Sostituite il nome del paese, in questo caso Olbia, e le stesse considerazioni saranno valide per il 90% del territorio italiano.
Gli
hanno dato molti nomi: ciclone, Cleopatra, uragano, bomba d'acqua. La mia terra
gli ha dato un tributo di vite umane. Il presidente della regione Ugo
Cappellacci, pronto ad aggiornare l'elenco di piaghe descritte nel Libro
dell'Esodo, gli ha dato la definizione di "piena millenaria". La
tempesta che ha rovesciato sui suoli sardi sei mesi d'acqua in appena mezza
giornata ha saputo guadagnarsi così il primo posto nella borsa mediatica delle
catastrofi, in Italia e nel mondo, prima di essere inevitabilmente sostituita
da altre notizie.
I
lutti e i danni, tuttavia, non sono tutti dovuti al meteo cinico e baro. Questa
devastazione deriva da un equivoco di fondo che la Sardegna di oggi e l'Italia
sin dai tempi del Vajont si portano dietro: avere un suolo prevalentemente
montagnoso e collinare, ma percepirsi come un paese di pianura, dove la pianura
ha dimenticato per sempre tutta quella inutile materia fangosa e
"prevalente" che sta a monte.
È
uno spazio addomesticato, quella pianura ideale, segnato da linee d'asfalto,
case, scantinati, capannoni, e mille altri segni di "sviluppo" che la
separano dal passato rurale e la proiettano in un mondo magico e progressivo
che fa a meno della geologia.
Olbia
alla fine della seconda guerra mondiale era un borgo di diecimila abitanti,
oggi ne ha sei volte di più. E dove ha fatto il nido tutta questa gente nuova?
Lo ha fatto là dove volevano gli speculatori e dove la portava la corrente
dell'abusivismo: dove un tempo c'erano stagni e dove scorrevano magri torrenti.
Le
"piene millenarie", proprio perché hanno memorie lunghissime,
ricordano ogni tanto che dove il fiume è già passato tanti anni fa, prima o poi
ci ripassa ancora. In autunno in Sardegna e in altre regioni non sono
infrequenti i flash flood. Non possono essere considerati eventi sorprendenti.
Solo
che un tempo il torrente gonfiato dalle tempeste autunnali aveva modo di
diluirsi in un suolo intatto, o di sfogarsi in canali costruiti a regola
d'arte, senza alvei intombinati che lo accelerassero, né ponti che diventassero
dighe prima di cedergli il passo.
Olbia
è crescuta in fretta, è un piccolo emblema dell'ideologia della crescita libera
che ripudia qualsiasi pianificazione. Il PIL veniva prima di tutto, e perciò si
doveva dimenticare che una vera città, prima di tante altre cose, è un sistema
idraulico artificiale che si sovrappone a un sistema idraulico naturale. Olbia
però andava oltre. Non si sovrapponeva alla natura, la sostituiva senza
criterio. L'onda del PIL era un flutto di cemento che impermealizzava ettari ed
ettari, al galoppo. Poi, ieri, fine corsa. All'acqua della città, incanalata
senza regola e non più assorbita, si è aggiunta l'acqua della montagna, e tutto
è stato devastato.
Ora
la cronaca ha il suo momento di frastuono, di pianti, di governanti che
snocciolano compunti i milioni stanziati per l'emergenza: Enrico Letta 20
milioni, Ugo Cappellacci 5 milioni. Dev'essere lo stesso Cappellacci che ha
guidato un'amministrazione che ha revocato 1,5 milioni di euro destinati alla
difesa del suolo e contro il dissesto idrogeologico. Certo, quei milioni non
sarebbero bastati, nemmeno a Olbia, interessata negli ultimi decenni anni da 17
(diciassette) "piani di risanamento". Cioè: prima si lasciava fare,
senza permessi, poi si condonava, si "risanava", senza nemmeno
completare fogne, argini. Niente di niente. Erano bolli e timbri aggiunti ai
fatti compiuti: fatti irrimediabili, ferite non sanabili se non abbattendo
tutto. Ma come fai ad abbattere interi quartieri? Risanare, ma per davvero,
costa molte volte di più del gesto iniziale, mai fermato, che cambiava natura a
quel pezzo di territorio.
Facile
strapparsi i capelli adesso. I nomi dei quartieri olbiesi sommersi di oggi
c'erano già tutti in un articolo del 2010. Era un trafiletto di cronaca locale
sul "rischio alluvione". La prevenzione non fa notizia, non porta
voti, non mobilita risorse, non diventa la pagina d'apertura di Repubblica. È
solo un misero fondino di un giornale locale che non rompe il silenzio. La
gente non sa, e crede perciò di stare nel suo Belpaese di pianura, senza
pericoli, senza colline, e senza verità sul clima.
Negli
anni in cui la Regione Sardegna fu guidata da Soru (2004-2009) venne approvato
un piano paesaggistico fra i più avanzati al mondo, molto chiaro nel
considerare il paesaggio un bene pubblico non negoziabile. Dopo, a livello
nazionale e regionale, vi è stata una pressione costante per una nuova
liberalizzazione edilizia e per abrogare le regole restrittive, in nome dello
sviluppo e della crescita, e al diavolo i geologi.
Proprio
un geologo, Fausto Pani, sul sito sardiniapost.it, in veste di autore del PAI
(Piano stralcio per l'assetto idrogeologico) e del Piano delle fasce fluviali,
si toglie oggi qualche detrito dalla scarpa: «solo pochi giorni fa i sindaci
interpellati dicevano che nei loro paesi non pioveva così tanto, che il Piano
stralcio delle fasce fluviali era tutto sbagliato e bloccava lo sviluppo dei
Comuni. Oggi chiederei a quegli stessi amministratori locali se la pensano
ancora allo stesso modo».
Infatti
il problema non è solo Olbia. Uno dei comuni più colpiti dall'alluvione è
Terralba, nell'oristanese. Ho visto in TV il sindaco di centrosinistra Pietro
Paolo Piras con la faccia tesa del tipico sindaco in lotta sincera con il
disastro, circondato da uomini della protezione civile. Poche settimane fa
proprio Piras partecipava a una manifestazione a Cagliari contro il Piano per
le fasce fluviali. Lo considerava troppo rigido. Persino le norme di una giunta
post-Soru, teoricamente più morbida con chi vuole sviluppo edilizio, non
andavano bene a una parte della gente di Terralba. Lo scorso 15 giugno un
comitato locale aveva impiccato decine di fantocci per opporsi «con fermezza al
piano delle fasce fluviali previsto dalla Regione e ai vincoli idrogeologici
che limitano lo sviluppo del territorio.»
Uno
dei promotori spiegava: «Devono fare una scelta politica, con questi vincoli ci
stanno condannando a morte. Tutte le attività rischiano di scomparire e non ci
sarà uno sviluppo futuro per il nostro paese». Alle magnifiche sorti e
progressive di Terralba ha però bussato il Rio Mogoro, un torrentello spesso
asciutto che per un giorno è diventato l'Orinoco.
Gli
impiccatori di fantocci hanno maneggiato in modo molto imprudente i simboli.
Parafrasando una vecchia storia, l'ultimo sviluppista è disposto a vendere la
corda con la quale verrà impiccato.
Adesso
la ricostruzione, nel far girare denaro, farà bene al PIL. È forse cinico
dirlo, ma dopo le catastrofi naturali, questo succede in molti casi. E, nel
crescere, il PIL dimostrerà ancora una volta di non essere la misura corretta
del vero benessere.
Quel
pezzo di società civile che rimuove in modo dissennato e cocciuto la vera
natura del nostro suolo, quelle classi dirigenti la cui mentalità è intimamente
modellata dalla stessa concezione del territorio, si trovano davanti a una
scelta. La scelta non è "costruire oppure no": è semmai cosa
costruire senza consumare ancora di più il suolo, cosa costruire per
salvaguardarlo nella sua integrità, fare manutenzione costante e piccoli
interventi sulle infrastrutture che già ci sono, e finirla con le grandi opere
e le eterne emergenze. Finirla con il fantoccio della crescita infinita. Magari
così ci sarà più lavoro, e meno senno del poi.
Pino
Cabras
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