Un nuovo contributo dell'amico Psicologo Dott. M. Santopietro:
Premessa
Recentemente
un astrofisico, in relazione all’esperimento sui neutrini, ha affermato che di
tutti materiali dotati di massa che compongono l’universo, ne constatiamo
l’esistenza solo di una piccolissima parte (5%): l’apparenza. Infatti, noi non
conosciamo il restante 95%: l’essenza! Come dire: l’essenziale è veramente
“invisibile agli occhi”. Allo stato attuale, le leggi della fisica regolano
l’universo in cui sono compresenti sia la materia visibile che quella
invsibile. Inoltre, i neutrini avrebbero la proprietà di trapassare la materia
solida senza lasciare traccia del loro passaggio, che avviene alla stessa
velocità della luce (300.00 km/s).
Sebbene
lo scopo principale di questa riflessione non sia il tentativo di integrare il
mondo della trascendenza religiosa con quello scientista, essendo disciplinati
da ordinamenti di natura diversa, come credente, la prima immagine che mi è
venuta in mente rispetto a questa recentissima constatazione scientifica, è
quella di Gesù che attraversa le mura della casa dove erano riuniti gli
Apostoli (Gv. 20: 25-29). Se in ambito scientifico lo studio “dell’invisibile”,
è possibile mediante l’uso di tecnologie, di strumentazioni sempre più
sofisticate, di modelli fisici e matematici, di aggiornate metodologie
sperimentali, consentendo la verifica, l’acquisizione di nuovi dati di realtà,
aggiornando la rappresentazioni dell’universo, in ambito religioso, la ricerca
dell’invisibilità passa per altri accessi, per altre fonti, fra cui: la
tradizione e le istituzioni religiose dominanti, i dogmi precocemente
assimilati, l’esperienza spirituale soggettiva, la ricerca di segni tangibilili, le credenze popolari e, infine,
i testi sacri.
Oggetto
La
risposta dell’uomo ai “segni” divini, quale indicatore del rapporto con Dio
L’oggetto
della trattazione riguarda la reazione dell’uomo (credente e non credente) di
fronte ai “miracoli” di chiara matrice divina, intesa come indicatore
dell’atteggiamento spirituale verso Dio e verso Cristo.
Da
questo punto di vista, il miracolo
potrebbe essere considerato anche come segno di “incontro tra Dio e
l’uomo”, attraverso cui il Signore rivela la sua essenza soprannaturale,
divenendo quindi una sorta di “segnale” per far innescare nell’animo umano dei
ragionamenti su “realtà invisibili” o
non immediatamente comprensibili. Il primo ed ultimo scopo del segno divino è
legato indissolubilmente al piano di salvezza (Gv. 1: 1-7; Eb. 1: 1-5), per cui
la funzione, terminata con l’adempimento del N. T., è stata in generale:
1)
quella di rivelare la presenza divina, al fine di suscitare, potenziare la
fede, agevolando l’esecuzione del piano di salvezza (Esodo Capp. 3-17; Gv. 20:
30-31);
2)
quella di essere uno dei principali indizi d’identificazione profetica della
figura messianica (Lc. 7: 20-23);
3)
quella di confermare, attestare la natura e l’autorità divina del Messia, cioè
di Gesù, (Mt. 12: 38-42) e di attestare l’autorità degli Apostoli (Mt.
28: 18-20; Atti 2: 32-33, 3: 6-9, 19: 11; Eb. 2: 1-4).
La
tipologia dei comportamenti reattivi ai segni divini, rivelatrice della natura
della risposta dell’uomo a Dio, definisce la posizione spirituale della persona
prima e dopo la comparsa del segno. Siccome i riferimenti biblici relativi alla
comparsa dei segni divini sono numerosissimi, rileviamo arbitrariamente solo
alcune categorie di reazioni più note:
a) La strumentalità della richiesta dei
segni e lo sfruttamento del bisogno da parte dell’uomo.
b) Il rifiuto di riconoscere
Dio in presenza dei segni.
c) L’insoddisfacimento dei bisogni primari
quale causa dell’irriconoscenza verso Dio.
d) Le convinzioni personali e la mancanza
di aspettativa.
e) La malafede: negazione e capovolgimento
della verità.
f) La manifestazione dei segni nel mondo
contemporaneo.
g) Conclusioni. La conoscenza della parola:
il segno scritto quale unica fonte “miracolosa”
del ravvedimento.
Sviluppo
a)
La natura strumentale dell’invocazione e lo sfruttamento del bisogno
La
ricerca dei “segni”da parte degli uomini, assume prevalentemente una
connotazione strumentale, in quanto si articola prevalentemente in richieste di
“vantaggi personali”, sebbene legati a gravi
motivi di salute: quanti contemporanei di Gesù implorarono miracoli a
motivo dell’inguaribilità delle loro malattie? Quanti sono coloro che
frequentarono la “miracolosa” piscina di Betesda (Gv. 5: 1-15) o che ancora
oggi frequentano luoghi similari come i santuari di Lourdes, di Loreto ed altri
ancora, nutrendo chissà quanta speranza nella folgorazione del segno intimamente desiderato?.
Questa
mentalità, nel corso dei millenni, non sembra essere affatto cambiato nella
sostanza. E’ emblematica la richiesta fatta a Gesù, di operare dei segni, nell’episodio della moltipicazione
dei pani e dei pesci. Quando la fama di Gesù era all’apice, folle di persone lo
seguivano: alcuni per vederlo, altri per
ascoltarlo, altri ancora per ricevere una guarigione o per assistere a qualche
prodigio, ma lo cercarono soprattutto perché saziò loro la fame (Mt. 15: 32ss;
Gv. 6: 22ss). Gesù non ebbe difficoltà a esplicitare tale motivazione, infatti,
disse loro:”In verità, in verità vi dico che voi mi cercate non perché avete
visto segni, ma perché avete mangiato dei pani e siete stati saziati” (Gv. 6:
26). L’assurdità è che, plausibilmente, le stesse persone che avevano
partecipato allo straordinario evento, non si “resero conto” dell’eccezionalità
del segno mostrato da Gesù, che sfamò con pochi pezzi di pani e di pesci, 4000
persone senza comprendere nel conteggio donne e bambini! Ebbene, gli stessi,
probabilmente, ebbero il “coraggio” di chiederGli ancora un “segno”!! (Gv. 6:
30). Erano gli stessi che volevano incoronarlo re solo un giorno prima, gli
stessi, appena pochi giorni dopo, invocarono la Sua morte e la liberazione di
Barabba, sotto l’influenza delle autorità religiose (Mt. 21: 8-9; Gv. 6: 15).
Eppure si continua a credere nel proverbio “voce di popolo voce di Dio”,
nonstante il pensiero degli uomini sia distante da quello di Dio come il cielo
lo è dalla terra (Is. 55: 8-9). Questa è la volubilità caratteriale di una
certa categoria di cristiani, che corrispondono a coloro che spiritualmente
vengono “sballottati da ogni vento di
dottrina” (Ef. 4: 14).
Allo
stesso tempo, la necessità estrema della persona bisognosa aggrava il grado di
vulnerabilità soggettiva, riducendo drasticamente la capacità di pensiero
lucido, essendo totalmente pervasa dal desiderio di una guarigione a tutti i
costi, divenendo perciò facili preda per coloro i quali ne traggono profitto,
producendo anche un indotto economico-commerciale non indifferente in corrispondenza
dei noti santuari (II Re 5: 26; Atti: 3: 1-8; 8:13; 19: 23-26). Ancora oggi, la
fumosità dei confni del vasto “mercato delle soluzioni miracolose”, per
soddisfare bisogni profondamente sentiti come la salute, l’amore e il denaro, è
anche determinata dall’implicita natura promiscua: ritualità pseudo-religiose,
esotericità, alternative pseudo-scientifiche, chiromanzia, ecc…, che alimentano
pratiche e portafogli di sedicenti maghi, guaritori, cartomanti, operatori
dell’occulto, ecc…(Atti 19: 19-20). Il bisognoso subisce dolorosamente il danno
e la beffa: perde di vista Dio, perde la luce della ragione, perde i soldi.
Tornando
ai contemporanei di Gesù, è possibile che non si sarebbero ravveduti neppure se
Egli avesse compiuto altri mirabolanti segni, poiché non mostrarono la
disponibilità a credere secondo le Sacre Scritture, proprio come spiegò Gesù
nella parabola de “Il ricco e Lazzaro”. Già, entrambi, trapassati all’altra
vita, il ricco voleva che il povero Lazzaro
fosse inviato ad avvertire sulla terra i suoi cinque fratelli. Nella stessa
parabola Abramo, che simboleggia il Signore, rispose al ricco: “Se non
ascoltano Mosè e i profeti, non crederanno neppure se uno risuscita dai morti”
(Lc. 16:19-31). Per Gesù la parola scritta (all’epoca il Vecchio Testamento)
costituiva la vera fonte da cui far scorgare una fede sana e ragionata, non basata
sull’emotività, né sulle necessità del momento. Come allora, oggi, il
riferimento è sempre la fonte scritta: il
Nuovo Testamento (Gv. 20: 29; Atti 17: 11).
b)
L’irreversibile ostinazione a rifiutare la potenza dei segni di Dio
In
alcune fasi della storia biblica, Dio,
per realizzare il piano di salvezza, ebbe il “bisogno” di ricorrere alla
funzione dei segni, per svelare in maniera inequivocabile la sua potenza, la
sua autorità ma, soprattutto, per guidare il piano di salvezza. Nonostante
l’evidenza dei fatti, nonostante la drammaticità degli effetti di crescente
gravità, toccando il culmine con la vita dei primogeniti, il Faraone, dopo
l’iniziale paura che consentì agli Ebrei di adorare nel deserto, tornò a
ragionare secondo canoni di arroganza, fomentata dalla sete di vendetta, di
potere e di sfruttamento (Esodo 11: 10; 14:4-9). Ma cosa rese effettivamente
“cieco” il Faraone perché non potesse vedere la portata di tali prodigi?
Prima
ancora dell’influenza esercitata dai fattori sopra citati, la sua ostinazione a
non riconoscere il Dio degli Ebrei, può essere rintracciata nella “pienezza di
sé”, nella mancanza di umiltà, nella convinzione di poter leggittimamente porsi
al pari del Signore ma, in particolare, nel rifiuto di ragionare sulla
limitazione dei suoi poteri, del suo ego!. Il bisogno di negare la realtà dei
segni, preservò l’illusoria rappresentazione di sé come persona “onnipotente”,
ma rese impossibile di ragionare su Dio,
di pensare agli altri! Infatti: per Faraone, sottomettersi alle condizioni di
Mosè, sarebbe valso soccombere, accettare la propria condizione di “comune
essere mortale”, per quanto potente: una realtà troppo frustrante per una sorta
di “divinità terrena”, quale era considerata quella del Faraone.
La
risposta del Faraone ai segni di Dio, verrà ricalcata da una oppositrice,
malavagia figura: Jezebel, moglie pagana di Achab, re d’Israele (I Re, capp.
16-21; II Re 9:7; Ap. 2: 20), alla quale non bastarono nè la sconfitta della
sfida sul Monte Carmelo, nè la morte del figlio, né quella del marito, per
constatare i segni della potenza del Signore.
Fu
proprio durante il cammino nel deserto del popolo ebraico - antitipo della vita
dei crisitiani nel deserto della vita (I Cor. 10) che Dio, mediante Mosè (Nu. 21:
6ss), realizzò un inconfondibile segno messianico, in quanto precursore
dell’azione salvifica del Cristo (Gv. 14-15). Nella circostanza, all’ennesima
espressione della potenza dell’Eterno, che consegnò i Cananei nelle mani degli
Ebrei, seguì l’ennesima irriconoscenza del popolo, che mormorò contro Dio e
contro Mosè. Il luogo fu allora invaso da serpenti velenosi, che colpirono
tutti coloro che non fissarono lo sguardo sul serpente di bronzo forgiato e
innalzato da Mosè (Nu. 21:5ss). Gesù ricordò citò il passo a Nicodemo che,
forse, solo dopo la resurrezione, ne comprese il relativo significato. Sebbene
fosse un dottore della legge, uno studioso delle cose di Dio, ragionò su segni
operati da Gesù come il cieco nato (Gv. 9: 31), che senza erudizione, e senza
vista, riuscì a vedere in Gesù il Messia atteso.
c)
La vulnerabilità umana: bisogni insoddisfatti, amnesia della potenza di Dio
Nello
stesso episodio la parte che ha benificiato dei segni prodigiosi operati da Dio
è il popolo ebraico che, Dio non si limitò a trarlo dalla schiavitù egiziana,
ma l’accompagnò nel cammino nel deserto con altri segni tangibili della sua
presenza: come colonna di nuvola durante il giorno e come colonna di fuoco
durante la notte (Esodo 13: 21-22).
Quale
fu dunque l’atteggiamento di gran parte di quella gente fortunata? Non ci si
dovrebbe attendere da loro una cura gelosa del sentimento di illimitata
riconoscenza verso Dio, di preservazione indelebile della memoria per la
straordinarietà degli eventi vissuti? Eppure anche qui, la miseria della
debolezza umana emerge in tutta la sua triste evidenza, vanificando il senso
profondo di quella serie irripetibile di segni, che non servirono ad aprire il
cuore alla parola del Signore. Dopo solo un mese e mezzo, ai primi morsi di
fame e sete vennero meno la memoria della grandezza di Dio; il senso di
gratitudine per la liberazione ottenuta; la fiducia verso Dio, che rispose ai
mormorii (Esodo 16: 2-12) mostrando, agli ingrati figli, altri segni “vitali”,
come l’acqua, la manna, la carne. Il
culmine della cecità spirituale del popolo ebraico si verificò con la
produzione del famoso vello d’oro.
“L’Eterno
disse allora a Mosè: «Va’, scendi, perché il tuo popolo che hai fatto uscire
dal paese d’Egitto, si è corrotto; si sono presto sviati dalla strada che io
avevo loro ordinato di seguire; si sono fatti un vitello di metallo fuso, si
sono prostrati davanti ad esso, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: “O
Israele, questo è il tuo dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto”»”
(Esodo 32: 7-8). La prolungata assenza di Mosè e l’irrazionale bisogno di
rappresentare con i sensi il “dio liberatore”, furono sufficienti per far
cadere nell’oblìo il recente ricordo dei segni divini e gli orientamenti
del Signore. I segni, che avrebbero
dovuto far ravvedere Faraone e la sua gente, che avrebbero dovuto manifestare
l’eccezionale presenza del Signore
presso il suo popolo, non sortirono gli effetti sperati! La posizione
spirituale del popolo ebraico, durante il cammino nel deserto, fu insatabile e
debole, oscillando costantemente tra fedeltà e slealtà: quando agivano la
potenza dei segni divini, esprimevano intensa emotività e propositi di eterna
fedeltà; quando invece si presentavano le prime difficoltà, con la concomitante
assenza dei segni, manifestavano
rimpianto, incredulità e infedeltà (I cor. 10: 1ss). Un’altra reazione di
“attaccamento” alla vita passata, rispetto all’incontro con i segni del Signore
è quella di Lot e sua moglie. I due furono seriamente avvertiti di non girarsi
a guardare dietro, mentre avrebbero lasciato il posto. (Gn. 19: 1ss) La moglie,
non riuscì a domare l’impulso di
voltarsi dietro per cui si fermò, si voltò, osservò Sodoma e Gomorra mentre
erano colpite da zolfo e fiamme. Le guardò però con occhi nostalgici, non con
gli occhi della commiserazione: divenenne all’istante una statua di sale (Gen.
19: 26). Lot, cugino di Abramo, seppe guardare avanti al nuovo cammino segnato
dal Signore, non avendo nostalgia di quel recente passato immerso nella più
turpe promiscuità, rimpianto che colpì sua moglie, nonostante la presenza degli
Angeli, nonostante l’avvertimento, nonostante l’anomala distruzione in corso
delle città, nonostante la prospettiva di una vita sostenuta e guidata dalla
mano di Dio.
d)
Le convinzioni personali: la mancanza di aspettativa
Anche
se spinto dal forte bisogno di essere aiutato, l’uomo produce delle fantasie
circa la manifestazione del segno sperato, per la necessità di anticipare
l’evento in conformità con il proprio sistema di convinzione. Quando ci si
trova di fronte a questa forma di incongruenza, spesso l’uomo, pur di mantenere
stabile il proprio punto di vista, distorce, più o meno inconsapevolmente la
realtà esterna, compromettendo l’acquisizione di una nuova esperienza. Un caso
analogo capitò a Naaman, generale siro,
diventato lebbroso. In seguito al consiglio di recarsi in Israele, grazie ad
una donna ebrea “finita al servizio della moglie” (II Re 5: 2), Naaman affrontò
il viaggio portando dei doni, per sdebitarsi e
fantasticando su quanto avvrebbe liturgicamente compiuto l’uomo di Dio
per guarirlo dalla lebbra. Infatti, quando Eliseo, senza riceverlo, lo invitò a
bagnarsi sette volte nel Giordano, “Naaman si adirò e andò dicendo:«Ecco, io
pensavo:”Egli uscirà certamente incontro a me, si fermerà, invocherà il nome
dell’Eterno, il suo Dio, agiterà la mano sulla parte malata e mi gurirà dalla
lebbra» (II Re 5: 10-11). La disattesa di quanto fantasticato, generò ira e gli
accecò la capacità di pensiero, precludendogli la sperata guarigione, ma grazie
alle semplici riflessioni dei suoi servi, tornò sui suoi passi. I servi, che
gli esposero un ragionamento sensato, così gli dissero: “Padre mio, se il
profeta ti avesse ordinato una grande cosa, non l’avresti fatta? Tanto più ora
che ti ha detto:«Lavati e sarai mondato» (II Re 5: 13). Dalla posizione di
frustrazione, ira e miscredenza Naaman passò, attraversò l’umiltà, adempiendo
il consiglio dei suoi servi, alla posizione di accettazione. Alla constatazione
della guarigione, al generale non rimase
che riconoscere nel Dio d’Israele, l’unico vero Dio. Il generale allora avvertì
intensamente il bisogno di sdebitarsi e, benchè insistette fortemente, Eliseo
non volle nulla in cambio, perché nulla si può dare in cambio al Signore, se non un “cuore rotto e retto”.
Eppure un uomo di Dio, il servo di Eliseo, tal Ghehazi, che cercò di sfruttare
l’opportunità per racimolare qualche cosa, corse dietro alla carrovana del
generale, corse dietro alle concezioni del mondo. Duramente biasimato dal
profeta, Ghehazi, cambiando posizione spirituale, si ritrovò con la lebbra (II
Re 5: 27), della quale si era liberato un pagano, che divenne un uomo di Dio:
il segno più grande.
e)
La malafede: base del capovolgimento della verità
Il
presupposto “strumentale” dell’autorità religiose ebraiche, che poggiava sul
fatto che Gesù provenisse da Nazareth, indizio non citato dalle profezie
messianiche, si trasformò ben presto in un vero e proprio pregiudizio,
adeguatamente definito dallo “Zingarelli” come: «idea od opinione errata, anteriore
alla diretta conoscenza di determinati fatti o persone, fondato su
convincimenti tradizionali e comune ai più, atta ad impedire un giudizio retto
e spassionato» (“Zingarelli”, Vocabolario della Lingua Italiana). La
frustrazione per un’attesa non corrisposta di un Messia politico e geurriero,
liberatore non del peccato, ma dal dominio romano, unitamente all’autorevolezza
con cui il Signore predicava verità nuove e scomode per le stesse gerarchie
istituzionali (Mt. 23, 26: 3-4, 27:17-18; Mc. 1: 21; Lc. 20: 41-44; Gv. 7:
46-48, 11: 49-53), rimase tale a fronte degli riferimenti profetici e dei segni
miracolosi operati da Gesù. I sostenitori delle gerarchie religiose non solo
negarono preconcettualmente la messianicità di Gesù, ma in presenza di un’eniquivocabile
guarigione di un indemoniato muto e sordo, attribuirono l’origine del miracolo
all’Avversario, a Satana! Pur di salvaguardare la propria falsa convinzione,
pur di disconoscere la messianicità di Gesù, essi distorsero la realtà fino a
capovolgerla in maniera platealmente strumentale (Mt. 12: 22ss). In quella
circostanza emerse non solo il pregiudizio, ma soprattutto la malafede, cioè:
la “piena consapevolezza della propria slealtà e della propria intenzione di
ingannare […] (“Zingarelli”). Quelle stesse persone risucirono nell’impresa ad
essere responsabili dell’unica bestemmia imperdonabile: l’attribuizione fallace
di una qualità non pertinente alla natura del Signore e il rifiuto salvifico di
Gesù Cristo. Vi è un altro celeberrimo segno, che “condanna” quegli uomini
prevenuti e di malafede verso Gesù: è la guarigione del cieco nato (Gv. 9:1ss).
I farisei dunque interrogarono il miracolato per conoscere l’autore del
miracolo e la “posizione politica” del miracolato stesso. A fronte delle
invettive escogitate degli altolocati interlocutori, fece un semplice,
spassionato ragionamento attraverso cui riconosceva in Gesù un profeta, poichè
non avrebbe potuto compiere tali prodigi se non fosse da Dio. Spinti ancora
dalla malafede, i farisei misero in dubbio la cecità dell’uomo, così
convocarono anche i suoi genitori per sapere se fosse veramente cieco fin dalla
nascita. Dal momento che le istituzioni avevano già deliberato di far uccidere
Gesù e di espellere coloro i quali avessero creduto in Lui, i genitori
confermarono che era nato cieco, ignorando però chi gli avesse dato la vista e
delegarono al figlio le domande rivolte da loro per paura di essere espulsi
dalla sinagoga, cioè dall’attività sociale, cioè dall’appartenenza alla
collettività (Gv. 9: 22). Il miracolato continuò la sua logica deduzione sia
rimarcando lo strano imbarazzo degli stessi farisei sia affermando:”Ora noi
sappiamo che Dio non esaudisce i peccatori, ma se uno è pio e fa la sua
volontà, Egli la esaudisce” (Gv. 9: 31). La reazione coraggiosa e ragionata del
cieco all’incontro con Gesù fu, in quello particolare contesto, il modello
antitetico alla risposta in malafede di quegli uomini spiritualmenti ciechi. La
ciecità spirituale e la presunzione dei farisei si aggravò dopo la guarigione del
cieco nato, mentre questi, già possessore di una sensibile vista spirituale,
pur sapendo di perdere l’appartenenza alla sua collettività, guadagnò qualcosa
di enorme: la promessa dell’eternità (Mt. 19: 29; Gia. 4: 4-5). Lo smacco
subito dai farisei trasformò la malafede in pura invidia distruttiva (Mt. 27:
18).
f)
la manifestazione dei segni nel mondo contemporaneo
Oggi,
la manifestazione di un (presunto) miracolo sembra seguire una “procedura” mai
apparsa nelle cronache bibliche: le lacrime di una statua, così come accadde
qualche anno fa a Civitavecchia o la visione del presunto
volto di Gesù, ma più frequentemente della presunta Madonna, che chiede
inesorabilmente l’edificazione di un santuario, oppure la produzione di
stimmate in qualche parte del corpo -
meglio se sono mani - di un religioso o di un mistico. Nel mondo di origene
latina, tale prassi sembra essere tradizionalmente consolidata e convalidante
in sé, senza richiedere il confronto con il testo Sacro, sebbene lo stesso
fenomeno venga “vagliato” dalle gerarchie ecclesiastiche, il cui parere è
“politicamente” conforme alla posizione popolare. Il caso di Civitavecchia ne è
un esempio.
Si
sosteneva che la Madonnina piangesse sangue: subito iniziarono i pellegrinaggi
nel giardino privato del proprietario della statua. Nel frattempo, per una
serie di motivi che esulano l’argomento, le autorità giudiziarie ne disposero
l’esame del DNA. Le analisi stabilirono che il sangue, umano, apparteneva ad un
individuo di sesso machile!! Quale fu la reazione del Vescovo di Civitavecchia?
Mise le mani avanti? Diffidò il proprietario della statuina? Esortò i fedeli a
disconoscere la presunta origine divina del segno a motivo della prova del DNA?
No!! Affermò che il sangue, appurato che non fosse quello della Madonna, non
poteva che essere quello di Gesù!!! Le autorità ecclesiastiche scelsero di
salvaguardare il prorio pregiudizio a danno della verità, sia del mondo fisico
che dottrinale, capovolgendo la relatà dei fatti. Un santuario della Madonna a
Civitavecchia avrebbe costituito un ritorno economico e di immagine non
indifferente, tanto da risollevarla dalla crisi socio-economica e portuale in
cui era caduta: anche il sindaco era favorevole all’ipotesi del Vescovo (Atti
19: 24-25).
E
che dire del presunto miracolo del sangue di S. Gennaro? Addirittura, durante le fasi iniziali del suo
pontificato, Woytila depennò dal calendario il patrono di Napoli, perché figura
leggendaria: come andò a finire? Ancora oggi, gran parte dei napoletani
attendono il segno di S. Gennaro e, nonostante che le analisi chimico-fisiche
non confermarono la natura ematica del particolare composto - che osserva un
comportamento ciclico – la gente di Napoli è tuttora convinta che si tratti del “sangue di S.
Gennaro”. E le autorità cattoliche? Adottarono un comportamento esplicitamente
politico, sia per timore di contrastare la credenza popolare, sia basandosi,
erroneamente, sul proverbio: “voce di popolo voce di Dio”. Che dire della
cosiddetta “Sacra Sindone”, la cui origine, determinata dall’analisi effettuate
con il carbonio 14, risale al Medio Evo? Nonostante l’ennesima evidenza
scientifica, le stesse gerarchie ecclesiastiche invitano alla venerazione della
stessa immagine, quale strumento di ausilio spirituale! Inoltre, l’unico
documento serio che narra di Gesù, cioè il Nuovo Testamento, scritto in grego,
non descrive alcuno indizio relativo alla fisionomia di Gesù (né della
Madonna), anche quando, dopo risorto appare a Maria Maddalena (Gv. 20: 11-18),
agli Apostoli (Gv. 20: 19ss), ai due discepoli sulla via di Emmaus (Lc. 24:
13ss). Il Signore, ormai resuscitato, aveva perso i suoi connotati fisici,
tanto che la donna non lo riconobbe, scambiandolo per un ortolano (Gv. 20: 15).
Quale segno di identificazione dette allora il Risorto alla donna? Le ricordò
forse com’era la fisionomia di prima? La Maddalena riconobbe il Maestro
dall’intonazione della voce con cui solitamente la chiamò, sottolineando così
l’aspetto dell’intima relazione spirituale. (Gv. 20: 16). Più pregnante è
l’esempio dei due discepoli di Emmaus che, mentre erano di ritorno a casa,
furono avvicinati da Gesù. I due lo confusero con un forestiero (Lc. 24: 18).
Allora, quale segno di riconoscimento diede loro? Rievocò forse le
caretteristiche somatiche che aveva precedentemente alla resurrezione? Quale segno dette loro affinchè fosse
riconosciuto? Ma non ricorda questo episodio la parabola del “il ricco e
Lazzaro”, quando il ricco, preoccupato per le sorte dei cinque fratelli,
avrebbe voluto mandare Lazzaro a casa sua, perché convinto che l’unico segno
per il ravvedimento dei fratelli fosse una comunicazione proveniente dal regno
dei morti? (Lc. 16: 30). E la risposta
non fu dunque messa in pratica dallo stesso Gesù, quando annunciò il segno
della sua resurrezione iniziando da Mosè? (Lc. 24: 27). Gesù scomparve alla
loro vista quando Cleopa e il suo amico lo riconobbero nell’atto del benedire e
del “rompere il pane”, allora s’aprì loro mente all’insegnamento del
Maestro! (Lc. 24: 30).
Rispetto
al vissuto soggettivo, quale fonte di “percezione dei segni”, basti raccontare
una esperienza, tipica, realmente verificatesi. La persona, direttamente
coinvolta nell’evento, racconta che un giorno, mentre procedeva per un
marciapiede, appena qualche passo dopo, avvertì da dietro, un botto, ch’era
dovuto all’impatto di un vaso sul suolo. Dal momento che in quel fatidico
frangente evocò l’immagine di Padre Pio, dedusse che fosse poroprio il frate a
salvarlo “miracolosamente” dalla mortale collisione col vaso!. La persona, un
giornalaio, fece allora erigere nei pressi dell’edicola, come per sdebitarsi,
una scultura del frate a altezza d’uomo.
A
prendere le distanze da questi presunti miracoli ci inducono non tanto le
constatazioni di ordine scientifico, logico, storico, ma anche, e soprattutto,
dalla conoscenza della parola del Signore. L’unico metodo per valutare
l’effettivo riconoscimento di un “segno divino” che, in particolare oggigiorno,
è rappresentato dalla conoscenza della parola delle Sacre Scritture,
consegnataci integralmente nel 100 a. C.! La conoscenza della Bibbia ci fa
sentenziare che il “miracolo” delle lacrime di una statua è un “segno bugiardo”
(II Tes. 2: 9-11; II Tim. 4: 4 ), infatti: se tale manifestazione fosse di
origine divina, ci troveremmo di fronte a un contraddizione in termini, perché
se Dio ha inflessibilmente proibito, fin dall’inizio e per sempre, l’uso di
qualsiasi immagine e/o scultura (Es. 20: 3-5; Is. 44: 9-20; Giu. 1:9) non può,
allo stesso tempo, autorizzare una pratica che origina da un suo divieto: il padre
della bugia è, sin dall’inizio, l’Avversario (GV. 8: 44-47; II Cor. 11: 14 ).
Inoltre, la funzione dei segni, è andata a decadere con la morte degli
Apostoli, i soli che potevano trasmettere agli altri i “doni”, cioè la facoltà
di operare segni, infatti: “[…] se la parola pronunziata per mezzo degli angeli
si dimostrò ferma, e ogni trasgressione e disubbidienza ricevette una giusta
retribuzione come scamperemo noi se trascuriamo una salvezza così grande? La
quale, dopo essere stata annunziata prima dal Signore, ci è stata confermata da
quelli che l’avevano udita, mentre Dio aggiungeva la sua testimonianza alla
loro, con dei segni e dei prodigi, con opere potenti svariate, e con doni dello
Spirito Santo distribuiti secondo la sua volontà” (Eb. 2: 2-4). Il criterio di
discriminazione è dunque la Parola scritta: il Nuovo Testamento. I segni non
costituiscono più la via elettiva all’accesso alla fede (Gv. 20: 29; Atti 17:
11, 17: 30), avendo inoltre perso la funzione di sostenere e guidare il piano
di salvezza, perfettamente compiuto con la redazione dell’Apocalisse (verso il
100 d. C.), ultimo libro della Bibbia. E’ importante rilevare che, come gli
Ebrei sapevano, (Mt. 12: 22ss. ) non era solo Dio autore di miracoli (II Tes. 2: 9-11; II Tim. 4: 4)
anzi, Gesù parlò di coloro i quali “in
quel giorno gli diranno: Signore, Signore,
non abbiamo noi profetizzato in nome
tuo, e in nome tuo cacciato demoni, e fatte in nome tuo molte operi
potenti? E allora dichiarerò loro: Io non vi ho mai conosciuti; allonatanatevi
da me, voi tutti operatori di iniquità” (Mt. 7:21-23). Il passo citato rivela
come per il Signore sia importante l’ubbidienza, l’operare nell’ambito definito
nettamente della sua esclusiva parola, proprio perché basata essa stessa sulla
fede e sull’amore, (Eb. 11: 1ss; I Gv. 5: 2; II Gv. 1: 9) e non tanto la
capacità in sé di profetizzare, di fare opere potenti o cacciare demoni, che
possono ammaliare la debola vista sprituale degli uomini. La chiave per
comprendere, con onestà intellettuale e spirituale, l’origine dei segni, è
costituita dalla capacità di discriminare segni e dottrine provenienti dalle
tradizioni umani e quella divina (Is. 29: 13; Mt. 15: 1-9; Gal. Fil. 1: 9; Giu.
1:3) poiché “L’ora viene, anzi è già venuta, che i veri adoratori adoreranno in
spirito e in verità: poiché tali sono gli adoratori che il padre richiede” (Gv.
4: 24). La valutazione dei segni, nella tradizione cattolica si intreccia con
il vasto tema dell’idolatria, pratica pagana precristiana, strutturalmente
radicata in quasi tutte le religioni (tranne Ebraismo e Islam), divenendo il
più rilevante elemento di appartenenza etnico-nazionalistica di quella civiltà.
Questa complessità spiegherebbe il perché lo scontro di civiltà è
ineluttabilmente scontro di religione e viceversa.
Conclusioni
f)
La conoscenza della parola: il segno scritto quale unica fonte della
conversione cristiana.
Oggi,
l’unico segno miracoloso proveniente da Dio è rappresentato dalla conversione a
Cristo (Gv. Gv. 6: 44; Atti 2: 38, 4: 11-12; Rom. 10: 17) che, simbolicamente
inizia con la morte e la resurrezione di Cristo (Rom. 6: 1-12; Atti 9: 18, 10:
47-48; I Pt. 2: 21-22), aprendo un lungo cammino di trasformazione interiore:
spirituale, mentale, morale, caratteriale e comportamentale (Rom. 12: 2; II
Cor. 3: 18; Gia. 1: 21-23, 4: 4 ). Se allora la trasformazione è il segno del
divenire cristiano, del cambiamento precedente all’incontro con Cristo, ciò
vuol dire che cristiani non si nasce in nessun posto del mondo, ma, Dio, in
ogni dove, ha dato a tutti il diritto diventare suoi figli (Gv. 1:12). Eppure
il cambiamento, il miglioramento della persona, se non è “compatibile”
moralmente con i codici comportamentali dominanti, causa imbarazzo, biasimo,
condanna da parte della gente, come, ad esempio, avvenne nel caso
dell’indemoniato di Gerasa (Lc. 8: 26ss), al quale si erano “abituati” gli
abitanti della zona: “E la gente allora uscì per vedere ciò che era accaduto e
venne da Gesù, e trovò l’uomo dal quale erano usciti i demoni seduto ai piedi di Gesù, vestito e sano di
mente, ed ebbe paura. Or quelli che avevano visto l’accaduto, raccontarono loro
come l’indemoniato era stato liberato. Allora tutta la popolazione della
regione dei Gadareni chiese a Guesù di allontanarsi da loro, perché erano in
preda a un grande spavento” (Lc. 8: 35-37). Il cambiamento del miracolato,
segnato dall’incontro con Gesù, mise in crisi la stabilità delle convinzioni e
delle convenzioni individuali e sociali: al contrario della gente, che chiese
espilicitamente al Signore di allontanarsi da quel luogo, l’ex indemoniato
chiese invece di poter stare con Lui!!
Allora,
cosa direbbe oggi Gesù, a coloro i quali chiedono ancora dei segni, miracoli, prodigi? Gesù non
darebbe ancora il segno di Giona (Mt. 12: 38ss)? non direbbe loro che se non credono
ai Profeti e agli Apostoli sarebbe
impossibile ravverdersi? (Lc. 16: 31)?. Che direbbe Gesù a quelle persone che
nutrendo fede in Lui, elevano invocazioni, lamenti a Dio perché colpevole di
essere “assente”, di non inviare nessun segno che avrebbe potuto evitare le
innumorevoli tragedie, così come ricordò non molto tempo fa il papa Ratzinger,
o come è si è soliti fare in presenza di gravi sciagure umane? Allora, quale
segno ancora dovrebbe dare il Signore se non il segno dell’apparente “follia” di
Noè, che stava costruendo un barcone in montagna? “Infatti, come nei giorni che
precedettero il diluvio, le persone mangiavano, bevevano, si sposavano ed erano
date in moglie, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca; e non si avvidero di
nulla, finché venne il diluvio e li portò via tutti” (Gen. 6: 5-6; Mt. 24:
38-39).
La
ricerca del segno, nell’età contemporanea, è cercare la fonte della fede che
viene dall’udire [= conoscere] per mezzo di Cristo (Rom. 10: 17), che accende
la motivazione interna, quella più profonda, quella più salda (Mt. 7: 24-25),
azionando tutto il processo di ravvedimento, di conversione e di crescita
spirituale (II Pt. 1: 5-9).
Dott. Maurizio Santopietro
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