IL WELFARE DEI RICCHI
Sta
nascendo, anzi è già nato, è sotto gli occhi di tutti, ma quasi nessuno lo
vede. Per trovare qualcuno che ne parli bisogna cercare in rete, ma pochi lo
chiamano con il suo vero nome. Forse perché il suo vero nome è troppo
evocativo: nominarlo equivarrebbe a combatterlo. È il welfare dei ricchi.
Qualcuno
tempo fa ne aveva individuato gli effetti, ma senza analizzarne le cause,
Baumann ne “Il capitalismo parassitario” ne ha codificato il nome, definendo
“welfare dei ricchi” più o meno come il modo con cui gli stati riallocano in
favore dei capitalisti quelle somme che il resto della società non mette
“spontaneamente” a loro disposizione con i canali tradizionali (in primo luogo
attraverso extra profitti sulle vendite di beni o servizi, ma anche attraverso
le banche o la borsa: ad esempio con depositi bancari, acquisto di azioni,
acquisto di obbligazioni etc.). Io non invento niente, ma voglio analizzarne la
fenomenologia.
Il
significato della parola welfare è stato fin qui associato a qualcosa di
generale o che, al massimo, salvaguardava i più deboli. La comunità raccoglieva
i tributi e ne destinava una parte a mantenere i membri in difficoltà,
garantendo cure mediche, assistenza per i figli, scuole gratis, trasporti a
buon mercato e, vivaddio, addirittura una pensione quando si diventava vecchi.
Lo si faceva per tutti, ma quelli che ne traevano il maggior beneficio erano,
ovviamente, coloro che senza il welfare non avrebbero avuto altri modi per
affrontare dignitosamente la disoccupazione, le malattie, la vecchiaia, etc. Le
risorse c’erano e oggi ci dicono che non ci sono più, ma i numerosi libri su
sprechi, ruberie e corruzione ci hanno fatto capire che non è una questione di
soldi. Il welfare costa, ma la corruzione costa molto di più, le pensioni
impegnano un settimo del Pil, ma mafia, sommerso ed evasione fiscale costano
quasi cinque volte tanto. Il problema è che è sparita la crescita, che teneva
insieme capra e cavoli e quindi ci dicono che dobbiamo scegliere. Ed è allora
che la classe dirigente si è trovata di fronte al dilemma: la corruzione, la
mafia, il sommerso, l’evasione sono difficili da sconfiggere (ammesso che lo si
voglia davvero fare: quanta è la classe dirigente che ne fa parte?). Il
welfare, d’altra parte, è una gran cosa e non ci si può rinunciare a cuor
leggero, quindi, ecco l’ideona: teniamoci il welfare, ma solo per noi, così costa meno. Geniale,
no?
L’idea
è in corso di avanzata implementazione e nella realtà è stata declinata in
diverse maniere, tutte più o meno connesse al fatto che ai ricchi non serve il
welfare tradizionale, ma un sistema che li salvaguardi dai rischi che corrono
loro, ovvero bancarotta, galera, fallimento. Loro non vogliono ospedali o rendite,
perché li hanno già, oppure hanno già messo al sicuro i soldi per pagarseli.
Loro vogliono continuare ad essere ricchi, meglio se più ricchi: vogliono un
sistema che, qualunque cosa accada, li salvi dal tornare ad essere normali
(poveri mai… solo i calciatori o qualche artista riesce a morire povero dopo
essere stato ricco).
Vediamo
i fenomeni partendo da casi piccoli per arrivare al generale.
CASO1
– Azienda di servizi settore finanziario: 300 dipendenti , i suoi soci sono
altre aziende, a loro volta possedute da molti piccoli azionisti. C’è un 5% di
dirigenti – 15 persone – che si spartiscono circa un quarto del monte stipendi.
Un terzo di questa cifra va al solo AD. Il fatturato è in leggero, ma
inesorabile calo, dovuto ad un progressivo venir meno della domanda, sostituita
da altri servizi più convenienti. Diciamo che c’è lavoro per 250 o forse solo
per 200. Nel 2011 l’esercizio si è chiuso con 7 mln di perdita, mentre il 2010
era andata anche peggio. Come uscire dalla crisi? La risposta (si fa per dire) aziendale è di licenziare
50 persone, punto. Il risparmio sui costi è quantificabile in circa 3 milioni
l’anno, meno della metà della perdita. Nessun dirigente verrà licenziato,
nessuno di loro avrà lo stipendio ridotto. Se avessero tagliato l’inutile AD e
quattro altri dirigenti, anch’essi inutili, avrebbero risparmiato la stessa
cifra, ma colpendo solo cinque persone, oltretutto ricche. Peccato che non
l’abbia chiesto nessuno, nemmeno i sindacati. Che stanno trattando su quante
mensilità di incentivo dare agli impiegati che se ne vanno spontaneamente e
dicono che “non c’è altra strada” (approccio NCAS, do you know?)
Caso2
– gruppo RCS. Il giornale va discretamente, ma il gruppo perde soldi. Il
problema è la crisi, certo, ma anche che i manager, quando il gruppo andava
bene, hanno investito un sacco di soldi in alcune attività in Spagna che si
sono rivelate scarsamente profittevoli (eufemismo). Motivi? Mai chiariti: di
certo c’è solo che l’operazione fu fatta a prezzi spropositati e che i
beneficiari erano tutti legati a persone che stavano sia da questa parte della
barricata che dall’altra. Visto il piano di esuberi, il Comitato di Redazione
ha ricordato che “negli ultimi cinque esercizi (2007-2011), già segnati
dall’inizio della crisi, il monte dividendi distribuito agli azionisti ha
raggiunto quota 108 milioni di euro, contro risorse provenienti da aumenti di
capitale pari a zero”. La reazione degli
interessati è continuata con le armi a loro disposizione, cioè un’inchiesta in
tre puntate con nomi e cognomi (qui, qui e qui). Secondo il più puro “metodo
Junker” (*) i padroni, allora, hanno fatto un passo indietro: gli esuberi sono
rimasti, ma almeno un aumento di capitale lo hanno fatto, seppure con molti
distinguo. Ma il piano di esuberi è rimasto, e anche qui si discute su quanti
prepensionare, quanti incentivare e quanti licenziare, ma sui dirigenti, non si
è andati oltre una riduzione simbolica del 10% per quelli attuali. Quelli che
avevano avviato l’operazione Spagna sono andati via con ricche buonuscite e
nessuna azione di responsabilità verrà fatta. I ricchi impoveriscono gli
organismi che li nutrono, ma loro restano ricchi e gli altri si arrangino.
Caso3
– il classicone, MPS. Qui il nuovo management si vanta con i sindacati – senza
però dirlo in giro, ma ho fonti interne che è stato così – di avere incluso nel
piano di ristrutturazione anche il licenziamento di un centinaio di dirigenti,
oltre che i soliti quattromila e oltre esuberi normali. Ebbene, perfino qui,
dovendo scegliere tra ricchi, i trombati sono dirigenti con trattamento di
base, senza bonus. Gente che ha sacrificato le proprie famiglie per un ben
retribuito peregrinare in giro per l’Italia, dove però le mogli non potevano
cercare lavoro e i figli appena si ambientavano dovevano fare i bagagli. E
quando la prospettiva di tornare a casa si stava facendo vicina, zac. A casa
sì, ma senza lavoro, oppure a cercare lavoro nel posto sbagliato. Niente
rispetto ai problemi di altre categorie, ma la vicenda di molti dirigenti MPS
rende l’idea del criterio. Anche quando si toccano i ricchi, si parte sempre
dal basso.
Caso4
– Saliamo ancora di livello. Lo sapevate che anche nell’anno horribilis 2012,
con tutti a piangere miseria e a segare posti di lavoro, le società quotate
italiane hanno distribuito decine di miliardi di euro di dividendi ai propri
azionisti? Tanto per fare un esempio, 12,2 mld sono usciti nella sola giornata
del 20 maggio 2013. Tre volte il gettito dell’IMU. No, dico: dividendi. Se c’è
una cosa che si può segare in tempi di crisi sono proprio i dividendi. Avete
mai visto qualcuno dire: “ah, se non avessi i miei dividendi morirei di fame”?
Molti potrebbero dire una cosa del genere del proprio stipendio, ma non sono
ricchi e quindi, per loro, nessun welfare. La domanda, però, sorge spontanea:
perché gli azionisti devono essere protetti da un rischio che sanno benissimo
di correre quando acquistano un titolo? Perché devono guadagnare sempre anche
in tempi di vacche magre? E qui arriviamo ai grandi numeri che coincidono con i
principi del sistema stesso.
Caso5
– Grecia e Pigs. A scuola insegnano che a maggior rendimento corrisponde un
maggior rischio, quindi se presti soldi a un paese che non è in grado di
restituirli alle condizioni pattuite, è possibile, anzi in buona parte giusto,
che siano cazzi tuoi (e scusate il tecnicismo). Anche perché di solito hai già
scontato il rischio facendogli pagare un prezzo più alto e se non l’hai fatto,
torna al tecnicismo di cui sopra. E invece cosa succede? Di fronte alla
(annunciata) catastrofe intervengono stati, UE, FMI, mì nonno in carriola,
tutti pur di non penalizzare i creditori. L’ultima invenzione è di coinvolgere
i correntisti, ma solo sopra i 100 mila
euro, come se mettere i soldi sul conto corrente sia un tipo di investimento
anche quando il rendimento è prossimo allo zero (è strano che la soglia sia
ipotizzata per cifra, non per tasso, quando invece è il tasso che differenzia
chi deposita da chi investe). Sarò malfidente, ma forse c’entra il fatto che
nelle banche coinvolte i creditori spesso sono tedeschi, mentre i correntisti
lo sono molto meno, ma l’idea che un investitore non debba mai perderci, mentre
un depositante sì io non ricordo di averla letta nei libri di economia.
Caso6
– Subprime: l’origine di tutto. Le banche americane (ma non solo) fanno di
tutto e di più tra il 2001 e il 2007, creano profitti fittizi, si dividono dei
proventi fittizi e dopo, oops, i mercati scoprono che era tutto finto, tranne i
buchi che hanno seminato in mezzo mondo. E tranne le migliaia di poveracci
rimasti senza casa. Se si fosse intervenuto salvando quelli, cioè gli unici
poveri veri della situazione, nei bilanci degli stati oggi ci sarebbero molti
più margini di manovra, ma il welfare
dei ricchi non prevede eccezioni e quindi si sono salvate le banche al grido di
“ripristiniamo il credito”. Un po’ come se a uno spacciatore che ha ammazzato
dei tossici con pessima droga si facesse a gara per dargliene di nuova, in modo
che riprenda a spacciare il prima possibile. E senza nemmeno cazziarlo, anzi:
il 10% dei 700 mld del primo piano Paulson sono finiti in bonus per i manager.
Sai com’è, erano diritti acquisiti…
Devo
tornare a Baumann per chiudere dignitosamente questa carrellata di scempi. La
ragione di fondo di tutto ciò è che il capitalismo è un sistema parassitario:
trova la sua ragione di esistenza nel fatto che esistano altri organismi (non
ancora parassitati) da attaccare e svuotare, perché da solo non si potrebbe
sostenere. Solo che gli organismi esterni da cui attingere stanno finendo e
allora sono passati alle parti meno nobili dell’organismo stesso. Come se un
predatore affamato, dopo avere esaurito tutta la selvaggina in circolazione,
invece che darsi abitudini alimentari più sane, tipo lasciar riprodurre le
prede, coltivare la terra etc. cominciasse a mangiarsi una fetta di chiappa, o
un po’ di rotolini e poi, quando ha finito il grasso, iniziasse ad attaccare i
suoi stessi organi: prima un pezzo di milza, poi un angolo di fegato, un quarto
di polmone. Del resto, continua lo stesso Baumann in “vite di scarto”, è nella
natura stessa del capitalismo di produrre scarti, cioè aree sempre più larghe
di cui il sistema non sa che farsene. Sta nel concetto malato di “efficienza”,
che rende via via inutili organismi che fino a ieri erano essenziali per la
produzione, definendoli ipocritamente “esuberi”. Oddìo, gli organismi inutili
sarebbero ancora utilissimi in veste di consumatori e di taxpayer, ma questo è
un concetto troppo complesso per la maggioranza del board della BCE, che al
limite (ma proprio al limite) concepisce l’idea di farne dei mini-jobbers dai
mini-redditi. L’ideale sarebbe quello che Naomi Klein ipotizzava già prima
della crisi del 2008: un mondo solo per ricchi, dove i produttori si occupano
solo di prodotti di lusso e non hanno più bisogno di vendere nulla agli
esuberi, magari (meglio) senza più quell’imbarazzante orpello di tutte quelle costituzioni
democratiche, così ingombranti, vecchie e demodè.
Quindi:
la linea è e resta una sola: tagliare tagliare tagliare il welfare dei poveri
per mantenere e, ovunque possibile, ampliare quello dei ricchi. Il welfare,
come la democrazia, è un lusso che non possiamo continuare troppo a lungo a
permetterci.
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