«Le
parole sono pietre». Bisognerebbe rileggerlo ogni tanto quel libro scritto da
Carlo Levi fra quaranta e cinquant'anni fa, che include tanta Sicilia storica,
malricordata se non da intellettuali, studiosi e vecchi contadini, ma tuttora
attualissima. Quando ne scegli una, o la crei, o ne tramuti consapevolmente o
inconsapevolmente il senso, e la pronunci o la scrivi con precisa o innovata
accezione, hai lasciato un segno, espresso un concetto, lanciato una spora. Può
essere deliberato, quando assume valore traslato di simbolo: fascio, ego,
piazza; o di categoria: consumatore, operatore, terrorista. O spontaneo (ma che
resta): sniffare, ottimizzare, dopare. Dire «libertino» è tutt'altro che dire
«libertario», e c'era una volta un vecchio redattore di tempi andati che
passava le agenzie di esteri ed era un poco imbranato sulle novità, il quale,
per essere sicuro, mostrava un dispaccio da sviluppare e chiedeva: «Ma questi,
come sono per noi: patrioti o terroristi?». E parlava di algerini allora
francesi e di indocinesi non ancora vietnamiti. Lo stesso problema si pone per
Guglielmo Oberdan e il kamikaze anonimo, per Giuseppe Mazzini e per Osama Bin
Laden, per gli attentatori partigiani di Via Rasella e per quelli islamici
delle Twin Towers. La parola che attribuisce qualità è come un adesivo. La
appiccichi e lì resta: «Et emissum volat irrevocabile verbum» scriveva Orazio.
Se la lanci come un sasso fiondato è difficile poi rimangiartela smentendo.
«Voce dal sen fuggita / più richiamar non vale. / Non si trattien lo strale /
quando dall'arco uscì»: questo è Metastasio e infatti fu per un suo solo
imprudentemente enunciato sostantivo che mesi fa dovette dimettersi il ministro
degli Interni di questa Repubblica.
Ammonisce
in uno dei suoi densissimi saggi («Le parole e le cose») un filosofo dalla
drammatica vita e dalla drammatica morte come Michel Foucault che il più delle
volte singoli elementi del nostro lessico - cito a memoria la sostanza - mutano
significanza non per motivi linguistici bensì per influenze provenienti, epoca
per epoca, dai più vari comparti socioculturali. Agenti esterni in forza dei
quali il linguaggio non è più da considerare, aristotelicamente, binario ma è
divenuto secondo la sua definizione ternario da quando fra il significante e il
significato si sono infiltrate non solo diversità accezionali ma anche - e
questo lo sottolineo aggiuntivamente io - la metafora e l'allusione, cioè la
duplicità del senso. E ciò già molto ma molto prima che de Saussure e
Wittgenstein traducessero con questi due termini l'equazione fra «il nome» e
«la cosa» stabilita 400 anni prima di Cristo dal genio filosofico di Stagira.
Perché penso che questa operazione infiltrante furono i poeti ad iniziarla, con
le evocazioni ed i rimandi ad altro, scritti e fonetici, dei loro versi. Quanto
ad oggi, non c'è praticamente titolo di giornale o dichiarazione di politico
che non abbia, per i lemmi usati, una doppia valenza di lettura: per i semplici
e per gli scafati. Cosa significa: «Tutti d'accordo, riforme necessarie»? Cosa
significa: «Alle urne se ci sarà un bis del '94»? Nel primo caso, dietro al
livello del comune consenso, c'è la seconda lettura che riguarda
miratamente"quelle particolari riforme" di modifica costituzionale, e
questo già scompone in opinioni diverse quel «tutti» e una gran parte ne
emargina. Nel secondo caso, si legge in trasparenza una minaccia di appello
"al popolo" se un Tribunale condannerà un certo imputato; ci si
possono vedere insomma, dipende dagli occhiali che si inforcano, sia una
ordinarietà oggettiva sia un golpismo strisciante alla maniera di un dejà vu
italiano.
Quella
che usa le parole in modo particolarmente doppio e puntato al sublimine
individuale è la pubblicità. Spesso anche scindendo valenza semantica e valenza
alfabetica («O così o Pomì»: salsa; «Chi sì e Chinò: bibita) oppure
concettualità e grammatica («You Arrogance me», che sarebbe come dire
«Arrogànzami» e "senti" pure, leggendolo, come sarebbe ròca la voce:
e questo è un profumo. Quello appena esposto è un uso astuto delle parole, ma
ce n'è anche uno stupido: «Ah, cosa non faresti per la tua famiglia...», e il
nome di una carta igienica. Oppure, per una minerale: «L'acqua che viene
dall'acqua» (perché, le altre da dove vengono?), che suona così bene e non vuol
dire nienteI. Ma c'è poi un uso delle parole che è senza meno, anche se non ci
si fa caso, criminale. Nel rapporto, spesso stabilito, fra mondo animale e
mondo dell'auto, non c'è niente di male lanciare una minivettura dandola agile,
nel traffico, come «una gazzella» o un camioncino definendolo robusto come «un
elefante». Ma indurti a comprare un'automobile di una grande marca europea
sillabandoti con suasiva vibrazione di voce - l'ho sentito io ieri in un
intervallo radiofonico - che è «una belva», «una pantera», ecco questo è
qualcosa che configura senz'altro istigazione dolosa al rischio stradale. Come
il nostro sistema viario non fosse già abbastanza insanguinato. Della
incontrollata pericolosità, sociale e culturale, contraddistinguente gran parte
della pubblicità stampata e televisiva è costatabile quanto poco ci si renda in
genere conto. Ci si rivolge al pubblico (al "mercato") come fosse
un'entità cieca, fatta di carta assorbente o spugna, e non un insieme di
normali e rispettabili persone, trattandole come fossero bestie di cui
solleticare gli istinti, o parlando loro il linguaggio che gli adulti usano coi
bambini, o facendo sotto i loro occhi giochi di prestidigitazione (vedi gli
spot di qualche istituto di credito o di gestione fondi). Il grave è che questo
tipo di metodologie comunicative indotto dalla pressanza pubblicitaria si
infiltra sempre più nella politica e che ad esso soggiacciono sempre più i
media persino nel trattamento delle news.
Batti
e ribatti su certe locuzioni, si finisce per mandarne perso il senso reale.
Direste mai, per esempio, una frase come «riformare la Libertà»? Eppure,
Parlamento e giornali risuonano di una tambureggiante «riforma della
Giustizia». La maiuscola ce l'ho messa perché spesso con la maiuscola la
troviamo scritta e capiamo dalla foga verbale che viene anche pronunciata. Ora,
la giustizia, come la libertà o l'amore (che pure un'istituzione non è, ma un
sentimento) non sono riformabili: o ci sono o non ci sono. Venendo alla sostanza:
si possono riformare i codici penale e civile, quelli di procedura e anche
l'ordinamento della magistratura, e perfino la Costituzione. Si può anche
decurtare l'elenco dei reati e aggiungerne di nuovi. Ma la giustizia no, la
giustizia è in sè irriformabile perché la giustizia è l'applicazione erga omnes
delle leggi. Punto.
Siamo
dunque di fronte a uno svarione culturale e contemporaneamente a una sottile
perfidia linguistica. Cascarci ed accettarli è da sprovveduti. Affermarlo
perché si vuole vincere un contingente braccio di ferro fra potere politico e
potere giudiziario, o scriverlo solo perché è un'unica parola di nove lettere
più facilmente introducibile nel programma computerizzato che sforna i titoli,
è una mossa di scherma da un lato e una leggerezza dall'altro. Un capo di
governo che dalla magistratura voglia trasferire ai detentori di seggi
parlamentari o alla percentuale di elettori effettivamente votanti il potere di
giudicare i politici cui sia avvenuto di trovarsi imputati, in quanto i magistrati
altro non sarebbero che dei «semplici vincitori di concorso», afferma cosa che
in un regime libero e ordinato non si dovrebbe mai sentire (e da quello
scranno, poi). A momento di amministrare giustizia, infatti, come non fidarsi
più di chi studia per cinque anni diritto all'Università, poi si prepara e
vince un concorso difficile, fa una lunga esperienza di "uditore
giudiziario" e solo dopo comincia a salire gradini che lo portano ad
essere inquirente o giudicante? Intendo rispetto ad eletti alle Camere che sono
sì, per una parte e fortunatamente, di grande qualità ma per un'altra parte vi
sono fortuitatemente pervenuti per volere o convenienza di chi li ha scelti per
offrirli in lista alla croce che segna l'elettore: e prigionieri dunque d'un
debito e di un distintivo politico appuntato al bavero. Anche che il
parlamentare esercita il suo incarico «senza vincolo di mandato», cioè in piena
personale autonomia, è scritto nella Costituzione, ma ciò è violato dacché
esiste la disciplina (in sè, a ben vederla, appunto incostituzionale) imposta
dai gruppi parlamentari. Ciascuno dei quali li vuole invece muoversi come un
sol'uomo.
Qualcos'altro:
è invalso chiamare premier il presidente del Consiglio: una parola invece di
tre, che pacchia digitale! Ma le parole hanno una storia e delle varianti
d'accezione. In Inghilterra questa viene nientemeno che dalla Tavola Rotonda,
assiso alla quale re Artù era primus inter pares. Dire «premier minister» è una
conseguenza (lì anche il ministro della Marina si chiama «Primo Lord
dell'Ammiragliato») e accorciarlo in «premier» una comodità. Ma qui premier è
veramente Primo, com'è inteso, e tutti gli altri «impares». Così proprio come
per il «Primo Console» Bonaparte. Il background delle parole va conosciuto,
specialmente se ne hanno due; se no non si capisce bene quel che capire si
dovrebbe. In cambio, i sottosegretari (che brutto, quel prefisso «sotto») sono
stati promossi, àah, «viceministri». Nelle Regioni, poi, sempre meno Presidenti
e sempre più Governatori. E' la differenza (solo lessicale?) fra chi modera e
chi comanda. Avevo già segnalato in una precedente rubrica il grottesco di
tramutare «ministero del Lavoro» in ministero del «Welfare» (= Benessere) e
quello «della Sanità» in «della Salute», spiegando che il primo di questi due
nomi era un termine oggettivamente strutturale e il secondo, auguralmente,
atteneva alle persone. Ispirare ottimismo piuttosto che badare alla funzione,
non è questo un canone basilare della pubblicità? Eh, sì che son pietre le
parole. Qualche volta ben pesanti nel messaggio che contengono e qualche volta,
sempre nel messaggio di cui son caricate, solo ridicole. di Etrio Fidora
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