Pubblichiamo con piacere nuovi contributi del Dott. Maurizio Santopietro.
Questa volta sono tre brevi racconti, tre istantanee sulla sua e nostra adolescenza e gioventù
Aspettando ”l’ottantasette
Maria Pia cambiò idea, salì di scatto le scale del metrò di “ P.za Re di
Roma” prima ancora di scenderle tutte e puntò la fermata dell’”ottantasette”,
dopo aver percorso un breve tragitto di strada, tagliando per via Cerveteri.
Qui, nei pressi di “P.za Tuscolo”, si trovò in compagnia di un nutrito gruppo
di persone, che speravano di divenire, di lì a poco, semplici passeggeri.
“Non si dovrebbe far desiderare
troppo” pensò la ragazza alludendo al mezzo pubblico, vedendo tanta gente.
Distribuì un’occhiata distratta attorno a sé, quando vide piombare in
lontananza, con un incedere frettoloso e goffo, un arzillo vecchietto dalle
gambe arcuate, che portava un’enorme gabbia ricoperta da un panno. Maria Pia
aveva di fronte, in pieno centro cittadino, nell’ora di punta, un autentico
contadino, che emanava un lezzo subdolo per le sue narici. Ma sapeva che non
era l’esordio della primavera a diffondere quell’odore campestre. Maria Pia
conosceva l’aroma della terra calabrese, non di quella laziale.
L’autobus arrivò nei minuti
successivi; era affollato, ma non tanto da lasciarselo sfuggire. La discesa,
regolarmente ottenuta con spintoni dai passeggeri, che uscivano dalla porta
sbagliata, congiuntamente alle proteste di quelli che volevano salire nel
medesimo momento, fomentò l’immancabile ressa, da cui il contadino se ne guardò
bene di farvene parte. L’ambiente rurale è molto più spazioso e comodo, “di
queste scene non ne ho il ricordo” rifletté il contadino. Osservò quindi a debita distanza. Gettò la
gabbia sulla pedana e, contraendo la faccia dallo sforzo, salì aiutandosi con
le due mani. Chiedendo scusa, con un marcato dialetto frascatano, si procacciò,
con inattesa facilità, il giusto spazio per sé e per la gabbia, che conteneva
un pollo, vivo e vegeto, dato lo sventolio rumoroso e nervoso delle ali. Maria
Pia, ritirando lo stomaco arrestò l’inalazione di quell’aria calda e viziata;
arrivò fino al centro del bus. Scovò un posto in piedi, esiguo spazio, che le
consentì il rilassamento degli addominali. Difese quel posto con decisione,
stringendo forte la mano attorno all’apposito sostegno standosene in piedi.
Sedeva invece, accanto a lei, una piccola, esile donna filippina. L’autobus
procedeva a singhiozzi. Maria Pia fissava l’orologio, non era il ritardo che
temeva, era l’imminente esame universitario. Ripassava mentalmente i punti
salienti e quelli più ostici per la sua pur fervida memoria. L’esercizio
mnemonico la isolava dalla pressione della calca.
Nell’autobus i passeggeri sono
cose fra cose. I loro sguardi sembrano andare oltre i finestrini, ma rimangono
lì, all’interno: ciò che accade fuori è come se non si vedesse...
Ad un tratto, strilli e stramazzi
vari gettarono nel caos più completo i passeggeri dell’”ottantasette”. Il pollo
si era inopinatamente liberato. L’insolita confusione s’abbatté sulla folla
come mai s’era visto nella più esilarante comica. In alto, il volatile fuggiva
saltando di testa in testa, portando via qua e là qualche ciocca di capelli,
mentre un numero incalcolabile di piume si spargevano dappertutto, come bianche
schegge impazzite. L’animale non riuscì nell’intento di varcare uno dei tanti
finestrini aperti. Gli utenti più temerari, con al capo il contadino, tentarono
arduamente di dare la caccia al pollo, sotto lo sguardo costernato di un
pubblico, le cui agrodolci lacrime lucidavano facce sempre più smarrite. Allo
stesso tempo si urlava e si rideva fragorosamente. E le sorprese non cessavano
di stupire!
Il conducente prese
ininterrottamente a starnutire: ad ogni starnuto seguiva una brusca sterzata,
che sballottava qua e là i poveri passeggeri. L’autista era allergico alle
piume. La studentessa si aggrappò con entrambi le mani, aderendo veementemente
con tutto il corpo alla stanga verticale. L’allergia spossò subito l’autista;
giocò a birilli con i passeggeri; e si rivelò così pericolosa da provocare un
pauroso, quanto originale incidente stradale. La curiosità attirò rapidamente
una gigantesca folla fra Via “Appia” e Via “La Spezia”, teatro
dell’avvenimento.
Gli occhi prostrati della
filippina puntavano, senza equivoci, Maria Pia, per una richiesta che mai
avrebbe potuto immaginare, stravolta com’era per il botto annunciato. Anzi,
temette il peggio durante il tragicomico zigzagare; provò un vero spavento. La
filippina, insistendo, disse con una voce implorante al suo sconosciuto
interlocutore: ”Rotto acqua”.
“Cosa ha detto, prego?” rispose
sorpresa la ragazza curvandosi verso di lei. “Rotto acqua” pronunciò
sillabando.
“Oddio! Sta per partorire!”
realizzò Pia, che solo allora scoprì la rotondità del suo ventre.
“Presto, presto!! – si sgolò
incredula Pia – “Questa donna sta partorendo presto! Qualcuno chiami
un’ambulanza! Su, presto!!!.”
Il conducente, che continuava a
starnutire, dialogava animatamente con lo sventurato automobilista, quando
tutti i passeggeri erano ormai in strada, mescolati fra i curiosi; alcuni
avevano bisogno di cure mediche; gli altri, quelli favoriti dalla sorte,
confrontavano le rispettive impressioni formulando mirabolanti spiegazioni. Gli
echi delle sirene segnalavano intanto l’imminente arrivo degli auspicati aiuti.
Sul mezzo pubblico rimase solo il contadino, che ancora non era riuscito, in
quel territorio a lui inadatto, a catturare l’animale, ma nessuno più badò a
lui.
Subito gli infermieri soccorsero
la filippina, mentre i vigili chiesero lumi sullo svolgimento dell’incidente
all’autista dell’ATAC, al quale gli iniziarono a lacrimare copiosamente gli
occhi, per la violenta irritazione. Quatto quatto, il contadino, avendo risolto
il contenzioso con il pollo, s’allontanò indisturbato...
Il numero dimenticato (di Maurizio Santopietro)
Nei pressi di Settebagni l’acre esalazione delle
fabbriche, annunciava l’imminente arrivo a “Roma Termini”, inconfondibile
segnale del ritorno a casa, dove mancavo dal fatidico primo ottobre. Ero
emozionato, ma non lo davo a vedere. I miei mi aspettavano per il giorno dopo,
il 22 dicembre.
Il treno, per quanto avesse rallentato, superava in
velocità tutte le macchine che transitavano lungo la parallela Salaria. Dal
finestrino partecipavo a tutti gli altri sorpassi, mentre i miei compagni già
si preparavano a raccogliere la loro roba per portarsi all’uscita. Non mi
attardai di molto a raggiungerli. Don Marzio smise la lettura del breviario.
“Aspettatemi ragazzi, apro io il portellone, mi raccomando: non apritelo! ” ci
disse ammonendoci con tono un po’ preoccupato, abbottonandosi il paltò e
aggiustandosi in testa il cappellone nero.
Nella stazione l’assordante rumore metallico dei treni,
mescolato agli incomprensibili annunci ferroviari e al frenetico andar vieni
dei passeggeri, come di formichine operose, rimbombavano in un’unica, ordinaria
confusione. L’aria lì, doveva essere viziata. Fuori, ci apparve una piazza addobbata
a festa. La giornata era molto fredda, sembrava voler nevicare, ma forse era
più un desiderio che non una credibile previsione atmosferica. Un vento
pungente intanto disperdeva l’inconfondibile aroma di castagne arrosto: olezzo
che avrebbe saturato indelebili ricordi natalizi. Le sferzate secche della
brezza capitolina ghiacciavano il naso e paralizzavano le mani, pur riparate
dalle tasche del giubbotto, ma sul collinoso paesino umbro le raffiche
spingevano più violentemente.
Don Marzio, un prete vigoroso, dall’eterno e spontaneo
sorriso e dai dolci occhietti neri, era assiduamente invasato da un
inesauribile spirito altruistico, ci radunò attorno a sé sul piazzale
antistante alla stazione per illustrarci il programma, magro ma allettante:
“Ora andiamo allo zoo; venite dietro a me, prendiamo gli autobus. Mi raccomando
ragazzi, ché non siamo a Monterubiaglio! Pranzo al sacco all’una e mezza circa.
Quelli di Roma, dopo la gita possono andare a casa”.
A quelle parole trasalii. Passava nel frattempo il “7”, il
tram, che collegava “Piazza Zama” a “Piazza Indipendenza” (mi avrebbe portato a
casa qualche anno dopo). Quella linea ferrata ora non c’è più da quasi un
trentennio.
Don Marzio, anche in quell’occasione indossava, sotto il
cappotto, una tunica consunta, il colletto - sbiadito - era in compenso pulito.
Il colore del suo abito talare era per me più chiaro delle vesti chiare delle
suore, con le quali trascorsi un anno infelice. L’abito non fa il monaco: non
si vede immediatamente, ma s’intuisce distintamente attraverso l’uso di altri
sensi: a volte non c’è bisogno di occhi per vedere...
Erano le dieci e mezza del ventidue dicembre. Io avevo
otto anni e mezzo.
La vista degli animali nelle gabbie, cesellò tristezza nel
bianco animo di bambino. Rimuginai più volte attorno alla loro condizione e,
sotto certi aspetti, anch’io mi sentivo distante dal mio habitat naturale.
Vagammo per Villa Borghese (non c’ero mai stato prima di
allora) e trovammo tempo per mandar giù una buona pastarella. Un gustoso fuori
programma. Partendo dallo zoo, non avrei saputo come fare per andare a casa da
solo: lì ero fuori zona. Così il prete buono dall’eterno sorriso e dalla tunica
consunta e dal colletto sbiadito ma pulito, mi affidò ad un ragazzo di sedici
anni.
“Conosco a fondo il quartiere dove abiti” mi disse per
rassicurarmi.
Io risposi annuendo
con il capo, provando per lui schietta fiducia.
Allungò allora la mano sinistra per sgravarmi dal peso
della piccola borsa, che io tenevo a malavoglia. Salutai energicamente il gruppo
di compagni e Don Marzio, che mi pregò di serbare gli auguri per i miei
genitori.
Avanzavano intanto le ombre
crepuscolari, sebbene le giornate incominciassero ad allungarsi, mentre il
freddo si faceva sempre più intenso. Lungo i marciapiedi, adiacenti ai bar, si
elevavano torri di panettoni e pandori (a prezzi esorbitanti), che emanavano
una miscela fragrante di dolciumi, irrefrenabile stimolo per risvegliare
cascate d’acquolina in bocca. Io adoravo il sapore e l’odore del pandoro,
perché non aveva i canditi. A volte gli occhi, senza volontà, si posavano sulle
sorridenti facce dei cartelloni pubblicitari, che contrastavano con quelle più
grinzose dei passanti, assillati dai regali da acquistare. L’apparizione di due
zampognari, preceduta dal suono delle cornamuse, conferì a quel clima natalizio
un alone fatato, cui mancava soltanto soffici coriandoli di neve, per essere
una vera favola da narrare. Avrei voluto ricompensarli, i suonatori di
zampogna, ma non avevo un soldo, così li contraccambiai ammiccando al loro
passaggio. E fu allora che notai i riverberi delle luci intermittenti fendere
il tessuto scuro del tardo pomeriggio. A “Piazzale Flaminio”, io e il mio
occasionale tutore aspettammo il primo mezzo utile per “Piazza Venezia”. Spuntò
il “Novanta” dopo un’attesa infinita. Non stavo nella pelle. Tra me e il mio
giovane custode non ci fu bisogno di troppe parole. Scesi dal “64” (era a due
piani), la voglia di tornare a casa ci motivò a correre a perdifiato fino
all’altro capolinea (“Largo dei Fiorentini”), dove riuscimmo a salire sul “98
crociato”, terzo ed ultimo mezzo pubblico. La fretta di arrivare, in questo
caso, si rivelò buona consigliera: prendemmo l’autobus a motore ruggente, senza
avere il fiatone né le cosce di pietra come quando non si è allenati allo
sforzo. “E ora a casa!” esclamai beato fra me. Ci spostammo avanti alla ricerca
d’improbabili posti a sedere. Il traffico rallentò l’attraversamento di “Ponte
Garibaldi”, ma percorse la salita dell’illuminatissima “Via Gregorio VII” con
meno insidie del previsto.
Stonava, rispetto a
quell’atmosfera festosa, il buio delle acque del Tevere, che rifletteva
fiaccamente il debole lume dei radi lampioni accesi. Dopo le prime fermate, il
“98 crociato” si affollò di passeggeri che, come di consueto in quel periodo,
si moltiplicavano per scissione diretta! Ravvisai facce stanche, tuttavia
avevano l’espressione rasserenata (forse di chi già sta pregustando le delizie
del Natale). A molti di loro occorrevano due mani in più per tenere a bada le
borse piene di compere. A dire il vero io non pensavo ai regali; mi erano
indifferenti, ciò che m’importava era stare nel bel mezzo dell’affetto
familiare, ma avevo anche un nostalgico desiderio dei succulenti primi piatti
napoletani di mia madre, che li cucinava davvero come nessuno.
Lasciata alle spalle la salita,
l’autobus s’inoltrò per una stradina stretta, totalmente nera (non si riusciva
a scorgere che le sagome delle macchine con i fari accesi). Sembrava una via
extraurbana. I lampioni fecero la loro comparsa dopo un breve tragitto,
rischiarando il caseggiato. Scendemmo finalmente in “Via Bravetta”. L’orologio
del giovane amico segnava un’ora imprecisa per me, allorché mi chiese il numero
civico cui doveva accompagnarmi. Esitai a lungo non sapendo cosa rispondere,
cosicché il mio silenzio fu sin troppo eloquente. Ebbi paura. Non sapevo il
numero di casa mia! Per un attimo mi balenò l’idea del possibile ritorno in
collegio. Iniziarono a colarmi rivoli di lacrime.
Il giovane comprendendo la mia
immobile inquietudine, mi rassicurò per la seconda volta.
“Non ti preoccupare! Io conosco
bene la zona. Descrivimi com’è fatto il palazzo; ricordarti altri particolari,
che così guadagniamo tempo. Vedrai, fra poco starai a casa...”, mi disse il mio
tutore, in modo affabile, chiamandomi per nome e mettendomi la mano sulla
spalla. Mi aggrappai allora, a quelle parole di speranza.
L’oscurità profonda di quell’ora
inghiottì gli abituali riferimenti spaziali: non riuscivo a vedere neppure il
campo vicino alla marana (dove giocavamo a pallone), che si trovava giusto di
fronte casa, di là della strada. Percorremmo a piedi quattro, cinque volte la
via, fino ad arrivare a “Casetta Mattei”, fermandoci davanti a tutti i palazzi
che incontravamo e leggendo i cognomi sui citofoni, laddove c’erano.
E ogni volta il ragazzo mi faceva
la solita sfilza di domande: “Abiti qui?” “Sei sicuro che non sia questa?” “E’
forse quest’altra?”.
Io mi sentivo dentro una gabbia
invisibile, senza più vie di uscita.
Sembrava fosse notte inoltrata,
per quanto attorno era nero pesto. Del Natale, lì pareva non esistesse traccia:
nessuna luce lampeggiava; né si udivano rumori. E non c’era nemmeno l’odore di
castagne arrosto! Dubitai davvero. Forse che la festa arriva solo al centro,
inondato com’è di scintillanti luci a tutte le ore?
L’inutile, frustrante ricerca
logorava la nostra pur ferrea volontà; ci fiaccava le gambe, e incrementava il
senso di fatica scavando sconforto, instillando il pensiero della sconfitta.
“Per questa sera ti porto a casa
mia, domani mattina rimedierò portandoti dai tuoi”, disse il ragazzo ormai
disilluso.
Eravamo sfiniti e scoraggiati
quando, ritornando indietro per l’ennesima volta, intravidi un bagliore, un
bagliore irradiato da un angelo privo di ali e senza aureola. Esterrefatto,
rivolsi lo sguardo su Alberto, ormai divenuto mio fido compagno di sventura,
per trovare conferma, ma i suoi occhi puntavano altrove. Così, di scatto, mi
voltai ancora l’ultima abitazione, il cui contorno aveva un’aria familiare.
“Babbo! Babbo!” urlai a
squarciagola, e irruppi in un fragoroso, gioioso pianto liberatorio, mentre mio
padre, con la testa china, stava salendo gli scalini d’ingresso al portone
della palazzina dal numero civico 474...
Con profondo fremito attendevamo,
sin dal mattino, l’inizio di una trasmissione radiofonica “Tutto il calcio
minuto per minuto”, i miei numerosi fratelli ed io. Le nostre sorelle ci
sfottevano, ci schernivano, ci punzecchiavano con le offese più ridicole per il
solo fatto d’essere tifosi, ma c’invidiavano. Maria ed Ersilia, in ordine
decrescente d’età, invidiavano l’ansia domenicale che tenevamo per il Napoli,
che consolidava ancora di più la nostra complicità. Le donne, compresa nostra
madre, pulivano casa più a fondo, la domenica mattina. Le canzoni della radio,
a tutto volume, rendevano loro le faccende meno noiose. Poi, di pomeriggio, il
possesso esclusivo della radio passava nelle nostre mani.
Io, il più piccolo, non subivo
molte critiche, perché a scuola promettevo bene e perché ero, l’unico della
famiglia - in quel periodo - a stare in collegio. L’attesa, dicevo, si riempiva
di una tensione del tutto peculiare, fra desiderio e paura: due facce di una
stessa medaglia. Da una parte, ribollivamo per il desiderio di sentire, dalla
viva voce di Enrico Ameri, che il Napoli fosse in vantaggio; dall’altra, la
paura di avere a che fare con una realtà avversa, per quanto prevedibile.
Anticipavamo la rubrica sportiva
imitando la rinomata, rauca, voce di Sandro Ciotti: “Scusa Ameri, scusa
Ameri...: Napoli in vantaggio...”. Lo era sempre, almeno per gioco. Il migliore
imitatore era Massimo. Era un vero e proprio rituale propiziatorio!
Quella domenica Massimo, Ottavio
ed io, decidemmo di andare a giocare a pallone e “soffrire” a Villa Pamphili.
Il cielo, annuvolato, non ci scoraggiò; il clima era ideale per disputare una
bella partita.
Ce la facemmo a piedi da casa
(Via Bravetta) correndo a turno dietro al pallone fino alla Villa, distante
alcuni chilometri. Eravamo i padroni della strada. Era il nostro infinito campo
di calcio, la strada.
Ogni tanto i doppioni delle
figurine, scivolavano dalla tasca del pantaloncino e mi obbligavano ad
interrompere la corsa, a far attendere i miei due fratelli, che non
protestarono più di tanto. Superammo il “Buon Pastore”; arrivammo al cinema
“Ara Pacis” senza affanno, senza rendercene conto. Solo il pallone di cuoio ci
precedeva, sempre.
(Di fronte alla sala
parrocchiale, c’era il “Bar Gagliardi”: lì ci lavoravano altri tre dei miei
fratelli: Gennaro, che preferiva farsi chiamare Rino, tifoso moderato; Armando,
tifoso esagitato, e Ugo, che era un po’ Armando e un po’ Rino). Evitammo di
salutarli per non arrivare tardi all’”appuntamento”. Puntammo diritti verso il
“campo”, la Villa. Non portammo la radio nonostante il consolidato diritto di
possesso, infatti, eravamo sicuri di trovarne a decine, e già in funzione. In
quegli anni, la diretta iniziava con i “Secondi Tempi”: la suspence si faceva
ancora più densa.
(I calciatori portavano le divise
con i colori sociali tradizionali, ed erano prive di cognome stampato sulle
spalle (i giocatori di quel periodo si riconoscevano da dietro anche
senza nome). I numeri, prima, suggerivano un preciso ruolo; le maglie non
avevano il nome dello sponsor; prima, la casacca identificava una specifica
squadra... E le partite si giocavano la domenica, al medesimo orario. Oggi il
calcio è frammentato, sfigurato, smembrato, eccessivamente somigliante alla
società contemporanea.
Il pallone adesso rotolava oltre
il bivio di “Via della Pisana”. All’angolo si ergeva un’edicola tutta verde
accanto ad un piccolo “Caffè” frequentato da nostro padre: ci passava il tempo
libero giocando a carte, a condizione che non vi fossero ospiti a casa, con i
quali giocarci.
Così arrivò il mio turno a
lanciare la palla a Massimo, che scattò come una saetta, uno sprint degno di
una vera “ala pura”. Io e i miei fratelli lo sfottevamo chiamandolo “Cavallo
Pazzo”. Era bravo, correva come un forsennato, ma dribblava troppo, non passava
mai la palla. Calciava di sinistro, come Gigi Riva.
Ora era la volta di Ottavio a
sganciarsi. Raggiunse la palla e poi fu lui a lanciarmela in modo impreciso: un
classico! (sfoggiava caparbietà agonistica, ma anche “piedi duri”, poca
tecnica). Dal canto mio feci il solito scatto. Sembrava che io fossi dotato di
talento naturale. Ero timidamente orgoglioso, perché giocavo con i più grandi
e, in collegio, ero sempre tra i primi ad essere scelto. Desideravo, come tutti
gli scugnizzi partenopei, di giocare con il Napoli (figuriamoci, anche gratis).
Quando toccavo la palla a
centrocampo, diventavo Juliano; quando mi capitava di fare il portiere, emulavo
Dino Zoff: paravo tuffandomi proprio come lui, con la stessa “serietà”.
Giungemmo finalmente alla Villa,
litigando per chi avrebbe dovuto portare il pallone con le mani, finché non
avremmo trovato un posto adatto per giocarci. Entrando, ci guardammo attorno.
Non c’era l’atteso pienone. Solo i fedelissimi del pic-nic pasquale sfidarono
la minacciosa, ostinata presenza delle nuvole; tutti però avevano una radiolina
accesa. Mi sfugge chi di noi raccolse la sfera.
Dopo un’attenta perlustrazione,
occupammo un’area abbastanza estesa per giocarci, poi ci accostammo ad un
piccolo gruppo di persone che erano nei paraggi. Era disposto curiosamente a
cerchio mentre la radio, come una sorta di totem, stava lì, al centro.
Giungemmo in perfetta coincidenza con la sigla d’apertura. “La Stock di Trieste
v’invita all’ascolto di: Tutto il calcio minuto per minuto”... Chiedemmo alla
comitiva di farvi parte. Noi tre trasmettevamo una certa sofferenza o meglio,
una condizione d’apprensione mista ad una sottile sfumatura di piacere. Una
sensazione sadomasochista. Finalmente l’inconfondibile timbro di voce di Enrico
Ameri annunciava dal campo principale il risultato del primo tempo: a S. Siro,
Inter zero e Napoli uno. Gol di Altafini su respinta di Bordon al minuto...”,
pronunciò distintamente la voce del radiocronista. Non trattenemmo la gioia di
esultare, sebbene la parte più autentica di quell’effimera, profonda euforia
rimase inespressa sotto la nostra pelle. Soddisfatti, ci apprestammo a dare i
primi calci, incominciando a “passaggi”. Contagiammo gli occasionali
spettatori; così potemmo formare due squadre di quattro giocatori. Ci muovemmo
con destrezza; riuscivamo ad eseguire le giocate più raffinate. Giocavamo
tendendo entrambe le orecchie alla radiolina. Ad un tratto irruppe con tono
concitato Enrico Ameri, e all’istante fermammo la nostra partita. “Rigore,
rigore a favore dell’Inter..., rigore molto contestato dai giocatori
napoletani.... Zoff, di solito molto composto, si lascia andare a un
atteggiamento di stizza...”, annunciava nervosamente Ameri. Inutile dire che
io, Massimo e Ottavio pregammo in religioso silenzio che lo sbagliassero quel
rgore!. Ma non fu così, purtroppo. Ci assalì un fastidioso scoramento per la
beffa e il danno ricevuto. I miei fratelli continuavano ad inveire contro
Gonnella, il signor arbitro che decretò l’ingiusto rigore. Entrambi formularono
supposizioni geopolitiche. Ed io sentivo di appartenere ad una squadra
discriminata, sebbene la natura di tifoso conosca solo il “principio del
piacere”. Noi eravamo tifosi, e anche accaniti.
Gli effetti si manifestarono nel
nostro rendimento: Massimo e Ottavio giocarono “distrattamente”, controvoglia.
Vivevano l’aria di “S. Siro”, dove si era consumato l’iniquo pareggio. Ma
potevamo contare ancora su tre gol di vantaggio. Profusi la tanta rabbia nel
gioco, trasformandola in intenso sfogo agonistico. I nostri avversari accorciarono
le distanze, avendo noi scelleratamente consentito di farci due reti. I nostri
avversari si erano ormai rianimati. Centrammo quindi la palla. Ottavio scagliò
il pallone sulla linea di destra, io la fermai con uno stop a seguire e attesi
che il difensore venisse contro; con il busto mi spostai verso la mia sinistra
mentre feci schizzare la palla al lato opposto. Superato l’avversario,
prolungai freneticamente la corsa sulla (immaginaria) linea laterale; alzai la
testa, per verificare la posizione dei miei compagni e quindi crossai verso
Massimo, che attendeva il pallone sul secondo palo. La sfera, tesa, colpita
violentemente al volo con un tiro mancino, si stampò sul secondo palo (in
realtà un tronco d’albero). La palla rimbalzò quindi sul mio piede: un tocco
“morbido” da sotto tratteggiò un preciso pallonetto. “Gol!!”, esclamai con un
pizzico di rabbia. Per ascoltare nuovamente la radio, sospendemmo il gioco.
Noi tre speravamo sempre che la
squadra ripassasse in vantaggio; Juliano e compagni avevano soverchiato gli
avversari in lungo e in largo tutto il “Primo Tempo”, non raccogliendo in modo
proporzionato alle energie profuse, i frutti sperati, da noi profondamente
desiderati. La squadra aveva “speso” troppo, inutilmente. Non arrivando al gol,
temevamo allora di incassarlo (per la dura regola del “gol fallito gol
subito”). Stavolta l’ansia esprimeva la paura di perdere. La coinvolgente
radiocronaca di Ameri non ci dette scampo. Era Boninsegna la causa della nostra
abissale frustrazione. Il centravanti, con un’audace quanto folle incornata,
rischiando di prendere in pieno volto una “pedata” da Panzanato, realizzò la
rete. Sulle nostre facce calò una fitta, densa e nera desolazione. Ci sentimmo
defraudati per l’ennesima volta. Il gruppo che ci ospitò comprese per intero la
nostra amarezza e ci confortò rilevando la maligna interferenza arbitrale, ma
ciò non alleggerì il malumore. Tornammo mestamente a giocare la seconda parte
della partita, anche se io avrei voluto lasciare per vedere in televisione “Novantesimo
minuto”, rubrica sportiva condotta dall’indimenticabile Maurizio Barendson (e
poi da Paolo Valenti). Aderivo, in linea di massima, al ragionamento
vittimistico dei miei fratelli, però mi riservavo di verificare, alla moviola,
la decisione arbitrale. Lo sconforto sarebbe stato quasi drammatico se fossi
rimasto lì, in collegio, nel campo vuoto...
Maurizio Santopietro