lunedì 25 gennaio 2021

NE USCIREMO. SI, MA COME?

Ne usciremo. Certo che ne usciremo. Nessuna pandemia è per sempre. Invece una delle poche cose che sembrano per sempre è il cinico, insensibile, crudele modo con cui il potere, in particolare quello di ultima generazione vede il suo (e nostro) futuro. Sempre maggiore potere e centralità per il suo, sempre più precario e insicuro quello della stragrande maggioranza. “E' finito il tempo in cui si andava a scuola, all'università e poi si lavorava. Adesso per tutta la vita dobbiamo adattarci, cambiare ed essere pronti. Il sistema deve aiutare tutto questo.” Queste le parole di Enrico Letta. Non uno qualunque. Un ex presidente del consiglio. Un rappresentante di quel “progressismo” e di quell'europeismo tanto osannato e tanto supportato in nome della sempre meno valida e sufficiente motivazione di un frontismo antidestra e antisovranista.. Una dichiarazione non sorprendente, non casuale e neanche originale. Visto che fa seguito alle parole profetiche di D'Alema (si proprio lui) del lontano 1999, con cui annunciava la fine del posto fisso e apriva la strada alla tragica logica del precariato. Obiettivo da sempre caro alla destra, e applicato, però praticamente, soprattutto, dalla cosiddetta “sinistra” progressista. Nel mezzo decenni di continui attacchi al lavoro e ai lavoratori. Continue forme di precariato sempre più odioso e penalizzante. Fino ad arrivare alla riforma delle riforme in materia, del Job's act renziano che, di fatto seppellisce lo statuto dei lavoratori e i suoi diritti. Quindi nessuna sorpresa se un rappresentante di quel mondo ribadisca addirittura pubblicamente, non so se con compiacimento, o più semplicemente con l'asettica analisi del docente universitario, ponendolo come dato di fatto obbligato e irreversibile. A questo segue (temporalmente ma non casualmente) la nostra cara vecchia Unione Europea che, nella crisi pandemica sembrava aver recuperato una sua funzione e una dimensione più giusta e umana, che detta le condizioni per l'accesso ai fondi del Recovery fund. Condizioni che, se è vero riguardino tutti i paesi europei, sembrano però scritte con un occhio alla situazione del paese con le maggiori criticità, l'Italia, appunto. Condizioni che smentiscono clamorosamente il “senza condizioni” di cui ci si era beati incoscienti e convinti fino a ieri. Riallacciandoci, però, all'incipit iniziale, rimane solo da stabilire se certe considerazioni di alcuni personaggi e di alcune forze politiche siano figlie di un realismo ormai rassegnato o di un disegno strategico sposato e portato avanti con convinzione. In entrambi i casi sembra chiaro che ci sia l'abbandono, ormai irreversibile, di qualsiasi progetto alternativo di rapporti sociali. Quando sentiamo un rappresentante della sinistra cosiddetta radicale, come Fratoianni, che di un'alleanza raccogliticcia, con forze estremamente diverse fra loro che si trovano a governare insieme, ne auspica addirittura una sua progettualità futura e stabile, il tutto diventa improvvisamente chiaro e, allo stesso tempo, incomprensibile. La logica del continuo scegliere il meno peggio, come già qualcuno dichiarava tempo fa, porta inevitabilmente a far trionfare il peggio e se ne diventa anche inconsapevolmente complici. E, alla luce di questa situazione ancor più incomprensibile appare l'ostinata, penalizzante, stupida frammentazione delle residue forze ed energie di sinistra che, da troppo tempo, hanno rinunciato masochisticamente ad avere un ruolo e una funzione propositiva e significativa, se non in ottica promozionale e autogratificante limitata all'interno della propria ristretta cerchia. Appare chiaro che con la caduta del muro di Berlino, la fine dell'Unione Sovietica, l mondo sia diventato, agli occhi di molti, unipolare e immodificabile. E lo è veramente se, chi ha coscienza, sensibilità e progettualità rinuncia, più o meno coscientemente, a mettersi al servizio per un nuovo progetto. Un nuovo manifesto, un nuovo patto sociale, politico, economico, generazionale che faccia trovare i nuovi punti di coagulo degli interessi collettivi. Che non sia fossilizzato sul classico e lineare schematismo tra padrone e lavoratore, forse non più attuale e con troppe variabili . Come possiamo intendere la figura del piccolo artigiano o commerciante con un paio di dipendenti? Padrone o lavoratore, “carnefice” o vittima? Lo stesso “padroncino”, rispetto le aggressive politiche delle multinazionali, del e-commerce che rischiano di spazzarlo via insieme ai suoi lavoratori, come lo inquadriamo in un ipotetico nuovo e diverso assetto sociale? Non andrebbero recuperate le sue ragioni ad una funzione propositiva, creativa e solidale piuttosto che lasciare il suo risentimento, la sua rabbia alla mercè di un populismo d'accatto e pericoloso? E il rapporto con la natura, l'ambiente e le sue risorse non andrebbero inquadrate in una nuova e più adeguata visone che punti al rispetto, salvaguardia e al riequilibrio sostanziale dello stesso, piuttosto che valutarlo in senso esclusivamente utilitaristico, tipico del capitalismo, di una certa visione cristiana, ma anche del socialismo storico? Se poi introduciamo pure la questione della robotizzazione e digitalizzazione dell'industria 4.0, che spazzerà via milioni di posti di lavoro appare indispensabile che a fronteggiare e gestire tali innovazioni epocali non possa essere lasciato solo l pensiero debole del meno peggio e dell'asservimento passivo alle logiche del potere capital-liberista. Al momento sembra che non ci siano le condizioni per poter immaginare un processo di tal genere, ma basterebbe, che ognuno intanto si ponesse in discussione, (so che è difficilissimo ma è il prerequisito necessario). Dovrebbe anche essere sufficiente avere la coscienza (perchè sarà così) che seppur la pandemia passerà, prima o poi, non passeranno l'ingiustizia, il prepotere, gli squilibri complessivi e, anzi, li conosceremo probabilmente anche nelle forme più ciniche e peggiori. MIZIO

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