martedì 18 giugno 2013

LE STORIE DEGLI SPAZI BIANCHI: "GIOLITTI E ROSINA"

"Spesso ci sono più cose negli spazi bianchi tra le righe, che nelle parole". 



Lo si incontrava spesso al tramonto, quando tornava dai prati e campi che, all’epoca, ancora circondavano di verde la città. A volte in bicicletta portando in precario equilibrio dei sacconi enormi di erbe selvatiche: cicoria, pimpinella, finocchio selvatico, borragine e tante altre che lui conosceva e sapeva cogliere nei tempi e nei modi giusti, molto più spesso accompagnato dalla sua fedele compagna Rosina!
Era castana, di media statura con i fianchi robusti ma non pesanti, occhioni dolci, orecchie regolari e mobili esattamente come ci si aspettava che fossero e una coda in perenne movimento. Coda?... Già proprio coda.Già, che sciocco, non avevo ancora detto che Rosina era un’asina, una bellissima, paziente e, spesso, cocciuta asina.
Giolitti amava la sua asina, e il sentimento si era rafforzato da quando la sua compagna l’aveva lasciato solo qualche anno prima. Giolitti veniva da Norcia, non conoscevo il suo vero nome, era chiamato così perché quando era giovane  era uno dei più attivi socialisti e uno dei primissimi simpatizzanti del neonato Partito Comunista Italiano del ’21 del suo paese. Fu costretto dalla miseria e dalle prepotenze fasciste nei suoi confronti a  spostarsi a Roma, dove non era conosciuto e, dove, magari, sperava di trovare un lavoro che, qualunque fosse stato , sarebbe stato comunque migliore del nulla che lasciava al paese.
Ma, anche allora, per un giovane figlio di braccianti, praticamente analfabeta e senza arte ne parte, non era facile trovare lavoro. In più il suo carattere ribelle lo portava sempre a non accettare sfruttamento e ingiustizie. E, quindi, a Roma cominciò a guadagnarsi da vivere sfruttando l’unica cosa che conoscesse: le piante e le erbe offerte gratis da quella terra cui aveva  provato a sfuggire .
A quei tempi la natura era ancora molto prossima alla città. Quindi non ebbe mai bisogno di un mezzo di locomozione che non fossero le due gambe. Nonostante la guerra e la fame, c’erano, comunque, sempre persone facoltose disposte a pagare bene per qualche chilo di cicoria o un mazzetto di asparagi selvatici. Tra l’altro quell’attività gli permetteva anche di non destare eccessivi sospetti per l’altra missione che svolgeva in quel periodo, quella dell’antifascista militante. Non era un vero e proprio partigiano ma svolgeva incarichi di trasporto di messaggi, documenti e grazie al suo vagabondare per la campagna, passava informazioni ai partigiani sugli spostamenti delle truppe tedesche e dei fascisti intorno la città.
Poi la guerra finì, i fascisti si trasformarono rapidamente in democristiani, l’Italia si avviava al suo grande boom economico che cambiò tutto, o quasi, perché Giolitti, invece, continuò a cercare erbe nei prati e ad essere comunista. Dicerie, da lui mai confermate, dicevano che avesse anche sepolto delle armi abbandonate dai militari tedeschi nel suo giardino, per essere pronto il giorno che sarebbe scoccata l’ora X della rivoluzione.
Era solito quasi tutte le sere passare nella sezione della borgata ove affascinava noi giovani militanti con le  sue storie di gioventù e cantando canzoni popolari o di lotta passando indifferentemente da Bella ciao allo Zigo Zago. Nonostante l’età avanzata non era indifferente al fascino femminile rappresentato in quei tempi dalle giovani compagne con i loro jeans, le ampie gonne colorate e qualche più rara minigonna simboli del ritrovato orgoglio femminile. Quando era in vena di confidenze si avventurava a raccontare le sue conquiste giovanili, demolendo in noi la visione di una generazione  puritana e timorata di dio, svelando intrecci,aspetti pruriginosi e disinibiti che ci sorprendevano e incuriosivano.
In breve per noi era rapidamente diventato un mito e aspettavano sempre con ansia il suo apparire nel cortiletto che circondava la sezione, pronti a cantare con lui bandiera rossa ma soprattutto ad ascoltare la sua saggezza contadina. Le ragazze del circolo lo adoravano sopportando con buona pazienza i suoi abbracci, non si sa quanto disinteressati.
A volte si assentava per alcuni giorni per ritornare al paese natio e la sezione sembrava, e lo era veramente, più vuota e triste.
Era da poco arrivata la primavera, quando un giorno lo vedemmo arrivare col suo passo incerto e la sua figura sghemba, frutto di una vita dura e di fatica. qualcosa era cambiato in lui, era triste, stava piangendo, gli abbracci che cercava non erano quelli abituali, scherzosi e un po’ maliziosi: “ Non c’è più!.... Rosina  è morta”.
La notizia ci colpì come un pugno allo stomaco, sapendo il profondo legame che c’era tra i due e vederlo in quello stato di prostrazione profonda ci portò a considerare, forse per la prima volta, cosa veramente fosse Giolitti.
Un anziano, o meglio, un vecchio che per trovare valide motivazioni per vivere aveva due sole cose: una era la speranza di non morire democristiano, come amava ripetere, l’altra era una certezza, rappresentata da Rosina che adesso, però, non c’era più.
A volte si paragona la fragilità dei vecchi a quella dei bambini, non è così. Il vecchio è molto più indifeso, non ha più la cosa più importante per un essere umano: la speranza.
Continuò a venire in sezione ma sempre più di rado, quasi in maniera automatica, come a ripetere i gesti e i passi che gli avevano segnato la vita. L’entusiasmo, l’allegria  la sua risata contagiosa si fecero sempre più rari e malinconici. Niente più Bella Ciao o lo Zigo Zago, solo silenzi, occhi umidi e persi nel vuoto.
Lui aveva sempre manifestato un desiderio, quello di portarci a far vedere il suo paese natio, i luoghi della sua infanzia e gioventù. Noi glielo avevamo promesso ma, come spesso capita, altre cose prendevano sempre il sopravvento e la cosa fino a quel momento era stata sempre rimandata. Bene, quel momento era giunto, glielo dovevamo a lui e a Rosina.
Quella mattina presto fu il primo ad arrivare all’appuntamento nel luogo concordato con il bus affittato per l’occasione. Sicuramente non aveva dormito per l’emozione e l’agitazione.
Mano a mano che ci inoltravamo nel verde dell’Umbria e poi nella Valnerina, lui ringiovaniva a vista d’occhio, e ci faceva da cicerone cercando di non tralasciare nessun particolare che paresse importante farci notare.
Arrivati a Norcia, la sua andatura sghemba sembrò, per miracolo, un ricordo e ci portò per vicoli, chiese, case e luoghi che voleva condividessimo con lui con un'agilità e una velocità che non gli conoscevamo. Ci consigliò cibi e vino da consumare, ci presentò ai suoi vecchi compagni (quei pochi ancora in vita), lanciò qualche improperio all’indirizzo di qualche religioso, da buon mangiapreti, tipico di quei tempi ma, fatalmente e inesorabilmente arrivò il momento di ripartire.
Era forse un addio e lui lo sentiva, guardò a lungo il paese, le mura, i prati, il fiume…la sua vita. Il ritorno, complice, anche la stanchezza fu meno gaio e allegro dell’andata, soprattutto per Giolitti.
Arrivò la fine dell’estate e insieme ai primi temporali una sera arrivò la notizia,: “Hanno portato Giolitti in ospedale, sta molto male”.
Il giorno dopo lo andammo a trovare, non lo vedemmo... se n’era andato con la sua compagna e con Rosina due ore prima.
Il funerale laico nel cortile della sezione cantando Bandiera Rossa, Bella ciao e… naturalmente anche lo Zigo Zago. A pugno chiuso salutammo per l’ultima volta Giolitti.


MIZIO

Qui sotto lo "Zigo, Zago"


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