Quando
nel 2008, cominciò questa lunghissima crisi fu chiaro fin quasi da subito che
si trattava di una crisi non ciclica e non episodica, come tante altre tipiche
del capitalismo. Diversa e più devastante anche della famosa crisi del ’29,
perché diverse le condizioni, diverse le motivazioni, diverso l’habitat e gli
assetti sociali e mondiali. La globalizzazione e la mercificazione delle umane
attività legate sempre più, non solo e non prevalentemente al profitto del
capitalista, ma alla speculazione finanziaria, associata ad una indotta
richiesta sempre maggiore di merci a prezzi sempre più bassi e conseguenti sfruttamenti di risorse a
prezzi sempre crescenti ha creato un cortocircuito sistemico e non limitato al
solo periodo interessato. Da come si valuta e da come se ne uscirà sapremo se
la lezione di questi anni sarà servita a qualcosa o se continueremo nella folle
corsa verso l’autodistruzione. Le risposte della politica e dell’economia
“classica” sono state insufficienti, sbagliate e hanno fondamentalmente
peggiorato gli effetti della crisi stessa, non leggendola e non affrontandola
con le giuste armi e la giusta visuale.
Per
certi aspetti, anche giustamente, è stata abbandonata, in nome della
complessità, la visione novecentesca della società, e la conseguente visione
ideologica che puntava al riscatto collettivo dell’essere umano. Si è dato
spazio e dignità a forme sempre più esasperate di competizione tra gruppi e
singoli esaltando, oltremisura, il ruolo dell’IO rispetto al NOI. Ricordate il
mantra, ancora in voga anche tra di noi, della meritocrazia e della
rottamazione? Ebbene in quest’ottica e in questa condivisione passiva della
logica che c’era dietro, invece che esaltare le potenzialità di ognuno e
indirizzarle ad un balzo qualitativo generale, si sono giustificate e aperte
all’accettazione sociale le gabbie dei peggiori istinti egoistici e al conseguente
massacro sociale, sia che interessi gli stati, gruppi o singoli. Ovviamente
nulla è casuale, se questo è stato fatto, appare evidente che dietro ci siano
interessi precisi. Gli interessi di quegli stessi che, pur essendo i maggiori
responsabili della crisi, dalla stessa hanno ricevuto i migliori benefici.
Ritornando
alla domanda che, da sempre ci si fa, del che fare? Appare chiaro che chiunque
voglia uscire da questa crisi e combatterne i nefasti effetti, non può farlo
ricorrendo ad una semplice operazione di maquillage.
Tanto
per essere più chiari e precisi, il semplice ricorrere ai classici parametri
della crescita economica, pur apparendo come la risposta più semplice e
comprensibile al momento, non è certamente quella più adeguata. Si diceva
all’inizio crisi sistemica e non episodica. Forza lavoro sempre più abbondante
e sempre più a buon mercato con sempre meno posti da occupare. Materie prime e
beni essenziali (es. l’acqua), sempre più scarsi e fonte di speculazioni
globali e monopolistiche. Presenza di una finanza che salvaguarda
esclusivamente se stessa e il proprio ruolo dominante svincolata da qualsiasi
dovere sociale o politico di sussidiarietà. Un ambiente e le sue risorse che,
seppur immenso, non è illimitato e con il massiccio sfruttamento legato
esclusivamente alla logica del profitto rischia
di portare l’umanità ad un default collettivo senza precedenti, non fra
mille anni ma in pochi decenni.
Mettiamoci anche le guerre, le carestie, le ingiustizie sociali di quelle parti
del mondo da sempre considerata come territori da sfruttare e depredare, con le
conseguenti migrazioni bibliche di questi anni, e il quadro è abbastanza
completo per essere non preoccupati, ma atterriti. E, purtroppo, sembrano
inadeguati e limitati anche gli strumenti e le letture forniti dalla politica,
anche quella ideologica, legate come sono, ad un riscontro immediato e
misurabile in termini di risultati elettorali. E’ indubbio che rispetto le
problematiche drammaticamente esplose con la crisi attuale, ma già
presenti nel corpo sociale da tempo, il
capitalismo soprattutto nella sua forma più recente e cinica, quello liberista
finanziario,appare senza dubbio, come il maggiore responsabile e, di
conseguenza,il più inadeguato a fornire
risposte e soluzioni. Risposte e soluzioni che possono partire solo da quelle
forze e da quegli ideali che partendo da una base di ricerca di giustizia,
eguaglianza e libertà possono, più facilmente e più logicamente, fare proprie
nuove visioni e nuove tematiche da iniettare nel proprio dna politico senza
rischiare grosse crisi di rigetto. Ecco quindi che veniamo al noi e a quello
che ognuno può fare nel suo piccolo. Forse non è un caso che, in alcuni paesi,
la crisi abbia prodotto effetti più pesanti che per altri, come nel caso dell’Italia.
E non è un caso, forse, che il tutto sia stato esponenzialmente aggravato, da
una lettura da parte della sinistra, sbagliata e in controtendenza rispetto i
propri presupposti ideali prima che ideologici. Se questo può essere vero, e
secondo me è un aspetto da non sottovalutare, una delle cose da fare è cercare
di risostruire quel tessuto connettivo che faceva della sinistra, in passato,
il principale baluardo contro gli eccessi e le ingiustizie insite nel sistema
capitalista. Nessun nostalgico riproporsi di schemi e simboli che appartengono
al sentimento e alla storia personale e collettiva, ma la proposizione con
forza del concetto che, se non si parte dalla lotta alle disuguaglianze, non
potremo mai sperare di innestarle e contaminarle con successo con le nuove
tematiche. Quelle che parlano di un’economia sostenibile, di una salvaguardia
ambientale, di un cambiamento sostanziale anche di usi e consumi personali.
Troppo spesso queste sono legate, nella proposta, a forme di francescanesimo o di pauperismo
che, per gran parte della popolazione mondiale (e anche italiana) in condizioni
di sofferenza e povertà non potrebbero mai, non solo, essere recepite e fatte
proprie, ma sicuramente avversate e combattute.
Questa
è la sfida che abbiamo di fronte, queste sono secondo me, le possibilità che
abbiamo. Se stiamo passivamente ad aspettare che un’inversione di tendenza
venga da coloro che ne sono i responsabili rischieremmo la paralisi e il
default collettivo, non finanziario, non economico ma globale.
MIZIO
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