In vista del dies irae del 30 luglio pv, il Presidente della Repubblica si è affrettato a “chiudere la finestra di ottobre”, per eventuali elezioni, e,
stando ai resoconti giornalistici, ha aggiunto che le intese di aprile –quando
accettò di essere rieletto- erano per un esecutivo che durasse sino al 2015.
Implicitamente, il Presidente ci ha fatto sapere di un patto i cui termini sono
ben diversi da quelli fatti trapelare nell’immediatezza dell’accordo: allora si
parlò di un esecutivo di durata breve, con il compito di cambiare la legge
elettorale, fronteggiare l’immediatezza della crisi e poi andare a votare. Poi,
man mano, la riforma elettorale è andata scivolando in avanti e si è iniziato a
dire che il governo “non ha scadenza” e che si sarebbero dovute fare anche
altre riforme istituzionali mettendo mano alla Costituzione; donde la nomina
del comitato dei “saggi” di cui abbiamo già detto. E qui spunta che una
scadenza c’era, il 2015, dunque non tanto a breve.
Si
tratta dei due anni che, prevedibilmente, una revisione costituzionale
comporta, considerato che essa richiede, oltre al tempo necessario a trovare
una intesa, l’approvazione delle due Camere in doppia lettura, con intervallo
di tre mesi fra l’una e l’altra. Ma questo se non ci sono incidenti di
percorso, magari l’approvazione di un piccolissimo emendamento che
richiederebbe di nuovo la doppia lettura con il trimestre di intervallo. E poi
bisogna considerare anche la possibilità di un ostruzionismo da parte del M5s
e, magari, di Sel che, con i loro 200 parlamentari e passa, potrebbero bloccare
i lavori per mesi e mesi, anche perché nel processo di revisione costituzionale
non è possibile stroncare l’ostruzionismo ponendo il voto di fiducia al
governo. Niente paura: il governo avanza un disegno di legge di deroga alle
procedure previste dall’art. 138 riducendo ad un mese l’intervallo fra le due
deliberazioni.
E
che nel processo di revisione della Costituzione abbia voce in capitolo
l’esecutivo è una novità assoluta. Questa procedura eccezionale consisterebbe
in una sorta di deroga una tantum, per sveltire i lavori finalizzati ad una
limitatissima riforma costituzionale, come l’abolizione del voto di fiducia da
parte del Senato, così da evitare un blocco come quello seguito alle elezioni
di febbraio. Ma, come fa notare il costituzionalista Alessandro Pace
(Repubblica 8 giugno 2013), la proposta governativa dovrebbe essere approvata
con procedura ordinaria, per cui faremmo passare il principio per cui una legge
ordinaria può derogare alla Costituzione e questo potrebbe essere ripetuto per
qualsiasi altra revisione. Di fatto stiamo aprendo la porta alla
disarticolazione dell’art. 138 e, con esso, della stessa attuale Costituzione.
D’altra
parte, se tutto quello che c’è da fare è emendare il nostro bicameralismo,
basta riscrivere l’art 94 ed al massimo le prime due righe dell’art. 81. E per
fare questo nominiamo una commissione di quaranta “saggi”? Il dubbio che sorge
è che questa specie di Sinedrio debba preparare una revisione organica della
Costituzione e che la “deroga” attuale sia solo la legittimazione di ben più
sostanziose prossime deroghe. Anzi, ad essere proprio maliziosi, sorge il
sospetto è che il testo della nuova Costituzione sia già pronto e giaccia in
qualche cassetto (della Jp Morgan per caso?). Ma noi non siamo così prevenuti e
non lo diciamo.
Però
non possiamo tacere che, di fatto, siamo alle soglie di una vera e propria
rottura costituzionale: l’art. 138 fa parte della Costituzione e non può essere
modificato con procedura ordinaria, anzi, per la delicatezza della sua
funzione, è l’ultimo per il quale si possa pensare una procedura tanto
disinvolta.
E
qui veniamo al ruolo del Capo dello Stato. Tutto fa intendere che la partita
della revisione costituzionale –ben oltre che la questione dell’art. 94- abbia
fatto parte delle trattative che portarono alla rielezione di Napolitano che
oggi, infatti, blinda il governo per evitare quelle elezioni che
sospenderebbero questo processo così avviato. Dunque, Letta deve durare perché
il Presidente vuole che la Costituzione cambi, in tutto o in parte. Ma dove sta
scritto che il Presidente della Repubblica possa farsi promotore del
cambiamento costituzionale? Qualche studio di diritto costituzionale ci fa pensare
che lo Presidente abbia, piuttosto, il compito di garantire la Costituzione
vigente. A cambiarla –e secondo le regole previste da essa stessa- devono
pensare altri. E, pertanto ci si attende che il Presidente rifiuti di firmare
il Ddl governativo, per la palese violazione dell’art. 138 e, con esso, la
lettera e lo spirito della Costituzione e che, ne investa la Corte
Costituzionale. O magari che indirizzi un messaggio alle Camere per avvertire
del carattere anticostituzionale della norma che stanno per varare. Ma questo
non accade e non accadrà, per la semplice ragione che Napolitano è interno al
progetto.
Occorrerà
riflettere molto attentamente su cosa ha rappresentato la Presidenza Napolitano
negli equilibri costituzionali, qui ci limitiamo ad osservare che il Presidente
ha spostato l’accento della sua azione più sulla garanzia dei patti
internazionali dell’Italia (dai patti Ue ad gli accordi di Marrhakesh, per non
dire dei patti impliciti rappresentati dai titoli di debito pubblico) che su
quella della Costituzione. Di fatto, negli ultimo quattro anni, Napolitano, più
che rappresentare la Nazione all’estero (come prescrive la Costituzione), ha
piuttosto rappresentato la Ue e la Bce presso il governo ed il Parlamento. Una
sorta di “commissario agli atti”. Ed, in questa inedita metamorfosi della
figura del Capo dello Stato, si sono determinate una serie di alterazioni nei
rapporti fra istituzioni della Repubblica. Per molto meno, l’allora Pds stava
per chiedere la messa in stato d’accusa di Cossiga per attentato alla
Costituzione. E’ arrivato il momento di dire che siamo ad un passo dalla
rottura costituzionale e dal colpo di Stato “bianco”. di Aldo Giannulli
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