lunedì 19 aprile 2021

DON ROBERTO E PASOLINI

Un paio d'anni fa circa, è morto Don Roberto Sardelli. Un nome che a molti non dirà molto ma che per altri, me compreso, ha rappresentato un mondo e un universo ancora non esplorato e compreso completamente. Don Roberto era un prete e sembra strano, che proprio io così lontano dalla religione costituita e dai suoi precetti, ma non alieno alle eterne domande sulla vita, i suoi perchè e il suo misterioso destino, ne possa parlare e ricordare in maniera così coinvolgente. Ma ho sempre preferito parlare e distinguere il sentimento religioso o la spiritualità, da qualsiasi forma di organizzazione costituita fatta di precetti, comandamenti e, soprattutto di esercizi di fede impossiili e improbabili. Don Roberto pur essendo nella Chiesa era a questa, paradossalmente estraneo ma ostinatamente presente come pietra di scandalo.Inviso e tenuto ai margini. Arrivando addirittura, per diversi anni, a togliergli la possibilità di praticare l'esercizio del sacerdozio. Proprio a causa del suo attenersi profondamente al messaggio originario e, praticamente unico, del Vangelo del Cristo. Stare dalla parte degli ultimi. E lui ci stava, non in modo caritatevole, non catechizzando e alimentando la speranza in un paradiso post mortem. Ma esercitando quello che sentiva come il suo compito principale. La difesa aprioristica e il cercare di far prendere loro coscienza. Don Roberto, in quei tempi di forte e marcato manicheismo ideologico e poitico, era sospettato e addirittura accusato, sia da vertici vaticani che da politici e media interessat, di essere comunista. Pur senza essere mai stato nè iscritto, nè militante, nè tantomeno diffusore di idee, stampa o altro riconducibile ad una propaganda per questo o quel partito o ideale. Ovviamente questo non voleva dire equidistanza o disinteresse qualunquista. Anzi il suo lavoro continuo, certosino, per certi versi estenuante era per fare in modo che i poveri potessero e dovessero appropriarsi della politica come strumento prima di comprensione, poi di liberazione. Lasciare la politica a lor signori, che pur definendola cosa sporca, si guardavano bene dal mollarne la gestione o dal cercare di renderla migliore (in questo aspetto dopo decenni siamo ancora lì se non peggio). Lui, essendo soprattutto una persona libera, aveva come referente principale e forse unico, la propria coscienza di cristiano. Forse di un cristiano senza chiesa e di un comunista senza partito. (Silone) Ma lo era e lo diventava (comunista) agli occhi dei borghesi benpensanti perchè urlava, non solo metaforicamente, contro l'ingiustizia, e non solo dal pulpito di una chiesa. Ma lo faceva dalle strade polverose o fangose dell'estrema periferia degradata di Roma. Lo diventava perchè non scacciava o emarginava i Rom. Ma cercava di comprenderne cultura e usanze per condividerle empaticamente. Lo era perchè aveva deciso di prendersi cura, sostenere e soprattutto tener loro la mano nell'ultimo viaggio. ai malati terminali di AIDS. Quei malati che, in quegli anni, paventando una nuova peste e appestati vittime di una punizione divina, venivano scacciai e abbandonati al loro destino lasciandoli morire da soli, vittime più dell'ignoranza che della malattia. Lo era soprattutto però, perchè nella sua Scuola 725, cui mi onoro di aver fatto parte come allievo, all'Acquedotto Felice, diede una coscienza e preparò una generazione di ragazzi. Ragazzi che nel crescere, sarebbero poi diventati protagonisti attivi nella società e non condannati preventivamente, non da un dio capriccioso, ma da una società cinica, ad occupare gli ultimissimi gradini della scala sociale. Tra questi c'è Chi lo ha fatto in politica. Chi nel sindacato, nei movimenti, nelle associazioni o nell'ambito lavorativo (alcuni sono diventati insegnanti). Ma tutti sicuramente, nella vita, nel rapporto col prossimo e con la società nel suo insieme. Un rapporto in cui la ricerca e difesa della giustizia non ha rappresentato solo un concetto astratto o una semplice enunciazione di principio. Ma una linea di confine netta e non modificabile tra bene e male. Linea di confine che quasi mai permetteva lo sconfinamento nell'altra, più comoda della convenienza opportunistica. Ragazzi i cui legami tra loro si sono nel tempo spesso allentati o addirittura (come nel mio caso) sfilacciati, ma mai provocando nell'intimo, un senso di distacco o allontanamento da quegli insegnamenti e da quell'esempio vivente. Al contrario, avvertendo spesso, un profondo senso d' inadeguatezza per non riuscire neanche lontanamente, ad emularne l'esempio. Ma mai facendo in modo di perdere la consapevolezza di aver fatto parte collettivamente e singolarmente, di un'esperienza sicuramente unica, e di aver potuto usufruire di un raro privilegio. Credo che il sentimento che sicuramente ci accomuni, oltre quello della comune estrazione sociale e dell'esperienza vissuta, sia proprio quel senso di appartenenza ad una ristretta privilegiata cerchia. Fatte le debite proporzioni ma senza tema di esagerare, trattasi di un sentimento abbastanza vicino a quello provato e vissuto da chiunque si sia trovato a stretto contatto con personalità di una grandezza non misurabile. Persone capaci di ergersi almeno di un palmo sopra la mediocrità e la supponenza imperante. Quelli che qualcuno non esita, a seconda dell' habitat, a chiamare santi, grandi anime o eroi. Personalità di diversa estrazione, formazione o rappresentanza religiosa, politica o sociale le cui gesta e le parole attraversano il tempo mantenendone intatto la grandezza e il valore. Ecco noi questa cosa non 'abbiamo sentita dire da qualcuno. Non ce l'ha dovuta raccontare nessuno. Non l'abbiamo letta sui libri. L'abbiamo vissuta, toccata. Ci abbiamo studiato, mangiato e lavorato insieme. A volte abbiamo anche discusso, criticato e anche dubitato. Inutile nasconderlo. L'hanno fatto in tanti molto più preparati e attrezzati di noi in situazioni sicuramente più facili, figuriamoci se non potessero farlo degli spocchiosi adolescenti di borgata, come eravamo. Ma, soprattutto l'abbiamo mantenuto vivo non solo nel ricordo e nelle celebrazioni, ma nel vissuto, con risultati spesso non esaltanti e decisamente criticabili ma mai, grazie a quel seme che lui ha gettato in noi, superando quel sottile confine tra bene e male cui accennavo prima. Quel confine che traccia in maniera invisibile ma determinante, l'appartenenza non solo e non tanto alle brave o cattive persone. Ma tra esseri umani coscienti, sensibili, vigili e attivi protagonisti consapevoli, rispetto l'apatia, il cieco risentimento e il conseguente insensibile menefreghismo cui si sarebbe potuto essere destinati da un potere tanto ingiusto quanto ottuso. Insomma, l'occhio e l'attenzione di Don Roberto verso gli ultimi e verso la loro rappresentazione pratica nelle borgate romane, non era la stessa di Pasolini. Il quale trovava nella fascinazione del brutto, sporco e cattivo motivo per suoi interessi che non solo stimolati da curiosità intellettuale o da sentimenti empatici, definirei più antropologici che sociologici. PPP non ne vedeva la grandezza potenziale, se non nella narrazione delle miserie, e non ne ricercava o auspicava il riscatto. Ne raccontava e ne ricercava le ombre e i paradossi. Ci si calava beandosi ed esaltandone gli aspetti più scandalosi e scandalizzanti. Esattamente il contrario di Don Robero la cui preoccupazione costante era propio quella di difendere, rispettare, minimizzare e mimetizzare gli aspetti di costume e quasi agiografici di quella condizione. Non dimentico la rabbia e la durezza con cui contestava chi si provava ad approcciarsi con quello spirito alla borgata e ai suoi abitanti. Riportandone e raccontandone su stampa e media l'immagine di un'umanità esclusivamente dolente e misera, oscurandone e delegittimandone, di fatto, potenzialità e speranze. Più o meno quello PPP veicolava e trasmetteva attraverso le sue opere e le sue frequentazioni. Opere che, seppur da sempre sono state prese a esempio e modello per denunce e rappresentazioni ulteriori, ne erano in realtà una semplice, seppur mirabile narrazione. Era il regista, lo scrittore, l'osservatore, l'intellettuale talmente posizionato in una dimensione altra, che nel raccontare in modo anche mirabile ne ricercava però, il paradosso e a rappresentazione scandalistica. Certificandone certamente e veicolandone più o meno fedelmente, l'esistenza. Ma senza traccia, impegno o mobilitazione per un suo superamento. La denuncia urlata dello scandalo e dell'ingiustizia, augurandosi quasi però, che il tutto rimanga tale e quale nei tempi e nei modi. Non indicando una via d'uscita e di riscatto, se non affidata alle piccole, meschine trovate o espedienti dei protagonisti delle sue opere, destinati quasi fatalmente, al fallimento. Per questi aspetti paralleli tra le due visioni ma non sovrapponibili a me piace paragonarli un pò alle differenze che possiamo trovare tra un quadro e una fotografia. Il soggetto è lo stesso, la sua rappresentazione e narrazione è però, sicuramente diversa già nel suo approccio iniziale, e ancor più nella sua realizzazione. Rendendo il loro paragone difficoltoso se non addirittura impossibile, proprio per le differenze motivazionali e pratiche presenti fin dalla scelta dela tecnica da usare rispetto il cosa andare a rappresentare. MIZIO

1 commento:

  1. Grazie, Maurizio,per questo tuo contributo che riassume egregiamente il nostro incontro di ieri. Cerchiamo di farne tesoro. Un abbraccio

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