Era
il 1984 e un rampante Presidente del Consiglio, Bettino Craxi (e sì! I giovani
rampanti non sono una novità di oggi), sulla scia del Tatcherismo inglese e
dell’edonismo reaganiano, individua nel costo del lavoro e segnatamente nella
scala mobile l’origine di tutti i mali italiani e con proditorio colpo di mano
ne cancella una buona fetta. Ricordiamo, per i più giovani, che la scala mobile
era uno strumento economico di politica dei salari, volto ad indicizzare
automaticamente i salari all'inflazione e all'aumento del costo della vita
secondo un indice dei prezzi al consumo che fu negoziata nel 1975 dal
segretario della CGIL Luciano Lama assieme agli altri sindacati e a
Confindustria, atto a recuperare il potere d'acquisto perso dal salario a causa
dell'inflazione. In parole povere difendeva i salari dei lavoratori adeguando
gli stessi automaticamente al costo della vita.
Il
Partito Comunista, segnatamente, nella figura del segretario Enrico
Berlinguer, e la stessa CGIL promossero un referendum abrogativo della legge.
Ovviamente
gli italiani (ricordiamo che allora la percentuale di lavoratori dipendenti,
era molto più alta dell’attuale) seguirono in maggioranza i pifferai magici che
pronosticavano in caso di vittoria del si all’abrogazione chissà quali scenari
da incubo.
Sulla
scia di questa vittoria (risicata) parti l’offensiva neoliberista al costo del
lavoro (o meglio al costo del lavoratore). Il governo tecnico Amato nel 1992
abrogò la restante quota che era rimasta della scala mobile, ricordiamo che nel
frattempo era morto Berlinguer, si era sciolto il PCI dopo la caduta del muro
di Berlino, dando vita al PDS partito più moderno (!) e adeguato ai tempi, e lo
stesso sindacato si apprestava a inaugurare la stagione della concertazione nel
1993 che, nei fatti si tramutò in una progressiva ma inesorabile perdita di
diritti e rappresentatività dei lavoratori.
L’offensiva
era, comunque ancora agli inizi, lungi dal confrontarsi seriamente con i reali
motivi della crisi italiana (disuguaglianza sociale, corruzione, evasione
fiscale classe politica e imprenditoriale di rapina pronta a scaricare sulla
collettività le sue inefficienze e ruberie), l’obiettivo lavoro e lavoratore
rimane l’alibi e il bersaglio principale per continuare nell’opera di “modernizzazione”.
Arrivano
le leggi sul precariato che introducono forme di sfruttamento del lavoro
giovanile a tutto vantaggio dell’impresa (a tutt’oggi abbiamo ancora migliaia
di precari di 50 e più anni), partono i processi di privatizzazione e
liberalizzazione di interi comparti di servizi pubblici con relative ricadute
su occupazione, qualità, investimenti.
Arriva
anche l’accellerata sul processo di unione europea che, sospinta da questo
vento liberista, si trasforma rapidamente da grande utopia d’unità tra i popoli
a freddo calcolatore di interessi e strumento punitivo e coercitivo di diritti
e libertà, ovviamente soprattutto dei lavoratori.
Non
voglio addentrarmi nei minimi particolari di questo processo che va avanti
ormai da oltre 20 anni e che sembra non trovare ostacoli, in cui i diritti sono
sempre troppi, dove il lavoro e il lavoratore sono visti non come un strumento
necessario e utile allo sviluppo individuale e sociale, ma come un freno e un
intollerabile limite al “legittimo profitto” di imprese, lobby e banche. Si
demonizzano le idee e proposte che, in qualche misura, possano far pensare a
rigurgiti di natura socialista o (orrore) addirittura marxista.
L’essere
umano lavoratore, l’unico, forse, insieme all’ intellettuale che contribuisca
fattivamente al progresso con la propria manualità o col proprio ingegno è
sottomesso e vessato da poteri (politico e/o finanziario) che non avrebbero
motivo d’esistere se non ci fosse quella parte produttiva della società.
Questa
rapida analisi aveva un fine molto semplice e di facile lettura, dimostrare
che, fatti e dati alla mano non era la scala mobile, non era il costo del
lavoro, non era e non è l’esistenza di una rete di servizi pubblici ala base delle
innumerevoli crisi della società, in questo caso italiana.
Alla
base c’è sempre la smania di potere, la corruzione, l’ingiustizia sociale, il
voler assicurare fette di profitto sempre più alte per sé e per i propri
interessi, follie ideologiche di dominio globale d’origine massone e/o
fasciste. Insomma in una sola parola “IL CAPITALISMO” (soprattutto nella sua
ultima versione iper-liberista), questo è il vero e unico colpevole della
miseria, del mancato sviluppo, della mancata giustizia sociale, della finta
democrazia, della corruzione e di uno sviluppo cieco e irresponsabile.
Ogni
tanto, magari, ricordiamocelo quando per essere in linea e accettati elaboriamo
dotte e fumose teorie pur di non chiamare le cose col loro nome di battesimo.
Ad
maiora.
MIZIO
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