"Spesso ci sono più cose negli spazi bianchi tra le righe,
che nelle parole".
Lo si incontrava spesso al tramonto, quando tornava dai
prati e campi che, all’epoca, ancora circondavano di verde la città. A volte in
bicicletta portando in precario equilibrio dei sacconi enormi di erbe
selvatiche: cicoria, pimpinella, finocchio selvatico, borragine e tante altre
che lui conosceva e sapeva cogliere nei tempi e nei modi giusti, molto più
spesso accompagnato dalla sua fedele compagna Rosina!
Era castana, di media statura con i fianchi robusti ma
non pesanti, occhioni dolci, orecchie regolari e mobili esattamente come ci si
aspettava che fossero e una coda in perenne movimento. Coda?... Già proprio
coda.Già, che sciocco, non avevo ancora detto che Rosina era un’asina, una bellissima, paziente
e, spesso, cocciuta asina.
Giolitti amava la sua asina, e il sentimento si era
rafforzato da quando la sua compagna l’aveva lasciato solo qualche anno prima.
Giolitti veniva da Norcia, non conoscevo il suo vero nome, era chiamato così
perché quando era giovane era uno dei
più attivi socialisti e uno dei primissimi simpatizzanti del neonato Partito
Comunista Italiano del ’21 del suo paese. Fu costretto dalla miseria e dalle
prepotenze fasciste nei suoi confronti a
spostarsi a Roma, dove non era conosciuto e, dove, magari, sperava di
trovare un lavoro che, qualunque fosse stato , sarebbe stato comunque migliore del nulla che lasciava al paese.
Ma, anche allora, per un giovane figlio di braccianti,
praticamente analfabeta e senza arte ne parte, non era facile trovare lavoro.
In più il suo carattere ribelle lo portava sempre a non accettare sfruttamento
e ingiustizie. E, quindi, a Roma cominciò a guadagnarsi da vivere sfruttando
l’unica cosa che conoscesse: le piante e le erbe offerte gratis da quella terra cui aveva provato a sfuggire .
A quei tempi la natura era ancora molto prossima alla
città. Quindi non ebbe mai bisogno di un mezzo di locomozione che non fossero
le due gambe. Nonostante la guerra e la fame, c’erano, comunque, sempre persone
facoltose disposte a pagare bene per qualche chilo di cicoria o un mazzetto di
asparagi selvatici. Tra l’altro quell’attività gli permetteva anche di non destare
eccessivi sospetti per l’altra missione che svolgeva in quel periodo, quella
dell’antifascista militante. Non era un vero e proprio partigiano ma svolgeva
incarichi di trasporto di messaggi, documenti e grazie al suo vagabondare per
la campagna, passava informazioni ai partigiani sugli spostamenti delle truppe
tedesche e dei fascisti intorno la città.
Poi la guerra finì, i fascisti si trasformarono
rapidamente in democristiani, l’Italia si avviava al suo grande boom economico
che cambiò tutto, o quasi, perché Giolitti, invece, continuò a cercare erbe nei
prati e ad essere comunista. Dicerie, da lui mai confermate, dicevano che
avesse anche sepolto delle armi abbandonate dai militari tedeschi nel suo
giardino, per essere pronto il giorno che sarebbe scoccata l’ora X della
rivoluzione.
Era solito quasi tutte le sere passare nella sezione
della borgata ove affascinava noi giovani militanti con le sue storie di gioventù e cantando canzoni
popolari o di lotta passando indifferentemente da Bella ciao allo Zigo Zago.
Nonostante l’età avanzata non era indifferente al fascino femminile
rappresentato in quei tempi dalle giovani compagne con i loro jeans, le ampie
gonne colorate e qualche più rara minigonna simboli del ritrovato orgoglio
femminile. Quando era in vena di confidenze si avventurava a raccontare le sue
conquiste giovanili, demolendo in noi la visione di una generazione puritana e timorata di dio, svelando intrecci,aspetti pruriginosi e disinibiti che ci sorprendevano e incuriosivano.
In breve per noi era rapidamente diventato un mito e aspettavano sempre con
ansia il suo apparire nel cortiletto che circondava la sezione, pronti a cantare
con lui bandiera rossa ma soprattutto ad ascoltare la sua saggezza contadina.
Le ragazze del circolo lo adoravano sopportando con buona pazienza i suoi
abbracci, non si sa quanto disinteressati.
A volte si assentava per alcuni giorni per ritornare al paese natio e la sezione sembrava, e lo era veramente, più vuota e triste.
Era da poco arrivata la primavera, quando un giorno lo
vedemmo arrivare col suo passo incerto e la sua figura sghemba, frutto di una
vita dura e di fatica. qualcosa era cambiato in lui, era triste, stava
piangendo, gli abbracci che cercava non erano quelli abituali, scherzosi e un po’
maliziosi: “ Non c’è più!.... Rosina è
morta”.
La notizia ci colpì come un pugno allo stomaco, sapendo
il profondo legame che c’era tra i due e vederlo in quello stato di
prostrazione profonda ci portò a considerare, forse per la prima volta, cosa
veramente fosse Giolitti.
Un anziano, o meglio, un vecchio che per trovare valide
motivazioni per vivere aveva due sole cose: una era la speranza di non morire
democristiano, come amava ripetere, l’altra era una certezza, rappresentata da
Rosina che adesso, però, non c’era più.
A volte si paragona la fragilità dei vecchi a quella dei
bambini, non è così. Il vecchio è molto più indifeso, non ha più la cosa più
importante per un essere umano: la speranza.
Continuò a venire in sezione ma sempre più di rado, quasi
in maniera automatica, come a ripetere i gesti e i passi che gli avevano
segnato la vita. L’entusiasmo, l’allegria la sua risata contagiosa si fecero sempre più
rari e malinconici. Niente più Bella Ciao o lo Zigo Zago, solo silenzi, occhi
umidi e persi nel vuoto.
Lui aveva sempre manifestato un desiderio, quello di
portarci a far vedere il suo paese natio, i luoghi della sua infanzia e
gioventù. Noi glielo avevamo promesso ma, come spesso capita, altre cose
prendevano sempre il sopravvento e la cosa fino a quel momento era stata sempre
rimandata. Bene, quel momento era giunto, glielo dovevamo a lui e a Rosina.
Quella mattina presto fu il primo ad arrivare all’appuntamento nel
luogo concordato con il bus affittato per l’occasione. Sicuramente non aveva
dormito per l’emozione e l’agitazione.
Mano a mano che ci inoltravamo nel verde dell’Umbria e
poi nella Valnerina, lui ringiovaniva a vista d’occhio, e ci faceva da cicerone
cercando di non tralasciare nessun particolare che paresse importante farci
notare.
Arrivati a Norcia, la sua andatura sghemba sembrò, per
miracolo, un ricordo e ci portò per vicoli, chiese, case e luoghi che voleva
condividessimo con lui con un'agilità e una velocità che non gli conoscevamo. Ci consigliò cibi e vino da consumare, ci presentò ai
suoi vecchi compagni (quei pochi ancora in vita), lanciò qualche improperio all’indirizzo
di qualche religioso, da buon mangiapreti, tipico di quei tempi ma, fatalmente e inesorabilmente arrivò il momento di ripartire.
Era forse un addio e lui lo sentiva, guardò a lungo il paese,
le mura, i prati, il fiume…la sua vita. Il ritorno, complice, anche la
stanchezza fu meno gaio e allegro dell’andata, soprattutto per Giolitti.
Arrivò la fine dell’estate e insieme ai primi temporali
una sera arrivò la notizia,: “Hanno portato Giolitti in ospedale, sta molto
male”.
Il giorno dopo lo andammo a trovare, non lo vedemmo... se n’era
andato con la sua compagna e con Rosina due ore prima.
Il funerale laico nel cortile della sezione cantando
Bandiera Rossa, Bella ciao e… naturalmente anche lo Zigo Zago. A pugno chiuso
salutammo per l’ultima volta Giolitti.
MIZIO
Qui sotto lo "Zigo, Zago"
Nessun commento:
Posta un commento