E
siamo arrivati al bivio, storicamente, politicamente, socialmente. Questo periodo
verrà ricordato volenti o nolenti, nei libri di scuola, come un periodo di
profonde trasformazioni. Quello che ancora non sappiamo è come saranno
giudicate e valutate le risultanze che da questi cambiamenti deriveranno. Se dovessimo
valutare le cose al momento attuale, dovremmo ipotizzare un arretramento
complessivo della società conosciuta sino ad oggi.
Arretramento
economico e conseguente impoverimento collettivo, arretramento sul tema dei
diritti, soprattutto quelli del lavoro con qualche concessione sui diritti
civili, decisa accelerata nel senso di uno “sviluppo con una forte connotazione
neoliberista e consumista e con il ripristino, se non ufficiale nei fatti di
una forte diseguaglianza classista.
Poveri
sempre più poveri e legati alla ruota del bisogno in competizione tra loro per
accaparrarsi qualche briciola di benessere, ricchi sempre più ricchi, potenti e
padroni dei destini del mondo. L’unica differenza, ma sostanziale, rispetto il
vecchio capitalismo classista del novecento l’irrompere in prima persona del
capitalismo finanziario a scapito di quello imprenditoriale. Nei termini
pratici e per i suoi effetti sulle masse cambia poco, ma nella valutazione e
nella ricerca della soluzione possibile, potrebbe essere una differenza determinante.
Molti
di quegli imprenditori che nei decenni passati erano il “nemico” naturale nelle
rivendicazioni, oggi appaiono, se pur in posizione privilegiata, anche loro
inseriti in un gioco più grande di cui non hanno le leve e di cui, spesso,
rimangono vittime.
Questo
impone una riflessione che non sia e non può essere solo di circostanza e
limitata a convegni tra esperti. Inserendo poi, nel calderone delle necessità
impellenti, quello di indirizzare lo sviluppo verso forme più rispettose dell’ambiente
in cui viviamo e un utilizzo più razionale delle risorse naturali, delle fonti
energetiche, delle risorse idriche e al tempo stesso garantire uno standard di
vita accettabile per tutti, vediamo quanto sia complessa e ardua l’impresa di
cambiare rotta.
Ma,
proprio per l’emergenzialità di cui parlavamo inizialmente che, da questo
punto, possiamo già considerare non inscrivibile nei vecchi schemi di lettura
lo sforzo titanico che le forze d’opposizione debbono fare nel ripensare
complessivamente la propria azione politica e il proprio modo stesso di
rappresentarsi.
Alcuni
hanno tentato già di farlo ma in maniera limitata e, comunque sempre con il
vecchio vizio della difesa aprioristica della propria unica verità, legandosi e
compromettendosi in scelte che apparivano e appaiono ai più, fondamentalmente
legate a interessi personali o di parte. Altri si sono barricati nella difesa
coerente e autorassicurante fin che si vuole, ma sterile per l’impatto
sostanziale, della propria diversità e purezza ideologica.
Altri
tentativi sono stati effettuati da forze politiche che si sono presentate come
nuove (vedi il M5S) sfruttando principalmente la rabbia repressa della massa ma,
in fondo, sterilizzandola in un’azione politica tesa più a magnificare se
stessa che ai risultati che si sarebbero potuti ottenere. Io, comunque per
inciso, sono tra quelli che non demonizzano i pentastellati, conoscendone molti
sinceramente convinti di stare lavorando per un cambiamento sostanziale, ma
dimenticandosi, purtroppo, che, prima di tutto, il cambiamento riguarda il
proprio modo d’essere. Meno dispotico, più democratico all’interno e meno
legato a figure carismatiche che, se pur necessarie all’inizio, poi rappresentano
un freno all’azione politica vera e propria
Non
sarò certo io a buttare a mare la lettura marxista dei conflitti sociali, ne
dimentico le teorie gramsciane sull’egemonia culturale delle classi dominanti,
ma a queste devo forzatamente legare altre chiavi di lettura e penso, ad
esempio, ala visone eretica di un Pasolini, profetico per molti aspetti. Penso
alle motivazioni che erano e sono alla base dei movimenti no-global, che non
possono essere archiviate semplicemente con le immagini degli scontri del G8 o
del 15 ottobre.2011 a Roma. Le tematiche,
portate avanti e troppo spesso accantonate dalle stesse forze di sinistra che,
avrebbero il compito storico, di indirizzare il cambiamento, le hanno riportate, poi, ad un discorso spartitorio e
correntizio delle dinamiche interne, meritavano e meritano, invece, una
maggiore attenzione e una maggiore valenza nelle scelte che, forzatamente, si
dovranno fare.
Allora,
ricapitolando, non più e non soltanto operai contro padroni. Non più e non
soltanto uno sviluppo e una crescita legata allo sfruttamento umano e dell’ambiente.
Non più e non soltanto la difesa di un modello di società che vede nel consumo
a prescindere la sua unica ragion d’esistere. Non più e non soltanto proposte
politiche che siano legate esclusivamente a richieste di carattere economico.
Per fare questo è necessario rivedere i propri capisaldi e individuare quelli
che sono gli ostacoli e i “nemici” da superare. Non dobbiamo aver paura nell’identificare
chiaramente nel potere finanziario il nemico numero uno che abbiamo di fronte
e, conseguentemente, non aver timori nell’indicare l’attuale assetto della
comunità europea, nella sua organizzazione e nelle sua finalità uno degli
strumenti usati da questo potere per i suoi fini.
Se
si vogliono cambiare le cose non si possono usare occhiali da presbite per
guardare lontano o viceversa, quindi, senza tema di apparire antieuropeisti,
dire chiaramente che questa Europa non ci rappresenta e soprattutto non
rappresenta gli interessi (dati alla mano) della stragrande maggioranza dei
suoi popoli. Non aver paura di contaminarsi nel cercare, su questi temi, alleanze
e sponde che condividono questa visione (ovviamente non mi riferisco all’opportunismo
di fascisti e/o razzisti) e segnatamente a quelle forze che, pur non
strettamente politiche esprimono dubbi e critiche a questa società. Non posso non
pensare, e non a caso, per restare all’attualità, alle dichiarazioni di Papa
Francesco, che sembrano, spesso, uscite, da un vocabolario terzomondista del
Novecento e di conseguenza con aperture a quel potenziale movimento religioso
che, ad esempio in molti paesi dell’America Latina e dell’Africa si è
dimostrato molto sensibile a determinati temi ed è protagonista del tentativo
di riscatto sociale dei poveri di quelle aree. Così come non si può non pensare
ad un coinvolgimento di tutti quei rappresentanti della piccola borghesia
imprenditoriale e commerciale che è stata spazzata via dalla crisi e dallo
strapotere finanziario. Certo, capisco e condivido in pieno l’attaccamento
romantico e passionale per le lotte dei lavoratori, della bandiera rossa
sventolata orgogliosamente in piazza, del sogno della rivoluzione proletaria.
Tutte cose che ho condiviso e cui sono sentimentalmente e visceralmente legato
ma che ho il dovere, pena l’apparire come il soldato a guardia deli bidoni vuoti,
di arricchire e riempire di contenuti e
significati nuovi, non ultimo quello del superamento della disputa
generazionale che questa società ci ha dato come lettura per distogliere lo
sguardo dai veri temi sul tappeto. Il conflitto e la competizione generazionale
è sicuramente un dato di fatto insito nella natura umana, ma non può e non deve
rientrare nel nostro schema di lettura come fattore discriminante e fare dell’anziano
o del giovane il proprio nemico.
E
ritornando al bivio di cui all’inizio, noi possiamo essere protagonisti del
cambiamento se convinti che questo sia necessario e, nel contempo, serenamente
ma lucidamente riconoscere che, fino ad ora non siamo riusciti a rappresentare
altro che la nostra impotenza e la nostra supponenza. Credo sia più che
necessario cominciare a guardare dalle nostre parti per rimettere in piedi la
baracca con scelte coerenti e conseguenti,
su cui cercare di far convergere più forze possibili senza discriminazioni
ma anche senza diritti di primogenitura. Landini ha cominciato ad indicare una
via, ma non può essere responsabilità e compito di uno solo, per quanto abile e
capace, quello di operare cambiamenti radicali che devono, prima di tutto
passare nelle nostre menti e nelle nostre coscienze. Se riusciremo a farlo
saremo ricordati dai posteri come coloro che hanno sventato il rischio di una
tirannia economica suicida ultradecennale, se continueremo a guardarci in
cagnesco ad erigere steccati ad accontentarci di qualche seggio tanto per
esserci, passeremo alla storia come la sinistra più inutile che si ricordi.
Ad
maiora
MIZIO
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