dei miei anni. Le trasformazioni del mio corpo, le sensibilità
acuite dei miei sensi e, evidentemente, anche di alcuni di quelli fermi al semaforo
cambiarono, in parte, i miei rapporti con loro.
Al
disprezzo e alla pietà dei molti si affacciava una curiosità interessata da
parte di alcuni.
“Quanti
anni hai?” “Ti piacerebbe fare un giro
in macchina?” “ Vieni con me e ti compro un bel vestito.” Per arrivare via via
a proposte sempre più esplicite cui potevo, finalmente ed orgogliosamente,
rispondere no, ed essere io a esibire il mio disprezzo.
Confidatami
con alcuni amici al campo, si decise che era ora, ormai, che diventassi grande
a tutti gli effetti. I miei genitori si accordarono con la famiglia di un
ragazzo poco più grande di me e combinarono il nostro fidanzamento. Io non
sapevo se essere felice o meno, sicuramente ero confusa. Troppo brusco il
passaggio da ragazzina a promessa sposa con tutti gli obblighi del caso che si intrecciavano
alle mille paure e dubbi.
Lui
era carino e, per quanto possibile in quell’ambiente, anche gentile. Ci vedevamo
poco, solo la sera, perché nel frattempo io andavo con altre mie coetanee, a
chiedere l’elemosina fuori i supermercati o alla fermata del tram. Alcune
avevano imparato ad approfittare della ressa e della confusione per arraffare
qualche portafoglio a qualcuno particolarmente distratto. Io non riuscivo a
farlo, ma non condannavo neanche quelle che lo facevano. Era troppo il rancore
che provavo nei confronti della vita che
mi aveva negato l’infanzia, strappato l’adolescenza e mi stava legando ad un
futuro non scelto per essere solidale
con chi, ai miei occhi, dalla vita aveva, invece, avuto tutto.
Se
la mia infanzia, la mia adolescenza e la mia vita futura non vi sembrano motivi
sufficienti a giustificare il furto o l’appropriazione di un qualcosa che, per
voi , può essere considerato superfluo, pensate alle vostre reazioni quando vi
sentite vittime di un’ingiustizia. Pensate all’odio che provate per un collega
che ai vostri occhi appare meno meritevole di voi e ottiene una promozione.
Pensate alla vostra rabbia quando un vostro figlio viene dileggiato
ingiustamente. Guardatevi quando qualcuno vi rovina minimamente, la vostra lucida e preziosa auto. Pensate alle
guerre e alle stragi che la vostra società civile ha perpetrato ai danni di
popoli interi, primo fra tutti il mio, giustificandole con “questioni di
principio” o religiose.
Quindi
se io non provo rimorso, se invidio la vostra vita e, se forse vi odio, ora
sapete perché e qualcuno potrebbe persino capirmi!
MIZIO
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