Oggi,
mentre camminavo, ho pensato al mercato. Ma non ai mercati classici, quelli
pieni di box, mercanzia di ogni tipo, alimenti, pesci e venditori che urlano,
cantano, ammiccano e offrono. No, il mercato mio, quello virtuale, quello che
in verità non esiste perché altro non è che un insieme di relazioni tra
soggetti: il mercato del lavoro. Sarà
perché è il mio mestiere, sarà perché al singolare è uno fra i più evocati,
camminando mi è venuto in testa. È strano come il mercato del lavoro,
contrariamente a quelli declinati al plurale, “i mercati”, non abbia
particolari desideri: a oggi non ho sentito mai dire “il mercato del lavoro
vuole…” o “il mercato del lavoro ci chiede…” Lui, che dev’essereil fratello
povero o sfortunato della altrimenti opulenta famiglia dei mercati, ha
piuttosto “necessità di…”, “ha bisogno di…” Credo sia un po’ legato e imbolsito
perché da molti anni la cura è sempre la stessa: stretching e iniezioni per
aumentarne la flessibilità.
Io
un’idea me la sono fatta, ma ammetto che pur potendomi fregiare del titolo di
esperto, sempre meno ne capisco. O forse è la categoria di esperto a essere
sopravvalutata oppure sono soltanto io a essere un cazzone.
Intanto,
qualche puntino sulle “i” bisognerà pur metterlo: se abbiamo cento asini e
ottanta carote sarà molto difficile che ogni asino abbia una carota. Credo che
su questo possiamo concordare tutti, belli e brutti, piddini e grillini, maschi
e femmine, destra e sinistra.
Quindi
su cosa dovremmo concentrarci, sull’alleggerire l’asino per farlo arrivare
prima alla carota oppure sull’aumentare le carote?
Perché
la scelta non è indifferente. E visto che la strategia prevalente è stata
quella di lavorare sull’asino, così che fosse più reattivo, più rapido, più
leggero, più capace di affrontare le mutate condizioni, significa che noi
viviamo in un sistema costruito per ottanta asini e che venti saranno sempre in
esubero: se le carote saranno abbastanza grandi da generare scarti sufficienti
bene, ma con carote rachitiche tipiche dei periodi di crisi pietà l’è morta…
C’è
anche chi dice che se si vedono asini particolarmente reattivi, rapidi ecc. da
fuori, dal resto del mondo inizieranno a tirarci carote oppure le carote
cresceranno da sole, spontaneamente, ansiose di offrirsi agli asini. Oppure gli
asini dovranno farsi “imprenditori di sé stessi” e inventarsela la carota.
Il
mercato del lavoro è difficile da intrappolare in una metafora, asini e carote,
i posti al cinema (occupati, non occupati, distrutti creati, comodi e scomodi,
con spettatori che entrano e che escono), spiegano – come tutte le metafore in
fondo – i meccanismi fino a un certo punto.
Intanto
perché “il mercato del lavoro” non esiste, ma è un concetto teorico forse
valido per l’analisi generale (l’insieme degli occupati, l’insieme dei
disoccupati e via dicendo), per farsi un’idea di massimo, ma quasi inutile dal
punto di vista operativo.
Contano
“i mercati”: per esempio, se sono un idraulico…lasciamo perdere gli idraulici!
Se
sono un insegnante entrerò in uno specifico mercato del lavoro che è quello
dell’insegnamento, che ha le sue regole: concorsi, chiamate, domande a istituti
pubblici e privati, competenze, acquisizione di competenze. E bisogna
conoscerlo per potersi orientare, per avere qualche possibilità. E si sa pure
quanti posti potranno essere disponibili, quanti quelli “fissi”, quanti quelli
“mobili”.
Questo
vale per quasi tutti i mestieri e le professioni, ciascuna ha un suo mercato. E
in questo mercato vige un certo evoluzionismo: vince il più “adatto”, dove a
volte il più adatto non è il più serio, il più bravo o il più preparato, ma
quello con più relazioni, più “accozzato”, “il figlio di…” (non nel senso della
professione della mamma, di di genitori abbienti e ben introdotti, of course).
Resta
la sensazione che in tutto questo ci sia qualcosa di profondamente sbagliato.
Mi occupo di mercato del lavoro dai tempi della mia tesi di laurea e la
situazione è peggiorata. Questo nonostante leggi, pacchetti di leggi, riforme e
controriforme. Ma forse avevano ragione Aris Accornero e Fabrizio Carmignani
nel libro che mi convinse a studiare questo argomento e a fare una tesi di
laurea sulla disoccupazione: è un’attenzione fatta esclusivamente di parole!
Quando
iniziai a occuparmi di mercato del lavoro i soggetti più deboli erano le
giovani donne del Sud Italia con bassa scolarizzazione e oggi mi sa che è la
stessa cosa. La differenza è che ieri la disoccupazione era un passaggio
probabile in una traiettoria di vita: finivi le scuole, mettevi in conto – in
virtù dell’alta disoccupazione giovanile – un certo periodo, più o meno lungo,
alla ricerca di un lavoro, ma entro una certa età eri sicuro di trovarlo.
Infatti, superati i 35/40 anni i tassi di disoccupazione, soprattutto quella
maschile, erano poco significativi anche da noi.
Oggi
non è più così e la disoccupazione, anche quella mascherata (perché siamo pieni
di cassaintegrati che non rientreranno mai al lavoro precedente), è un evento
che può capitare a tutte le età.
Da
qui la grande truffa nel dividere “insider” da “outsider”, padri da figli, come
ha fatto questa destra maledetta – che il diavolo se la pigli – nella
repubblica delle banane in cui viviamo (con simpatie anche dalla parte avversa,
che di polli che si credono aquile grazie a dio ne abbiamo anche noi!).
Ad
un certo punto sembrava che le tutele dei lavoratori delle grandi imprese
fossero un ostacolo all’assunzione dei figli i quei lavoratori e che il
problema fosse tutto lì! Non che mancasse una politica industriale, uno
straccio di idea di futuro, un minimo di governo dell’economia, una visione
laica delle dinamiche produttive e non dogmatica da taliban del mercato “che fa
bene tutto, basta lasciarlo stare…”
Occultando
il fatto però che padri e figli sono legati e che i figli in genere sono
mantenuti dai padri e che se tu non tuteli il padre, ma lo sostituisci col
figlio, senza prevedere una stato sociale capace di far fronte a un mutato
equilibrio sociale, fai esplodere il sistema.
Perché
sostituisci chi è tutelato con chi è indifeso, chi può mantenere anche altri
con chi a malapena riesce a mantenere sé stesso. Quindi, l’obiettivo vero qual
è?
Aiutare
i giovani a entrare nel mercato del lavoro o disarmare i padri, indebolendo la
classe lavoratrice, giovani compresi?
Non
vi pare che i diversi strumenti messi in campo, le diverse varianti di stage e
tirocini, non servano per selezionare e modellare lavoratori che abbiano quale
caratteristica principale la docilità?
Perché
sembra che l’inadeguatezza sia tutta dal lato dell’offerta del lavoro e mai da
quella della domanda, anche quando l’insufficienza della nostra classe
imprenditoriale è palese e dimostrabile dalla scelta costante della via più
facile?
Come
se non fosse chiaro che chi sul mercato resta, in fin dei conti, è chi lavora
sulle innovazioni di prodotto e non chi scarica sulla forza lavoro ogni
problema e tira a scardinare le organizzazioni sindacali, cercando di
trasformarle (senza grandissima e diffusa opposizione a dire il vero, che
teniamo famiglia tutti…) in complici, da antagoniste quali dovrebbero essere,
almeno in una sana democratica dialettica fra interessi contrapposti…
Perché
la cosiddetta “concertazione” avrà pure portato un pochino di pace sociale, ma
ha anche drenato immense risorse dalla tasche di chi lavora a quelle di
redditieri vari.
Nel
linguaggio comune poi si fa pure confusione fra le parti in gioco, perché
“offerta di lavoro” sembra essere chi offre posti di lavoro, cioè imprese,
pubblica amministrazione e famiglie; mentre “domanda di lavoro” invece sembra
essere chi il lavoro lo chiede, cioè i lavoratori disoccupati. Invece è
esattamente il contrario.
Agire
sul lato dell’offerta (i “quattro pilastri” UE del Trattato di Lisbona questo
esplicitamente promuovono, con l’accento posto su “occupabilità”,
“adattabilità”, “imprenditorialità” e “pari opportunità”) significa in qualche
modo scaricare la responsabilità dello Stato, che si ritira dall’economia e dal
suo governo (in ottemperanza al dogma), sui lavoratori, che si devono
industriare per essere più appetibili e la funzione dello Stato che non è
quella di promuovere l’economia attraverso la creazione di lavoro (più carote),
ma coi servizi ai lavoratori (cioè allenando gli asini alla corsa…).
È
chiaro che la partita è tutta politica e poco tecnica: gli strumenti
dell’economia sono per l’appunto “attrezzi” ed è inutile attribuire loro
caratteristiche che non hanno. A ben vedere, tutta questa enfasi sui mercati,
con l’attribuzione di caratteri antropomorfici (i mercati “chiedono” e
reagiscono come fossero esseri animati e dotati di senso) rientrano in quei
meccanismi detti “euristiche” di cui scrivevo ieri.
È
necessario quindi ragionare attorno al concetto di “job guarantee“, ovvero di
garanzia del lavoro e impegnare le istituzioni, dalle comunità locali fino
all’UE passando per lo Stato, nella promozione del lavoro.
Il
fatto che fino a oggi non ci siano stati risultati significativi può voler
significare che le soluzioni adottate sono semplicemente inutili, se non
dannose. Esiste la necessità di implementare e manutenere le competenze, oggi a
rischio di obsolescenza, ci sono settori dove si può produrre ad alto valore
aggiunto con rispetto dei diritti e dell’ambiente (due dei tre lati del
triangolo della sostenibilità).
Anche
se nel mio cuore io continuo a inseguire il sogno di Karl Marx per il quale
bisognava abolire la condizione di lavoratore, non estenderla a tutti gli
uomini!
Perché,
non dimentichiamolo, il lavoro è una punizione divina, non un dono.
Di
Marcello Cadeddu
Un mio amico idraulico (e non c'è nulla di male nell'essere idraulici o averne uno per amico) Mi ha illuminato in merito enunciandomi un giochino:
RispondiElimina- "Abbiamo otto gabbie e nove cani. Dobbiamo sistemare ciascun cane in una gabbia, in modo che in ogni gabbia risulti un cane, ed uno soltanto".
Saresti in grado di dirmi le soluzioni?
Si! Hai letto bene. Le soluzioni sono due. Una per il Popolo e L'altra per le loro tasche.
VUOI SAPERE QUALI SONO?
Vai a pagina 121 del libro "Aporie del primo teorema di Euclide"
Un saluto a tutti
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