giovedì 28 maggio 2015

RIVOLUZIONE? SI, MA QUALE?

Rivoluzione: Mutamento radicale di un ordine statuale e sociale, nei suoi aspetti economici e politici…..(DizionarioTreccani)

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Rivoluzione, normalmente siamo abituati ad associare tale termine ad un movimento popolare e, perlopiù violento, teso a sovvertire il potere al governo qualora venga percepito come iniquo e vessatorio e non ci siano alternative per farlo in modo diverso.
Da queste motivazioni nascono le grandi rivoluzioni del passato da quella francese a quella russa, cinese, cubana e a cui possiamo anche ascrivere il movimento popolare della resistenza italiana che portò alla caduta del fascismo, anche se il contesto all’interno di una guerra mondiale era decisamente diverso.
Si parla, altresì, di rivoluzione anche in occasione di grandi e sostanziali mutamenti dello sviluppo economico e sociale come in occasione della cosiddetta rivoluzione industriale 
che, grazie alla meccanizzazione e alle innovazioni tecnologiche, portò ad un radicale cambiamento dei modi di produzione. Altre rivoluzioni sono di carattere culturale, politico o sociale senza connotazioni particolari che le leghino alla sovversione del potere costituito.
Abbiamo avuto anche “rivoluzioni silenziose” e altre mistificate per tali per avvalorare scelte politiche degli ultimi anni in Italia, come la cosiddetta rivoluzione liberale, per dare dignità e spessore ad un “liberi tutti” che aprisse le porte non alla libertà ma al liberismo che, come sappiamo, è tutt’altra cosa. 
Tornando a noi, perché mai parlare di rivoluzione oggi in una società come quella italiana che pare assopita e rassegnata sotto i colpi e l’invadenza mediatica di un potere che, dietro l’ingannevole maschera del decisionismo, spiana diritti e sposta progressivamente e subdolamente quote di ricchezza dai molti succubi ai pochi potenti.
Partiamo dal presupposto che oggi, non ci sono le condizioni sia nazionali che internazionali, per poter ipotizzare una rivoluzione violenta, di massa e di stampo classico.
La quota di benessere percepita e di apparente libertà è ancora sufficientemente ampia da non permettere ipotesi del genere e non so neanche se sia augurabile, viste le ripercussioni che in ogni caso ricadrebbero sulle masse.
La rabbia oggi viene soprattutto mediata e veicolata attraverso i nuovi mezzi di comunicazione che danno, però, un’immagine distorta e non veritiera dei sentimenti collettivi visto che emergono molto più quelli rabbiosi, razzisti, qualunquisti rispetto quelli che denunciano argomentando e prospettando ipotesi di azione e soluzione.
Infatti se si assiste ad un talk show o si scorre una pagina di un social sembrerebbe che il problema primo siano i rom, gli extracomunitari, i diversi in genere, opacizzando quelle che sono le vere motivazioni delle ingiustizie e delle sofferenze degli ultimi e dei penultimi.
Il potere lascia sul terreno gli ossi spolpati e assiste gongolante alle furiose liti tra i cani che tentano di accaparrarsene una parte.
Quindi sarebbe già rivoluzionario nel senso nobile del termine, riuscire a spostare l’ottica da questa limitata e pericolosa visione ad un’altra che sia più aderente alla realtà dell’origine dei problemi. Per far questo però, ed ecco il senso più attuale della rivoluzione in Italia, bisogna che si rompano gli schemi, che si abbia il coraggio di uscire dai recinti imposti da leggi e norme funzionali solo alla gestione del potere e non alla risoluzione dei problemi. Bisogna anche avere il coraggio di mettere da parte simboli e metodi cui possiamo essere sentimentalmente legati, ma che, ormai, non vengono più percepiti come elementi di cambiamento, anzi! Così come bisogna avere il coraggio di mettere da parte il bon ton istituzionale laddove questo rappresenti un limite all’azione, il politically correct ha fatto più danni dell’uragano Katrina. Riappropriarsi della consapevolezza e, delle scelte conseguenti, per la quale il ricco e potente può permettersi di rispettare i tempi e le logiche dei balletti della politica,  mentre i poveri non possono usufruire di  questo privilegio per cui le risposte e le soluzioni non possono essere rimandate sempre ad un auspicabile futuro frutto di un rituale rispetto istituzionale.

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In quest’ottica appare limitato e inadeguato a fornire risposte qualsiasi tentativo di dare vita a formazioni politiche che si posizionino nel solco di una tradizione che ormai sappiano essere di pura rappresentanza laddove non prevedano anche azioni che vadano al di là delle normali forme di opposizione politica istituzionale. Non fraintendiamoci non intendo con questo ipotizzare forme violente di contestazione o assalti ai forni, ma ci sono mille esempi di opposizione al potere non violente ma considerate illegali e percepibili come rivoluzionarie, vedi il coraggio di una Rosa Parks, o lo sciopero dei telai in India ai tempi di Ghandi
Oggi qualsiasi formazione politica che voglia rappresentare il cambiamento e distinguersi nel magma altrimenti indistinto della politica italiana, non può che essere “rivoluzionario” nell’appeal e radicale nelle scelte. Il cerchiobottismo non paga e, soprattutto, non serve.
La profondità delle ferite imposte alla democrazia e, soprattutto, ai cittadini, ai giovani, alle donne di questo paese negli ultimi venti anni non possono esse curate con i pannicelli caldi, c’è bisogno del coraggio per operare uno shock rivoluzionario in grado di rimettere in discussione tutte le scelte fatte in questo periodo, a cominciare dal sistema elettorale, dalla redistribuzione della ricchezza, dagli accordi europei, dal tipo di sviluppo che si ipotizza, dal riportare e mantenere nelle mani pubbliche i servizi, l’assistenza, l’istruzione ponendo rimedio a tutte le devastanti riforme portate avanti dai governi che si sono alternati in questi anni.
Di questo ha bisogno l’Italia, di questo hanno bisogno i suoi cittadini, di questo abbiamo bisogno noi per continuare ostinatamente e, nonostante tutto, a credere che non siamo vittime di un’ avvilente gioco delle parti.


MIZIO  

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