"Spesso ci sono più cose negli spazi bianchi tra le righe, che nelle parole".
Era
un’estate della fine degli anni ’60, la scuola era finita e, a quel tempo, non
si aspettavano le vacanze per andare in villeggiatura, se non per qualcuno più
fortunato con la casa al paese o in visita parenti. Era sufficiente qualche
giornata al mare e l’immenso tempo
libero che ci aspettava. Praticamente dall’alba al tramonto impegnati in
infinite partite a pallone o altrettanto infinite scorribande nei prati o nelle
vie del moderno quartiere che stava sorgendo vicino la nostra borgata. Un paio
di volte a settimana un prete, mi pare si chiamasse Don Arnaldo, con un gruppo
di giovani, ci veniva a trovare per farci fare un po’ di doposcuola. Cosa fatta apposta per la
gioia delle nostre apprensiva madri e il nostro malcelato disappunto. Tanto più
che questo comportava anche il gravoso e tedioso impegno domenicale della messa,
spesso anche da servire come chierichetti. Ricordo ancora la sorpresa, in una di
quelle occasioni, di uno scapaccione partito verso la mia testa il giorno che dichiarai
di essere comunista. Ovviamente non
sapevo neanche cosa volesse dire, ma lo ripetevano spesso i miei in casa e per
me affermare di esserlo era la cosa più naturale del mondo. I figli non
dovevano forse seguire gli insegnamenti dei genitori?
Non
capii al momento. Lo capii pochi anni dopo quando di quello schiaffo capii la
violenza non solo fisica.
Don
Arnaldo, comunque, non fu molto costante nel suo volontariato con i figli dei non abbienti
(eravamo noi). All’improvviso, diradò le sue presenze sino a non venire più. Noi riprendemmo l’abituale
rituale estivo, senza più il timore di dover rinunciare a qualche pomeriggio per
annoiarci con i compiti estivi.
Si
arrivò così ai primi di settembre, quasi alla fine dell’estate e, considerando,
che a quei tempi, la scuola iniziava ad ottobre avevamo ancora quasi un mese a
nostra completa disposizione.
Era
di pomeriggio, impegnati nell’ennesima disfida calcistica sul nostro
meraviglioso campo in terra battuta ed erba secca con le porte indicate da sassi
e barattoli. “Guardate” disse qualcuno, “Don Arnaldo”. Ci girammo dalla parte
della strada sterrata che conduceva nella nostra borgata non senza un certo timore e vedemmo, in effetti, un
prete, senza tonaca come si cominciavano a vedere in quei tempi, che si
avvicinava. Ma non sembrava proprio Don Arnaldo. Era più magro, più giovane, con
la barba. Interrompemmo la partita, tanto l’avremmo ripresa quando volevamo,
anche il giorno dopo. E ci avvicinammo con quella petulante curiosità sfrontata dei bambini abituati a vivere in strada.
“Ciao, chi sei? Un prete?” “Certo non si vede?” “Come ti chiami?” “Roberto
e voi?” “Adolfo”, “Luciano”, “Cesidio”, “Maurizio”, Luigi”, “Emidio”…..
"Ma se sei un prete sei Don Roberto, no Roberto e basta"
"Ma se sei un prete sei Don Roberto, no Roberto e basta"
Ci
chiese molte cose di noi, della nostra vita, della scuola che frequentavamo.
del lavoro dei nostri genitori e molto chiedemmo anche noi. Infine ci salutò
per ritornare nella chiesa (San Policarpo) dove era viceparroco. Noi riprendemmo a giocare non sospettando
minimamente che, da quel giorno, la nostra vita non sarebbe più stata la
stessa. Le visite di Don Roberto nella nostra borgata divennero sempre più
frequenti fino a che, all’inizio delle lezioni, ci comunicò che avrebbe aperto una
sua scuola. Noi si pensava a qualcosa di molto simile ad un doposcuola
classico, e così pensavano anche le nostre famiglie. Ben contente di saperci
in un posto controllato e a studiare invece che per la strada. Insieme a Don
Roberto arrivarono anche dei ragazzi con il compito di affiancarlo in questa
attività. Maurizio, Matteo, Grazia, Alberto, Enzo, Agnese….. Erano però, un po’
diversi da quelli che eravamo abituati a vedere in chiesa. Erano barbuti con i
capelli lunghi, le ragazze colorate e nient’affatto timide o riverenti nei
confronti di Don Roberto, anzi! Erano i primi risultati visibili e tangibili
delle lotte femministe, a noi completamente ignote fino a quel momento. Il nostro
rapporto con l’universo femminile era, infatti, limitato al tentare di sfuggire
alle attenzioni delle nostre coetanee ostinate nel volerci coinvolgere nei terribili giochi che tanto piacevano loro. Ma che noi, iperattivi, insofferenti e anarchici, nel senso più puro del termine, rifuggivamo
come la peste.
Fin
dal primo giorno che cominciammo a frequentare la Scuola 725 ci si accorse che
non era una scuola nel senso classico del termine. Infatti, finito di fare i
compiti della scuola “vera”, quella statale, Don Roberto non ci fece andare
via, aprì un quotidiano (era “il Giorno”) e cominciò la lettura delle notizie.
Ci cominciò a parlare di Vietnam, di scioperi, di ricchi, di poveri, di
capitalismo, di comunismo. Alla parola comunismo mi rallegrai, quella la
conoscevo, ero comunista anch’io! Ma non lo dissi, lo scapaccione di Don
Arnaldo aveva lasciato un ricordo doloroso e, benchè Don Roberto sembrasse decisamente
diverso, pensai fosse meglio non rischiare. Finita la lettura del giornale iniziammo
la lettura di un libro “Tu passerai per il camino” di Vincenzo Pappalettera
sopravvissuto al campo di sterminio di Mauthausen e cominciammo così, a
conoscere gli orrori del nazismo e del fascismo. Nei giorni seguenti la lettura
collettiva divenne una piacevole routine e, devo dire, molti di noi non vedevano l’ora di
mettere via i libri di scuola per sapere, sentire, parlare. Senza averne consapevolezza stavamo
crescendo, non solo dì età, che quello è naturale e scontato, ma nel senso più
compiuto del termine. Stavamo prendendo coscienza!
La
politica per noi, fino ad allora, era cosa lontana e astrusa, Don Roberto la
fece diventare parte integrante del nostro vivere quotidiano. “I ricchi, i
borghesi ci hanno sempre fregato!” stava diventando la nostra parola d’ordine.
Per un bambino la sua condizione, per quanto precaria, è l’unica possibile perché
l’unica conosciuta. Il suo mondo famigliare e ambientale è tutto il mondo che
serve, non ha bisogno di farsi domande su differenze sociali che ,almeno fino
all’adolescenza, non pesano e non vengono avvertite. Ma il prendere coscienza,
se pur in maniera manichea, didascalica e, in quel momento, non strutturata fece fare un
balzo enorme alla nostra autostima. Non eravamo più solo i poveri e, per alcuni
benpensanti del quartiere, gli zingari. Ma eravamo i rivoluzionari, quelli che
avevano capito il mondo, le sue ingiustizie. Quelli che le avrebbero combattute
e cambiate, ne eravamo certi!
Don
Roberto in tutto questo tsunami emotivo e comportamentale che aveva suscitato,
spiegava e indirizzava la nostra indignazione, il nostro risentimento verso la
conoscenza e l’analisi. Noi si proponeva barricate, assalti ai “borghesi”,
vendette sulla base della legge del taglione, lui ci riportava al ragionamento,
all’efficacia dello strumento del dialogo, pur non escludendo, in futuro, anche
l’adozione di forme di lotta più incisive.
Intanto
partecipavamo insieme a lui, alle prime manifestazioni di piazza. Ricordo la
prima in assoluto a Piazza Venezia per la pace nel Vietnam, un’altra per la
tragedia della fame in Biafra anche se Don Roberto, ci teneva a tenerci
estranei e distaccati dai partiti, anche da quelli d sinistra, per non essere
etichettati e manipolati. La nostra voglia di azione era però un potenziale che
non poteva essere disperso e si decise, allora, di scrivere una lettera al
sindaco, sulla falsariga di “Lettera ad una professoressa” della scuola di
Barbiana di Don Milani. Lettera dove avremmo denunciato le precarie situazioni
abitative e sociali della nostra borgata e avremmo potuto attaccare i borghesi
e il potere politico. La stesura del documento ci impegnò per mesi, con
ragionamenti, riletture, rifacimenti, sempre sotto la supervisione di Don
Roberto e dei suoi collaboratori. Per la presentazione fu organizzata una
conferenza stampa che ebbe nei giorni successivi l’effetto di una bomba ad alto
potenziale. Divenimmo l’oggetto d’ attenzione di televisioni nazionali ed
estere, intellettuali e politici, si avvicinarono alla scuola, molti alla
ricerca di una facile pubblicità, decine di giovani soprattutto dell’estrema
sinistra venivano a conoscere il prete e i bambini rivoluzionari, la maggio
parte di loro, però, solo per poter dire “sono stato da loro”. La stampa
borghese e di destra metteva l’accento sull’incredibile e inaccettabile ruolo
di un prete che faceva politica speculando sull’ingenuità dei bambini. Puntava l’indice
accusatore sui poster di MaoTse Tung e di Che Guevara alle pareti, insieme al
crocefisso e al Vangelo. E chiedevano l’intervento della Curia per “mettere a
posto” quel prete comunista e lasciare che i figli dei poveri non si mettessero
troppi grilli in testa. Ma che scherziamo?
In
quel periodo Don Roberto aveva ancora la messa di maggior affluenza la domenica
e, alla fine di una di quelle, fu avvicinato e aggredito da alcuni fascisti
della zona. Non ricevette solidarietà da parte dell’istituzione ecclesiastica
ma cominciarono
gli
interventi della Curia, prima diplomatici attraverso canali discreti, come
nella migliore tradizione vaticana. Attraverso discreti inviti a moderare gli atteggiamenti e le
posizioni, poi sempre più decisi e minacciosi. Fino a che fu “licenziato” (non
so se sia il termine più adatto) da viceparroco della sua parrocchia e si
trasferì a vivere definitivamente in borgata, insieme a noi.
Continuò la sua opera di impegno quotidiano nella scuola, ormai diventata un
punto di riferimento non solo per la città di Roma. C’erano giorni in cui si
era quasi assediati da una moltitudine di persone che si avvicinavano per
conoscerci. Arrivarono libri, documentari, saggi. Don Roberto era molto
impegnato a difenderci dalla curiosità e da tutto ciò che quel clamore
mediatico poteva rappresentare, in negativo, per dei ragazzi neanche
adolescenti
Credo
che pochi abbiano avuto la fortuna di crescere tanto, e tanto in fretta come
noi in quei pochi anni. Da ragazzi destinati probabilmente, ad una vita trascorsa
tra strada, bar e forse, anche qualcosa di peggio, ci trasformammo in uomini
coscienti e impegnati. La cultura, la politica, la curiosità intellettuale
divennero nostro patrimonio permanente utilizzato, successivamente, da ognuno
nel ruolo e nel posto che le cose della vita avevano predisposto per lui.
La
borgata pian piano si svuotava, molti di noi (me compreso) si trasferivano nei
nuovi quartieri residenziali. La restante parte fu abbattuta e i residenti
trasferiti ad Ostia.
Don
Roberto capì che la sua missione, almeno con noi, era finita e non ce ne
sarebbe stata probabilmente, un’altra uguale. Un nuovo mondo stava nascendo e
nuovi poveri, nuove situazioni richiedevano la sua presenza di “missionario”,
come in effetti fece.
Non
ci siamo mai salutati e, non ci siamo quasi più visti. Solo saltuarie e commosse telefonate. Se n'è andato tenendo per sé forse, la
sua unica delusione. Quella di non essere riuscito a trasmetterci, insieme alla passione per l’impegno
sociale e politico, la sua cristallina fede cristiana. Ma sia lui che noi, sappiamo che se
esiste da qualche parte un paradiso dei giust,i è lì che ci ritroveremo tutti
quanti!
MIZIO
Grazie, Maurizio, di aver condiviso le tue riflessioni: non potevi farci un regalo piú bello. Personalmente sono tornata x un momento a quei giorni passati tra voi con nostalgia, xché è lí che si approfondito il rapporto tra noi. Un abbraccio Carla Camilli
RispondiElimina