Manovre
lacrime e sangue per tutti tranne che per la “casta” mondiale, sovranità
limitata o revocata, bavaglio universale all’informazione. Sindacati
neutralizzati, banchieri al governo e partiti-fantasma ormai agli ordini dei
signori dell’economia. Quello che oggi chiamiamo crisi era stato largamente
previsto, dagli stessi super-poteri che, già nel 2001, prima ancora dell’11
Settembre, si preoccuparono di disinnescare sul nascere una potenziale bomba
democratica planetaria, quella del movimento no-global. Diritti contro soprusi,
cittadinanza contro privatizzazione. In altre parole: anticorpi civili per
difendersi dalla globalizzazione selvaggia. Profeticamente, li pretendeva il
“popolo di Seattle”. Fu fermato appena in tempo e nel modo più brutale, con il
bagno di sangue noto come G8 di Genova.
E’
la tesi che fa da sfondo al drammatico libro-inchiesta “G8 Gate” firmato da
Franco Fracassi per la giovane casa editrice Alpine Studio, nata come voce di
qualità nel panorama italiano della narrativa specialistica d’alta quota ma poi,
grazie al team guidato da Andrea Gaddi, sempre più disponibile a sondare il
terreno minato della letteratura d’indagine: «Cresce la fame di verità, il
bisogno di conoscere le vere ragioni di quello che ci sta succedendo», sostiene
Gaddi, che nella collana “A voce alta” presenta titoli come quelli dedicati ai
retroscena dell’attentato alle Torri Gemelle o al potere segreto dell’Opus Dei.
In primissimo piano, grazie al lungo lavoro di Franco Fracassi, l’analisi sulle
nuove forme della strategia della tensione: a cominciare dai black bloc,
fantomatico gruppo di guastatori che nel 2011 ha «messo a ferro e fuoco Roma e
incendiato i boschi della val di Susa», dopo aver devastato, una decina d’anni
prima, Praga e Seattle. E soprattutto: Genova.
I
black bloc «hanno un nome, ma non un
volto». Sono note le loro azioni, ma non il perché le compiono: «I black bloc
sono temuti, odiati, talvolta idolatrati, ma nessuno li conosce veramente»,
dice Fracassi, presentando il suo ultimo lavoro sui neri guastatori senza volto,
sempre così puntuali quando si tratta di rovinare cortei importanti, molto
temuti alla vigilia proprio perché pacifici. «Di loro si dice che sono
anarchici, che sono poliziotti infiltrati, che sono pagati da chi vuole
sabotare le manifestazioni e i movimenti di protesta, che sono fascisti
camuffati, che sono semplici sbandati carichi d’odio e con la voglia di
annichilire il mondo che li circonda». Il nome deriva da una sigla storica,
quella degli antinuclearisti tedeschi. Ma è stato tristemente sdoganato soltanto
a Genova, nella “macelleria messicana” scatenata dai reparti antisommossa nel
2001: «La polizia ha letteralmente massacrato dimostranti inermi, senza
procedere all’arresto di un solo black bloc: ai “neri” è stato anzi permesso di
devastare impunemente l’intera città».
Il
libro di Fracassi ripercorre le tappe fatali della carneficina: dall’antipasto
di Napoli del 17 marzo, in cui furono caricati selvaggiamente i manifestanti
pacifici, fino al carnaio di luglio a Genova, con epicentro piazza Alimonda e
l’atroce fine di Carlo Giuliani, nonché il corollario della vergogna: il
pestaggio indiscriminato della scuola Diaz e poi le torture nella caserma di
Bolzaneto. Cuore di tenebra del “buco nero” passato alla storia sotto il nome
di G8 di Genova, la crudele uccisione di Giuliani: la pietra con cui si è
infierito sul cadavere, fracassandogli il cranio nella speranza di inscenare un
incidente credibile (il giovane no-global “ucciso accidentalmente da un sasso
lanciato dai dimostranti”) e poi la sparizione della prova regina: Carlo
Giuliani fu frettolosamente cremato, racconta la madre, Heidi, perché ai
genitori fu raccontato che al cimitero non c’era posto per la tomba. Così, il
forno crematorio cancellò per sempre anche il proiettile che Carlo aveva ancora
nel cranio: fu davvero sparato dal carabiniere ausiliario Mario Placanica, che
oggi chiede la riapertura del processo perché sia finalmente accertata la
verità?
Allora
reporter d’assalto per l’agenzia ApBiscom, Fracassi si calò fino al collo nella
strana guerra civile che devastò le strade del capoluogo ligure, vivendo da
vicino l’intero campionario dell’aberrazione andata in scena in quei giorni: la
polizia che osserva le devastazioni dei black senza muovere un dito e poi,
appena i “neri” si allontanano, carica senza misericordia i dimostranti inermi.
Fotogrammi sconcertanti, che Fracassi offre ai lettori con l’immutata emozione
dello sguardo ravvicinatissimo, delle manganellate ricevute, delle scene di
terrore, della caccia all’uomo scatenatasi persino al pronto soccorso, tra i
feriti più gravi. Pagine incalzanti, sempre nel cuore della tensione, tra le
fila degli stessi agenti antisommossa – divenuti irriconoscibili, in preda a
un’aggressività inaudita – e poi la prima linea delle “tute bianche”, tra ossa
rotte e teste “aperte” dalle botte, fino agli inermi manifestanti cattolici: le
suore colpite al volto, le ragazzine sfigurate e torturate. Ma soprattutto
loro, gli inafferrabili black bloc.
Fracassi
li ha seguiti da vicino, per ore: piccoli gruppi ben addestrati, pronti a
devastare negozi, automobili e bancomat per poi sganciarsi rapidamente, sempre
condotti al sicuro, nel dedalo dei vicoli, da misteriose “guide” perennemente
al telefono: con chi? Con “qualcuno” che era perfettamente al corrente, in
tempo reale, dei movimenti dei reparti antisommossa. Deduzione elementare,
conclude amaramente il giornalista, che ha affrontato un estenuante lavoro di
ricerca consultando anche fonti riservate, forze dell’ordine e servizi segreti.
Proprio grazie alla sua tenacia, alla vigilia della mattanza riuscì a
conquistare la fiducia di alcuni uomini della polizia: «Se vuoi vedere il
macello, fatti trovare a mezzogiorno all’angolo tra corso Buenos Aires e piazza
Paolo da Novi», gli anticipa un funzionario di polizia alla vigilia del fatale
venerdì 20 luglio: «Arriveranno dei black bloc e distruggeranno la banca.
Due-tre minuti al massimo. E’ quello il segnale dell’inizio». Fracassi si
presenta nel luogo indicato, e i black bloc arrivano con puntualità
cronometrica. Prima di intervenire, proprio come previsto, gli agenti
attenderanno che si siano allontanati. Poi caricheranno, travolgendo soltanto
innocenti.
Se
a Genova, come è stato da più parti denunciato, «la democrazia è stata
sospesa», non è mai stato chiarito, del tutto, da chi. Dal governo Berlusconi?
Tesi debole: l’esecutivo è finito sulla graticola, esposto a critiche
planetarie. L’allora vicepremier Fini dietro le quinte? La regia operativa probabilmente
anomala, centralizzata nelle mani dell’allora capo della polizia Gianni De
Gennaro che di fatto scavalcò le autorità genovesi, questura e prefettura? No,
c’era ben altro: secondo Fracassi, chi a Genova “voleva il morto” non era
necessariamente italiano. Anzi, quasi certamente era americano: «C’erano troppi
interessi in gioco, e il movimento no-global allora era fortissimo e faceva
davvero paura. A chi? Alle grandi banche, alla finanza mondiale, alle
multinazionali». Genova doveva essere la consacrazione definitiva della
protesta, la nascita ufficiale di un “sindacato mondiale” dei cittadini, pronto
a mobilitarsi ovunque per difendersi dagli abusi della Gianni De Gennaro globalizzazione.
Guai se a Genova il movimento avesse vinto: sarebbe diventato troppo
ingombrante. Un brutto cliente, col quale i “padroni del mondo” avrebbero
dovuto fare i conti. Meglio toglierlo di mezzo per tempo. Coi poliziotti? Ma
no: coi black bloc.
Incolpare
il governo Berlusconi e la polizia italiana per il massacro di Genova
«significa non aver capito nulla di come va il mondo», avverte David Graeber,
antropologo della Yale University ed esperto di fenomeni anarchici: «Nei fatti
di Genova, il governo americano è infinitamente più coinvolto di quello
italiano». Secondo l’antropologo consultato da Fracassi, «Genova non è stata
altro che il punto terminale di una strategia avviata a Seattle, sviluppata a
Praga e terminata in Italia». Movente: «Nel luglio 2001, all’amministrazione
Bush interessava molto di più combattere il movimento no-global che Al-Qaeda:
era quella la priorità della Casa Bianca». Un altro americano, Wayne Madsen,
reduce dagli scontri al Wto di Washington l’anno prevedente, rivela: «Ho
raccolto documenti e testimonianze dall’interno del movimento anarchico Usa e
dell’intelligence». Cia, Fbi e Dia organizzavano e guidavano gruppi di
devastatori anche nelle manifestazioni no-global nel resto del mondo? «E’ il
loro modo di agire, ovunque ci siano interessi Franco Fracassi americani da
difendere».
Per
“G8 Gate”, Fracassi ha sondato centinaia di fonti. Tutte convergono
drammaticamente verso un’unica ipotesi: a Genova si “doveva” spezzare le gambe,
a tutti i costi, al nuovo movimento democratico mondiale. Obiettivo, veicolare
il messaggio più esplicito: “Restate a casa, rinunciate a scendere in piazza
perché può essere pericoloso”. Mandanti: le grandi multinazionali e persino le
loro fondazioni, all’apparenza innocue e filantropiche, in realtà strettamente
collegate con settori dell’intelligence. Disponibilità economica: illimitata. E
poi la manovalanza principale della missione: i mercenari chiamati black bloc,
ben addestrati in gran segreto e specializzati nelle tattiche della guerriglia
urbana. «Le forze dell’ordine presenti a Genova – riassume Fracassi – sarebbero
state in parte complici e in parte impotenti di fronte ai devastatori», i
“neri” sbucati dal nulla e rimasti totalmente impuniti. «Grazie a una sapiente
regia mediatica», tutto è avvenuto «di fronte ai giornalisti, ai fotografi e
alle telecamere di tutto il mondo, che avrebbero creduto di raccontare le
azioni di una formazione chiamata Black Bloc».
Ma
tutto questo da chi sarebbe stato finanziato e poi coperto? Una domanda,
ricorda Fracassi, che si era posto retoricamente anche il generale Fabio Mini,
già comandante delle forze Nato in Kosovo: come avrebbero fatto, i “neri”, «a
partire da Berlino e a venire a Genova potendo passare indisturbati tutte
quelle frontiere?». E poi: chi ha pagato quel viaggio? «Lei ha una risposta?»,
domanda Fracassi. «Certo», risponde Mini: «Ci sono organizzazioni che sono
fatte apposta per questo genere di cose: si occupano della logistica, della
gestione delle risorse, della protezione di chi partecipa a queste operazioni».
Sia meno vago, lo incalza Fracassi. «Non posso», ammette malinconicamente il
generale Mini.
Se
è noto che in quei giorni a Genova c’erano non meno di 700 agenti dell’Fbi,
Daniele Ganser, insegnante di storia a Basilea ed esperto di organizzazioni
coperte come Gladio e Stay Behind, sostiene che la cooperazione tra servizi
segreti americani e italiani sarebbe andata «ben oltre il semplice controllo
dell’ordine pubblico». Il professore svizzero mette in relazione il Sismi con
la Nsa, l’agenzia centrale di intelligence di Washington: «Secondo lei – dice a
Fracassi – da chi provenivano le informazioni sulle “tute nere” dall’estero? E’
l’Nsa che ha il compito di intercettare le comunicazioni telefoniche, i fax, le
e-mail. Poi le ha passate alla Cia, che a sua volta che ha date al Sismi»,
conclude Ganser. «A Genova erano presenti entrambi i servizi segreti, italiano
e americano: le risulta abbiano fatto qualcosa per fermare i “neri”?».
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