Un nuovo contributo dell'amico Dott. Maurizio Santopietro
Psico-sociologia
dei “valori”: concreti modulatori del comportamento
Spesso
il concetto di “mancanza di valori” sembra esprimere l’idea di assenza: di
“educazione”; di “principi morali”; di “rispetto per l’altro”; di “altruismo”,
di “sensibilità umana”, e, in casi più gravi, di “insufficiente cultura della
vita”, ecc... Secondo il senso comune, tale carenza sarebbe causata dallo
“sfrenato egoismo”; dal “lassismo educativo”, dalla caduta di “ideologie
alternative”, dall’ “arrivismo” ecc... che faciliterebbero, presso i giovani
(in particolar modo quelli socialmente svantaggiati), l’assunzione di condotte
“antisociali” o esageratamente omologate alle mode vigenti. Giovani, si dice,
“privi di valori”. La domanda che viene spontanea è la seguente: perché sono
sempre i giovani il bersaglio di tali critiche? E perché sono sempre loro la
parte socialmente più vulnerabile all’esposizione del modello
cultural-consumistico? Prima di provar a rispondere ai quesiti posti, è utile
definire i valori in termini psicodinamico e psicofisiologico. Nell’accezione
psicodinamica essi esprimono le “strutture psicologiche interne” e, in
particolar modo, le “istanze super-egoiche”, la cui attività intrapsichica,
avendo diverse origini (psicologica, culturale, etica, sociale, educativa,
religiosa, ecc...), ha la funzione di adeguare gli schemi comportamentali ai
diversi contesti relazionali. In termini psico-fisiologici “strutture di
personalità” e “valori” corrispondono alla formazione di specifici aggregati
neuronali (pace-maker), che presiedono la manifestazione dei rispettivi
comportamenti. Questi “pace-maker”, che si integrano con il repertorio di
risposte geneticamente predeterminate, si attivano in relazioni a specifiche
classi di stimoli relazionali e non ad altre essendo gerarchicamente
organizzati secondo una priorità soggettivamente data. Collegato sinteticamente
l’astratto concetto dei “valori” con la concretezza psicofisiologica del
comportamento manifesto, ora è necessario considerare l’interazione con il
relativismo morale. Infatti, nel periodo precedente l’industrializzazione, i
modelli, sociale e familiare, organizzati secondo le esigenze del fattore
primario, seguivano, in maniera rigidamente stereotipata e, coerentemente
strutturata, la chiara suddivisione dei ruoli, da cui emergevano effetti
psico-sociali d’indubbia valenza coesiva, che rafforzavano il senso
d’appartenenza culturale. In tale contesto, anche il modello educativo era
adottato coerentemente, dalla famiglia e dalla scuola, luogo unificato di
apprendimento, di didattica, di educazione civica, di morale e di pedagogica.
Questa situazione avrebbe favorito la condivisione sociale per quei valori
all’epoca dominanti, riducendo notevolmente il gap culturale tra gli adulti e i
giovani, diminuendo, quindi, l’intensità dello “scontro” generazionale, che é,
in una certa misura, naturale. Gli effetti scatenati dal fatidico “boom
economico”, dalla protesta giovanile del “’68”, dall’emancipazione della donna,
dall’affermazione del modello tecnologico liberal-consumistico e dalla caduta
di ideologie antagoniste, avrebbero prodotto profonde disgregazioni: a)
nell’organizzazione della famiglia che, ormai “affettivamente atomizzata”,
rende difficoltosa la formazione dei processi di coesione dell’Io, e non
fornendo più coerenti modelli di valori alle nuove generazioni, perde parte
della capacità di “compattezza morale e psicologica”, anche per la scarsa
autorevolezza dei genitori in campo educativo; b) nel sistema scolastico che,
non essendo più la sede unificante delle varie esperienze di cui sopra,
comporta ulteriori “frammentazioni”; c) nel modello socio-culturale che,
divenuto molto più complesso. Tutto ciò incrementerebbe la diversità culturale
e comportamentale fra le varie generazioni e, di conseguenza, aumenterebbe la
differenza dei modi di “vedere” e di “sentire” fra adulti, giovani, adolescenti
e bambini. I valori veicolati dal modello consumistico, sembrano imporsi anche
nell’ambito delle relazioni interpersonali, assumendo sfumature pericolosamente
strumentali anche fra i più piccoli. La complessità sociale, con le sue
infinite articolazioni contradditoriamente frustranti, fa emergere, valori
incoerenti, ambigui, ambivalenti che, interiorizzati da piccoli e giovani,
favoriscono la formazione di strutture di personalità sofferenti,
“nevroticamente conflittuali”, “dissociative”. Ma anche una marcata adesione ai
“normali standard culturali”, non esclude stati d’insofferenza esistenziale.
Queste ragioni amplificano la vulnerabilità dei giovani, dovuta ai fisiologici
cambiamenti legati all’identità. Inoltre, i giovani sono facili bersagli perché
storicamente rappresentano potenziali agenti innovatori, costituendo una
minaccia destabilizzante del sistema acquisito, e non sempre possono
beneficiare di modelli adulti “sani”.
Pubblicato nel 2003su “L’Attualità”
(Periodico mensile di società e cultura, Roma, Dir. C. G. S. Salvemini),
Dott. Maurizio Santopietro
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